In questa esposizione, cercherò di occuparmi della riflessione sui meccanismi del comico, nei limiti in cui viene trattata nel volgere di pochi anni da Bergson e Freud, non tanto come luogo di un incontro fra due opzioni teoriche di esito differente, quanto piuttosto come individuazione di un comune humus, che ha permesso da un lato la fioritura del bergsonismo, dall’altro la nascita di una delle teorie più rivoluzionarie del Novecento, anche nei termini della portata extra-specialistica e culturale.
L’interesse di Freud per la costellazione semantica che comprende comico, umorismo, ironia e arguzia nasce abbastanza presto: già nell’ Interpretazione dei sogni si attestano numerosi riferimenti ai motti di spirito, ai giochi di parole e al riso come scarica. La logica operante nel materiale onirico analizzato era simile a quella che si riscontra nei motti e nelle trovate di spirito, tanto che dai racconti dei pazienti scaturiva spesso comicità; questo avveniva sia a livello di uso della singola unità di significato che nella sintassi logica dei pensieri. Si ritiene che uno spunto decisivo alla stesura del testo sul motto di spirito sia stato un rilievo mossogli da Fliess, che aveva rilevato che i sogni raccontati nell’Interpretazione erano “troppo spiritosi”.
Dunque è solo col testo sul Witz che la sua riflessione assume una dimensione strutturata, tale da fare del motto di spirito una delle modalità fondamentali della presenza dell’inconscio nella porzione cosciente della vita psichica. Contemporaneamente, Freud esplicita alcune sue idee sul comico e sull’umorismo che hanno una funzione complementare, per comprendere meglio il nucleo della sua teoria sul Witz, quasi in guisa di una lakatosiana “cintura protettiva”. Freud dichiara esplicitamente di essere giunto all’idea di occuparsi dell’arguzia per alcune significative analogie con il linguaggio del sogno, nella sua rilevanza per la neonata disciplina psicoanalitica.
L’interesse di Bergson per i meccanismi del comico è figlio dell’incrocio fra il diluvio di letture psicologiche e psicopatologiche che avevano segnato il giovane filosofo, e una temperie culturale – quella della Parigi fin de siècle – estremamente attenta all’intreccio fra piano psicologico, biologico e sociologico, nell’ambito di una fiducia nelle capacità analitiche di marca positivista. Il fenomeno del riso veniva percepito come un’istanza residuale, refrattaria alle possibilità di riduzione analitica, e la voce di un filosofo che verso il positivismo si faceva – in parte suo malgrado – portatore di critica, fungeva da ansiolitico per la borghesia del tempo, in quanto al riparo dal moralismo austèro di molti testi psicopatologici o sociologici parigini coevi[1] . Dal punto di vista teorico, lo scritto di Bergson è sicuramente un banco di prova delle tesi di Matière et mémoire e dei contemporanei studi sulle patologie di memoria, volontà e personalità, nei termini questa volta di un confronto con la vita sociale. Questo piccolo scritto costituisce in altre parole una cerniera fra l’interesse psicologico individuale del giovane Bergson e l’approccio sociobiologico degli ultimi testi.
Ma, al di là di queste differenze, dobbiamo rilevare che la formazione intellettuale di questi due autori si situa comunque nell’alveo del positivismo, e risente dell’assorbimento della cultura scientifica del tempo come modello orientativo. In particolar modo, poiché le scienze fisiche costituivano un riferimento privilegiato in termini di rigore formale e coerenza interna, il lavoro dei due intellettuali doveva riflettere paradigmi epistemologici coevi: lo slittamento da un modello meccanicistico a uno energetico, portato della rivoluzione della termodinamica. Un dinamismo ricatturato in una logica deterministica orienterà l’assetto teorico della psicologia freudiana, mentre un’irriducibilità dei fenomeni della psiche ad ogni forma di determinismo rigido caratterizzerà il contributo di critica al positivismo del giovane Bergson. Laddove la metodologia bergsoniana farà ricorso, accanto ai dati empirici, all’introspezione profonda, Freud si baserà piuttosto sul materiale manifesto come segno di qualcos’altro, spostando dunque l’attenzione dai processi più raffinati di manifestazione della coscienza (intelligenza logica, intuizione) a quelli più primitivi, in cui meno è evidente la discontinuità evolutiva fra l’uomo e le altre specie, a cui invece ha sempre tenuto Bergson. Il filosofo dell’Essai d’altro canto, rigetta la dimensione strettamente quantitativa dei fenomeni psichici, da cui pure egli era partito[2] ; diversamente, Freud non rinuncia ad apporre il “sigillo” del numero ai propri risultati[3]. Già Baudelaire, occupandosi del riso, utilizza termini energetici: emanazione, esplosione, liberazione. Sia Freud che Bergson riprenderanno inoltre il legame baudelairiano fra riso e infanzia, e il carattere essenzialmente sociale del comico.
Bergson pubblica Le Rire nel 1900 in volume, dopo che lo scritto era già apparso diviso in parti sulla Revue de Paris l’anno precedente. La pubblicazione porta come sottotitolo Essai sur la signification du comique. Il riso non viene analizzato dal punto di vista della biofisica, delle sue possibili rilevanze neurologiche, del valore funzionale di una determinata contrazione muscolare[4]; dunque questo titolo sembra destinato ad un valore allusivo, a orientare il lettore ad un’opera sul comico di un certo spessore letterario, con un “tasso di figuralità” adeguato al titolo. Poi invece quel sottotitolo accademico, irrigidito: Essai sur la signification du comique, ci riporta nel quadro del positivismo; sembra quasi una rassicurazione sul carattere serio e non di solletico del gusto borghese dello scritto, e al contempo un ammonimento a non lasciarsi mai sedurre dalla facezia del comico e, più in generale, di tutto ciò che non si adegua ad un certo criterio di rigore formale e di misurata compostezza accademica.
Il titolo dell’opera di Freud del 1905, in cui egli tratta con maggior sistematicità il problema del comico è Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten. Ora, del comico in generale non è neppure questione nel titolo, malgrado il testo ne parli diffusamente, e alcune osservazioni che Freud limita al Witz possano essere ascritte anche al comico. Soprattutto, il capitolo 7 parlerà più in generale del comico; ma anche in quella sede Freud ricorderà di affrontare la questione solo nei limiti del rapporto col Witz (cfr. MS, 225). Il Witz, che è sia il singolo motto di spirito che l’arguzia, cioè la qualità che permette di inventare motti, viene invece sondato in tutte le sue pieghe, anche al di là dell’interesse psicoanalitico.
Il momento del riso è coinvolto nell’opera di Bergson come reazione al fenomeno comico, la reazione di una coscienza che si aspettava vita, grazia, armonia e trova meccanismo e rigidità (cfr. R, 8). Dunque, Bergson fa nascere il riso dall’attrito fra due ordini che diventeranno fondamentali nella cosmologia dell’Evoluzione creatrice: quello geometrico, basato sull’inerzia e suscettibile di essere esaurito nell’analisi concettuale, e quello vitale, di cui il secondo rappresenterebbe un’inversione. Secondo quelle pagine, tale inversione scaturirebbe in realtà dalla semplice interruzione del primo ordine, senza bisogno di alcunché di attivo: è il primo ordine che rappresenta piuttosto uno sforzo per risalire (in primis attraverso la fissazione del carbonio con la fotosintesi clorofilliana, chiave di volta del carattere differenziale del fenomeno vivente come aumento dell’entalpia, come durata creatrice) “la china della materia”, la degradazione dell’energia. Del resto, nell’Evoluzione, Bergson attua una serrata critica al concetto di disordine, che ascrive ad una delusione dell’aspettativa allorché, cercando uno dei due ordini, si trova l’altro.
Lo studio si colloca all’interno del percorso bergsoniano come una riflessione sull’ “impatto creato dalla vita collettiva sulla coscienza individuale”[5] . La rigidità, il meccanico, il disadattamento sociale, sono i fattori a cui Bergson fondamentalmente riconduce tutte le varie forme del comico, indagando sia i processi con cui esso è fabbricato artificialmente, sia quelli in cui scaturisce naturalmente. Il comico è un fenomeno specificamente umano, anche per quanto riguarda l’oggetto comico: quando rinveniamo comicità al di fuori dell’uomo, lo facciamo per analogia con qualcosa del mondo umano (cfr. R, 4; in Freud: MS, 167). L’idea che esista un comico universale, suscettibile di analisi definitiva, risponde in ultima analisi alla persuasione di Bergson che esista una natura umana universale, al di sotto delle costruzioni della cultura e delle esigenze sociali[6]. D’altra parte, possiamo utilizzare lo schema di Bergson come modello, come struttura sottostante in cui si inserisce una varietà di forme relative ai contesti socioculturali. È vero però che il limite dell’approccio bergsoniano si ripropone laddove egli parla di una “funzione sociale” del riso come reazione al comico[7], che è anzi un tema centrale dello scritto, perché, come rileva Giulio Ferroni[8], strati sociali in conflitto possono fare un uso diverso del comico, mentre per Bergson la funzione utile del riso in rapporto alle esigenze della società resta in linea di massima sempre la stessa. Ma ancora, nondimeno è sempre presente la tendenza a conferire un ruolo sociale al riso, proprio perché, a differenza del sogno (con cui sia Freud che Bergson trovano punti di contatto), esso si gioca interamente nello spazio intercomunicativo, nelle relazioni interpersonali, nella comunità. Comunque, il fatto di aver considerato il riso in una prospettiva avulsa dal contesto culturale, va messo in contatto col limite di non aver considerato minimamente l’intenzionalità del soggetto che ride[9]. Tale intenzionalità può ovviamente risalire a stratificazioni ideologiche o sociali, e rientra in una valutazione possibile in termini olistici del fenomeno, come una funzione che coinvolge soggetto e oggetto del riso, senza che nessuno dei due abbia un senso isolato dall’altro. Il problema fondamentale è dunque la relazione[10].
Ma qual è la “funzione sociale” a cui il riso – secondo Bergson – assolve? Esso agisce come una correzione[11]. Rivela un orientamento morale perché castiga comportamenti deviati dalla società costituita. Si può individuare un complesso di funzioni riconducibili a questo aspetto correttivo: impedire la distrazione dell’intelligenza dal movimento della vita, l’irrigidimento meccanico nel corpo sociale; reprimere eccentricità, egoismo e vanità; impedire e reprimere ogni tendenza separatista, disgregatrice dell’armonia sociale[12].
Si tratta dunque di un riso censore, che reprime, condanna, frusta i vizi. Si ha la percezione di un momento di scacco nell’uniformizzazione sociale, che come tale viene sanzionato. In Freud questo stesso valore si muta di segno, perché è proprio nel soggetto che ride che possiamo constatare il momentaneo regno dell’individualità libera dalle costrizioni del principio di realtà. Il riso freudiano tradisce la personalità più intima, segreta, nelle sue pieghe recondite. La convergenza sta nel fatto che vi sia un fondo di aggressione sociale nel ridere di qualcuno che troviamo comico (cfr. MS, 211). Questa aggressione può, in ultima analisi, essere funzionale sia all’uniformizzazione contro il diverso, sia alla critica e allo smascheramento della falsità e della standardizzazione della società borghese.
Anche il Witz avviene nell’ambito delle relazioni sociali: tale dimensione vi interagisce col campo intrapsichico, giacché il motteggiatore ha bisogno di un pubblico che abbia in comune desideri e rimozioni stratificatisi a livello socioculturale.
D’altro canto, per quanto riguarda quello che Bergson chiama “comique des mots”, cui corrisponde grossomodo l’indagine sul Witz , il filosofo non poteva scorgere i crismi di una profondità latente, stante la sua considerazione quasi esclusivamente strumentale del linguaggio. Per Bergson il linguaggio verbale è qualcosa di strutturalmente legato alle capacità simboliche dell’uomo, funzionale alle sue esigenze di adattamento al mondo esterno; anche la conoscenza scientifica è incurvata alle esigenze pragmatiche di azione su di esso, cui d’altronde già la percezione risponde, ritagliando la realtà secondo gli schemi spaziali di cui ha bisogno la nostra azione. Invece il linguaggio, in psicoanalisi a partire da Freud, esercita un feed-back tale sulla nostra strutturazione della personalità e del mondo esterno da rendere vacua ogni speculazione su una cosa in sé che si nasconda al di là delle nostre imago proiettive.
C’è comunque anche in Bergson una sottostante presa d’atto delle potenzialità eversive dell’uso del comico, che vengono da lui poi rovesciate nel segno di una utilità all’equilibrio della società. Una delle qualità che Bergson considera imprescindibili per l’affacciarsi del riso è l’insensibilità: per ridere, bisogna sospendere la partecipazione emotiva, anestetizzare il cuore nei confronti del fenomeno comico. Manca dunque l’idea di una possibile com-partecipazione fra soggetto che ride e oggetto del comico; il riso è in opposizione totale col suo oggetto.
Comico è tutto ciò che, benché si svolga nell’ambito umano, può essere ricondotto a schema, a meccanismo, tutto ciò che esprime rigidità e ripetitività rinnegando la creazione continua e irreversibile. La continuità che ci si aspetterebbe dal vivente viene delusa quando si riscontra automatismo, quando si trovano comportamenti che ci aspetteremmo dalla materia inorganica; anche l’ineleganza dei movimenti trasmette questa sensazione di spezzettamento e raffazzonamento, di crollo della complessità sintattica del corpo umano. Analogamente, per quanto riguarda l’automatismo del personaggi comici – nella fattispecie i sensali delle barzellette diffuse a quel tempo − Freud afferma il loro trascurare di adeguarsi alle richieste della situazione, seguendo invece l’abitudine (MS, 88). Viene, nella morfologia del personaggio comico, tradita la libertà come carattere specifico dell’umanità, cifra di una durata che – crescendo su se stessa – esclude la ripetizione esatta delle stesse cause e per forza di cose degli stessi effetti.
Castigando queste “disattenzioni”, il riso reprime secondo Bergson tutte le tendenze di misantropia, e il separatismo di una subcultura (ad esempio i vari comici professionali o i modi di comportarsi che si sviluppano in circoli ristretti). Però, siccome la maggior parte della nostra vita sociale si basa su rapporti superficiali, il comico ha una certa solidarietà con essa, nella misura in cui la grande arte invece è tutta dalla parte dell’individuo e della durée. La commedia si situa dunque, in Le Rire, a metà strada fra l’arte e la vita. È un fenomeno di superficie, laddove il dramma è un fenomeno di profondità. Infatti la commedia studiata da Bergson si basa sul caratteristico, sul tipico e su modelli, mentre il dramma esprime qualcosa di unico, irripetibile ed intimo come la coscienza di ognuno[13]. C’è dunque la possibilità di un rovesciamento di prospettiva, cioè di un’identificazione, nel comico, non di qualcosa che esce dalla vitalità della società, quanto piuttosto della sua espressione più cogente; una società chiusa (tema che verrà sviluppato solo nelle Deux sources) che crea essa stessa schemi omologanti e irrigidimenti automatici.
Bergson individua un comico delle forme, un comico dei gesti, un comico dei movimenti, un comico di situazione, un comico delle parole e un comico del carattere. Per quanto riguarda le forme, solo deformità suscettibili di venir contraffatte da un uomo normale possono suscitare il riso (cfr. R, 15): viene violata l’unicità e l’irripetibilità della persona umana, che appare piuttosto un personaggio, una “macchietta” identificabile con la sua deformità. L’imitazione sprigiona lo stesso automatismo, lo stesso svilimento della dignità della persona umana ridotta ai suoi aspetti esteriori più appariscenti (cfr. R, 22). I gesti e i movimenti sono comici quando presentano rigidità che ci faccia pensare a un semplice meccanismo. C’è sempre nel fenomeno del comico lo slittamento da qualcosa di collocato in una sfera che Bergson ritiene superiore, quella del vivente, a qualcosa di superficiale, di meccanico[14]. Si ride quando ci si aspettava prevalenza del contenuto sulla forma, dell’anima sul corpo, dello spirito sulla lettera, della persona sulla cosa, del fine sul mezzo, e troviamo esattamente il contrario[15].
Analogamente, avvertiamo il comico in una situazione quando vi rinveniamo schematicità e discontinuità[16]. I procedimenti di fabbricazione del comico, che hanno valore più generale anche se si attagliano specificatamente al comico di situazione, sono secondo Bergson la ripetizione, l’inversione e l’interferenza delle serie. Questi sono proprio “il corrispettivo meccanico e negativo di tre caratteri esteriori che per Bergson contraddistinguono il ‘vivente’”[17]; cioè il continuo cambiamento che esclude ripetizione, l’irreversibilità dei fenomeni, e ancora l’individualità di una serie (di avvenimenti o fenomeni) e la non interscambiabilità con un’altra. A ben vedere, questi tre metodi di formazione del comico non sono altro che caratteristiche della materia inorganica quale veniva indagata secondo i principi orientativi della fisica newtoniana. La reversibilità di uno stato fisico con l’inversione di tempo e velocità fa da contraltare all’irreversibilità del tempo della vita bergsoniano. La ripetibilità di un esperimento è cifra del valore predittivo della scienza newtoniana: Bergson esclude che nel vivente esista ripetizione. Infine, la legalità deterministica insita nel concetto di funzione, in cui ad ogni input corrisponde un solo output, cioè la corrispondenza biunivoca causa-effetto, quando la si riscontra nel vivente, è responsabile del riso di fronte al meccanico al posto del vitale. La non interscambiabilità fra due serie di avvenimenti, che fa ridere dell’equivoco, non permette allo stesso modo che nell’ambito della vita si possano stabilire leggi, suscettibili di corrispondere al fenomeno come corrispondono le due serie nell’equivoco comico. Bergson interpreta il fenomeno vivente alla luce della rivoluzione scientifica attuata dallo sviluppo della termodinamica, cioè all’introduzione dell’irreversibilità del tempo. La vita è proprio quell’infusione di energia che impedisce l’inesorabilità del processo per cui abbiamo lavoro a spese di energia potenziale; e per questo è introduzione di indeterminismo, autoorganizzazione come violazione delle leggi inesorabili che condurrebbero alla morte termica. Bergson risente profondamente della temperie culturale che rese protagonista, nella fisica della seconda metà dell’800, la temporalità[18].
Inconsapevolmente, l’uomo che ride sancisce il rifiuto-esorcizzazione dei caratteri deterministici rinvenibili in seno alla vita biologica e sociale[19]. Siamo portati a riflettere sul fatto che il riso sia una risposta meccanica, talvolta incoercibile, a certe situazioni, in maniera che la reazione appaia piuttosto simpatetica all’automatismo, dunque all’anti-vitale. Perfino il suono che si emette ridendo ha dei tratti meccanici, disumani.
In Freud, comico e Witz rispondono ad un fondo comune: un risparmio di energia psichica che provoca il piacere nella scarica. Ogni operazione psichica richiede dispendio, convogliamento e legamento di energia; il piacere del riso nasce dal risparmio di questa energia e alla sua liberazione. Un funzionamento simile a quello del motto di spirito, lo riscontriamo nel comico; solo che, secondo il punto di vista della prima topica, Freud nega un rapporto fra il comico e l’inconscio, che è prerogativa del Witz. Nel caso del Witz, il risparmio di dispendio psichico è da imputare allo sbarazzarsi di un’inibizione esistente, o all’impedimento nella formazione di un nuova (cfr. MS, 142 e 152).
Il comico coinvolge il preconscio: il dispendio energetico a cui l’io è abituato si rivela superfluo se gli oggetti osservati presentano un comportamento incongruo all’attesa. Si risparmia l’energia che doveva essere legata per rappresentarsi qualcosa di più complesso e superiore: Freud sostiene che questo risparmio di investimento sia quantificabile, nei termini di un minor coinvolgimento dei centri cerebrali deputati alla percezione. Il contrasto fra ciò che l’osservatore si sarebbe dovuto aspettare, e ciò che gli si presenta davanti, è di ordine prettamente quantitativo. Il “dispendio di innervazione” richiesto è minore di quello che ci si aspettava: questo risparmio provoca piacere (cfr. MS, 213-4). Manca in Freud quell’assiologizzazione prepotentemente presente in Bergson. Il comico freudiano è soltanto l’occasione di un risparmio psichico, che è però sull’energia rappresentativa, e non su quella inibitoria come nel Witz, dunque da ascrivere al preconscio e non all’inconscio[20].
Per quanto riguarda il comico delle parole, Bergson vi constata l’irrigidimento del flusso vivo del linguaggio in una struttura schematica, in un meccanismo esteriore. Il linguaggio perde così la sua densità semantica, la sua pienezza referenziale. Attraverso il processo di “riduzione” (cfr. MS, 47), Freud rintraccia d’altronde ciò che il motto di spirito voleva veramente dire, al di là della maschera della veste arguta. Infine, il comico di carattere testimonia la risibilità dell’irrigidimento di una persona, nel suo carattere, contro la vita sociale. I personaggi di Molière sono comici nel loro modellare il mondo secondo lo schema della loro idea fissa, non adattandosi così alla flessibilità intellettuale che richiedono la realtà e la vita sociale. È in questo che la logica del comico è così prossima alla logica della follia e al sogno. (cfr. R, 120). In Bergson l’assurdità che si trova nei sogni è risibile in ragione del rilassamento del tono vitale, dell’indebolimento dell’attention à la vie, della perdita di quella tensione verso l’azione tipici della vita vigile. La dis-tensione onirica fa ridere come la dis-trazione del personaggio comico. Nota Freud:
Il ricorso nel sogno al controsenso e all’assurdità gli è costato il riconoscimento della sua dignità di prodotto psichico e ha indotto gli studiosi a supporre una disgregazione delle attività mentali, una sospensione della critica, della morale e della logica come condizioni per la formazione dei sogni […]. È quanto mai improbabile che una coincidenza così ampia come quella che c’è fra i mezzi del lavoro arguto e quelli del lavoro onirico sia dovuta al caso (MS, 113).
D’altra parte, il processo per cui attraverso l’analisi si sale dal contenuto manifesto a quello latente nel sogno è simile alla riduzione con cui Freud integra la “primitiva” del motto, dimostrando che le differenze sintattiche fra il motto e il suo significato influenzano l’aspetto pragmatico, al di là della corrispondenza semantica. L’arguzia consiste proprio nelle figure retoriche utilizzate per mascherare il senso originario di ciò che si vuole dire. Freud distingue, nell’ambito del Witz, uno spirito di parole e uno spirito di pensiero[21]. Il primo agisce direttamente sulle singole parole e sui loro rapporti, il secondo a livello concettuale, utilizzando una logica irta di controsensi. Le tecniche dello spirito di parole (condensazione con formazione sostitutiva – MS, 44 sgg.; impiego molteplice del medesimo materiale – MS, 57 sgg., doppio senso; MS 60-5) e quelle dello spirito di pensiero (deviazione dal pensiero normale – MS, 75; unificazione – MS, 90; figurazione indiretta[22]) presentano un’indubbia similitudine con i processi che Freud rintraccia nella sintassi onirica. Anche Bergson parla di “riduzione” e condensazione esponendo la teoria per cui il segreto di molti motti di spirito sta nel riprodurre scene recitate [23].
Un’altra classificazione che Freud attua è quella che suddivide i motti di spirito in base agli intenti, giacché dietro ad ogni motto c’è un desiderio, un’intenzione latente (MS, cap. III, pp. 114-140). Ci sono i motti astratti (o innocenti, o inoffensivi), che traggono il piacere solo dalla maschera dell’arguzia, dal gioco tecnico fine a se stesso[24]; ci sono invece i motti tendenziosi, in cui la fonte di piacere è al contempo la soddisfazione di un desiderio represso collegato alla specificità del singolo motto. Si attua l’aggiramento di una censura che si frapponeva come un ostacolo davanti al soddisfacimento di una pulsione, ostacolo che ha origine in istanze culturali, nell’ “opera di rimozione di una civiltà” (cfr. MS, 125-6). Questi possono essere fini osceni (quando investono la sfera della sessualità – MS, 121), ostili (quando sono portatori di istanze di aggressività nei confronti del motteggiato – ib.), cinici (quando sono blasfemi o mancano di riguardo alla sensibilità in sfere considerate solenni o sacre – MS, 133-9), scettici (quando assalgono lo statuto delle nostre conoscenze e certezze – MS, 140).Così Freud definisce il “motto tendenzioso”:
Esso, adoperando il piacere dell’arguzia come piacere preliminare, si pone al servizio di tendenze, per generare nuovo piacere sbarazzandosi da repressioni e rimozioni (MS, 161).
Passando dai motti innocenti a quelli tendenziosi, le forze che il motto combatte permettendo un profitto di piacere dal loro aggiramento sono, nell’ordine (cfr. MS, 162): la ragione (a partire dai semplici giochi di parole), il giudizio critico (nel motto vero e proprio), la repressione di ordine etico-sociale (nei motti tendenziosi). Ora, il piacere derivato dall’aggiramento della ragione e del giudizio critico sopravvive nel motto tendenzioso, col compito di stornare l’attenzione dalle tendenze ostili o oscene cui esso al contempo asservisce. Le ragioni del profitto di piacere liberato dal motto rispondono dunque ad un meccanismo a scatole cinesi.
Bergson fa infine risalire ai giochi dell’infanzia l’archetipo del piacere comico. Si istituisce una parentela fra comico, sogno e gioco, calamitata dalla logica infantile, in consonanza con la psicoanalisi freudiana. Una situazione – quella infantile – cui sia Bergson che soprattutto Freud finiscono col rivolgersi con una punta di nostalgia (cfr. MS, ultimo capoverso). L’infanzia è secondo Freud il momento della minima spesa energetica, perché i legamenti sono meno saldi e gli investimenti energetici meno intensi. Ogni piacere adulto trova il suo modello nell’infanzia, e combatte sempre col principio di realtà, nel suo imporre legamenti e dispendi energetici.
Chiaramente, i punti di vista economico e dinamico, centrali nella metapsicologia freudiana, si basano su modelli tratti dalla fisica energicistica-fenomenologica, che contestava alla meccanica il primato nel quadro delle scienze fisiche. Soprattutto poi Mach sosteneva che utilizzare i fatti meccanici come modello fosse un prodotto storico, e che la loro supposta maggior intelligibilità derivasse in realtà dal fatto che la nostra familiarità con essi risultasse da un tempo più lungo. Infatti, quello di Freud è un paradigma deterministico, ma non meccanicistico. Il campo psichico è un campo di forze in conflitto, e i processi psichici sono la risultante dell’opposizione e della composizione di tali forze pulsionali. Queste forze, d’altronde, sono alimentate da un’energia, che può essere libera (tendente ciecamente e direttamente alla scarica), o legata (quando la sua possibilità di scarica è differita, perché sottoposta al controllo di sistemi psichici vincolati dal principio di realtà)[25]. Per questo non si può parlare di meccanicismo. Quando Mach definisce la massa come espressione del rapporto fra le accelerazioni che due corpi si imprimono l’uno sull’altro, egli dà una definizione dinamica di massa; analogamente, molti fenomeni psichici vengono tradotti da Freud in termini di trasformazioni energetiche sottostanti, di risultanti di un campo di forze. Il secondo principio della termodinamica dice che in ogni trasformazione energetica c’è una degradazione: una parte dell’energia meccanica si converte in energia termica. L’idea di una morte termica dell’universo, che si affacciò a quel tempo nell’immaginario culturale, per un aumento progressivo dell’entropia che condurrebbe i sistemi all’estinzione, la ritroviamo quando Freud distingue un’energia libera da un’energia legata, costituendo la seconda una cifra fondamentale della strutturazione della personalità. Lo sfogo del riso sembra dover scaricare subito l’energia risparmiata; come in una scossa elettrica, non riesce a trattenerla, a legarla e stornarla per farne un uso funzionale alle esigenze del principio di realtà.
Ci sono perciò tutta una serie di espedienti che il motteggiatore attua per evitare che questa energia venga reimpiegata dall’ascoltatore del motto in qualsiasi modo. Il motteggiatore non può ridere del motto da lui stesso coniato, perché ha già dovuto impiegare nell’elaborazione del motto l’energia che risparmia facendo crollare un’inibizione o una censura. L’ascoltatore invece ride quando si istituisce un’improvvisa differenza fra l’energia che il soggetto è disposto a convogliare nel processo secondario, legandola per futuri investimenti di controllo e inibizione, e la liberazione del processo primario: quando non è possibile reimpiegare nel processo secondario l’energia divenuta libera, essa si scarica nel riso (cfr. MS, 170-4). Anche nel caso del comico, qualora la differenza di dispendio energetico trovi un reimpiego, il riso è impossibile (cfr. MS, 240-243).
In questo piacere legato alla coercizione alla scarica si avverte l’inquietante anelito alla stasi, al non impiego energetico. Il piacere ricercato è quello di un alleviamento generale della tensione psichica, di uno scarico immediato (cfr. MS, 180). Il riso, eludendo il reimpiego energetico, va nella direzione opposta all’élan vital bergsoniano, perché ricerca quella totale improduttività che è negazione del tempo come creazione. Il gioco infantile, cui sia Bergson che Freud si rivolgono, è non solo neutralizzazione e svilimento tramite ritualizzazione dell’esperienza traumatica, attraverso la ripetizione indefinita, ma anche negazione della freccia del tempo, equilibrio statico, morte termica dell’individuo. Il riso è dunque un fenomeno distruttivo, dilapidatorio. Per questo c’è qualcosa di profondo nel giocatore che perde una fortuna in una mano di poker, e nella sua coazione a ripetere: egli interpreta sulla scena della vita cosciente la recondita pulsione di morte. La scarica del riso è analoga alla conversione dell’energia meccanica in energia termica; questo riso è il ghigno della morte. Il rapporto fra comico e morte travalica tutto quell’umorismo che cerca di esorcizzarla, come avviene ad esempio in molti “motti cinici”; si tratta di qualcosa di più originario, costitutivo. Da un lato, l’umorismo pirandelliano interiorizzava con amarezza la mascherata sociale; dall’altro, il travestimento che nell’arguzia prende l’aggressione ha una forma carnevalesca. Si tratta comunque di simulacri, maschere, segni che cristallizzano in una forma il flusso vitale; la forma è l’unica traccia del passaggio della vita, ma come tale è morte, tanto che in tutte le culture la nascita del segno scritto si accompagna con l’istituzione della sepoltura.
La ripetizione è chiaramente organo di un risparmio nel dispendio di energia rappresentativa; eccoci finalmente all’incrocio delle due prospettive:
Tutto ciò che, in una persona viva, induce a pensare a un meccanismo inanimato – dice Bergson – ha effetto comico […]. Insomma, la causa del riso sarebbe in questi casi l’inflessione della vita in direzione della meccanica; noi potremmo dire: la degradazione del vivente a inanimato. Se accettiamo queste suggestive dichiarazioni di Bergson, non ci è difficile includere l’opinione da lui espressa nella nostra formula. Istruiti dall’esperienza circa il fatto che ogni vivente è un che di diverso ed esige per essere capito una specie di dispendio, siamo delusi quando, in presenza di una discordanza o di un’imitazione ingannevole, non abbiamo più bisogno di un nuovo dispendio. Ma siamo disillusi nel senso che siamo alleviati: così il dispendio dell’attesa, diventato superfluo, si scarica con il riso. La stessa formula sarebbe valida per tutti quei casi, di cui parla Bergson, di rigidità (raideur) comica, di abitudini professionali, di idee fisse, di modi di dire ripetuti in ogni occasione (MS, 231).
La tentazione a rivolgersi all’infanzia come ad una dimensione inesorabilmente perduta, agisce in maniera da far ascrivere il piacere del comico a remoti piaceri infantili (cfr. ad es. MS, 192; R, 45 sgg.). Questo carattere nostalgico della dimensione del comico si pone nel contesto della percezione di una irrimediabile crisi delle possibilità del soggetto adulto novecentesco di fare esperienza, di intraprendere una Erfahrung, quindi come perdita dello stupore primigenio nei confronti di ogni fenomeno, di quella meraviglia che fu all’origine del filosofare, del sapore di autenticità che assumeva ogni frase, della sua forza e densità semantiche. Ma questo carattere infantile del piacere viene esplicitamente da Freud ricondotto a qualcosa di problematicamente ancora anteriore[26]. Anche perché in Bergson il riso dell’adulto nasce dal ricordo dei giochi infantili, laddove in Freud il rimando è all’infanzia più in generale, al di là dei giochi che facevano ridere il bambino. Nel comico si risveglia l’infantilità, si riscopre il bambino perduto, attraverso l’osservazione dell’altro che ci appare comico. Ritorna il richiamo diretto al filosofo del Riso:
Proseguendo nel tentativo di trovare l’essenza del comico nel nesso preconscio con l’infantile, dobbiamo fare un passo più in là di Bergson e ammettere che il paragone da cui risulta il comico non è tenuto a destare antichi piaceri e giuochi, che risalgono all’infanzia; gli basta attingere la natura infantile in genere, forse perfino dolori infantili (MS, 247-8).
Al termine di un’analisi sulla possibilità di rinvenire questa infantilità nel comico mediante un paragone dell’Io con l’Altro (a), interno all’Altro (b), interno all’Io (c), Freud sospende il giudizio sulla possibilità che la comicità derivi sempre da un riconoscimento di tratti infantili, o se questo non sia piuttosto un caso particolare della degradazione comica (cfr. MS, 250).
Al di là di ciò, già nella semplice fenomenalità di questo piacere, come ritrovamento del noto[27], come annullamento dell’impossibilità di soddisfacimento di un desiderio, vi è attrazione verso quei caratteri di reversibilità, ripetitibilità e non-unicità che Bergson considerava una negazione del vivente. Dunque alla fine è la morte a fungere da polo d’attrazione, una morte che è rifiuto del differimento di desideri, dell’esperienza di lutto insita in ogni istante come scissione e lacerazione, rifiuto del tempo e della vita. In Al di là del principio di piacere questa nostalgia si ricollega alla figura platonica dell’androgino, inserendosi nel contesto del tema della crisi dell’identità personale – molto sentito sia nella cultura viennese che in quella parigina – che è anche crisi dell’identità di genere, in Hoffmanstal come in Musil.
Il saggio più tardo (1927) sull’umorismo[28] si occupa di un aspetto che era stato confinato in poche pagine nell’ultimo capitolo del testo sul Witz. Il piacere nel risparmio di dispendio veniva individuato nel sentimento, con la sospensione della partecipazione affettiva a fatti o fenomeni che avrebbero dovuto causare una grande afflizione (cfr. MS, 251). Si trattava allora di un meccanismo di difesa (cfr. MS, 256), superiore alla rimozione in quanto trionfava sull’automatismo. Nel breve scritto Freud ribadisce l’importanza di quel carattere “nobile”, grandioso dell’umorismo, che viene spiegato nei termini di un trionfo del narcisismo, nella vittoriosa affermazione dell’invulnerabilità dell’io agli attacchi esterni (UM, 315).
Freud analizza ora la dinamica interna dei rapporti fra i vari soggetti partecipanti al processo umoristico, anche nel campo intrapsichico (quando l’autore dell’umorismo si rivolge a se stesso), nei termini della seconda topica dell’apparato psichico: il piacere che deriva dall’umorismo sorgerebbe da una consolazione attuata dal Super-Io alla meschinità dell’Io (dall’umorista all’oggetto dell’umorismo). L’umorista si comporta verso l’oggetto dell’umorismo come farebbe un adulto nei confronti di un bambino; si tratta dunque di un raro caso di piacere derivato dal ruolo attivo di istanze superegoiche. Poiché il Super-Io deriva chiaramente da imago parentali, è chiaro che il suo ruolo in questa circostanza si trasforma in quello di un consolatore. Ancora una volta, nel quadro degli aspetti metapsicologici di un problema, emerge la considerazione in termini energetici dei processi sottostanti al fenomeno psichico manifesto: c’è un investimento precedente verso un’idea ossessiva, da cui all’improvviso viene ritirato l’investimento energetico grazie alla repressione superegoica.
Freud sintetizza:
Penso quindi che valga la pena di tener ferma la possibilità qui proposta, secondo cui la persona che si trova in una determinata situazione sovrainveste improvvisamente il suo Super-Io e poi, a partire da questo, àltera le reazioni dell’Io. Ciò che io suppongo per l’umorismo trova anche una notevole analogia su un terreno vicino, quello del motto di spirito. All’origine del motto di spirito ho dovuto postulare un pensiero preconscio abbandonato per un momento all’elaborazione inconscia[29] il motto di spirito è quindi il contributo che l’inconscio fornisce alla comicità. Analogamente l’umorismo sarebbe il contributo della comicità dovuto all’intervento del Super-Io (UM, 318, corsivo dell’Autore).
Per quanto riguarda Bergson, egli restringe la sua definizione di humour a quei casi in cui si descrive la realtà così com’è affettando di ritenere che sia proprio così che deve essere (cfr. R, 82)[30]. L’ironia sarebbe – nella definizione che ne dà l’Autore – esattamente il contrario: enunciare uno stato ideale di cose come se fosse quello dei fatti.
Molti interpreti hanno criticato il fatto che Freud utilizza in questa sede il concetto di Super-Io in maniera più prossima a quello che in altri scritti viene denominato Ideale dell’Io. Infatti, è facile rimanere spiazzati di fronte all’agnizione del Super-Io dietro al processo dell’umorismo, tanto da poter pensare che funzionasse meglio, per questo fenomeno, il punto di vista della prima topica. Può forse apparire riduttivo deputare interamente all’intervento di istanze parentali superegoiche il superamento dell’orizzonte dell’attenzione alla propria incolumità psicofisica. Tornare a sfumare i confini fra se stessi e il mondo esterno, nell’ambito di un riassorbimento in un cosmo in cui le preoccupazioni perdono importanza (non a caso Freud avvicina l’umorismo all’estasi mistica[31]), sentirsi parte di un flusso incessante che ricomprende ogni esperienza di dolore morale nell’ambito della vastità universale, far cadere infine i muri che rendono tutto ciò che percepiamo un ob-iectum (cfr. il tedesco Gegenstand) dunque qualcosa di contrapposto a noi, sembra significare qualcosa di più.L’umorismo di cui parla Freud nel saggio del 1927 trae il proprio giovamento da quelle istanze di perdita della centralità dell’Io, che viene riassorbito in quello che in Mach era un flusso continuo di sensazioni, o in quella forma panica che è la gottlose Mystik di Fritz Mauthner,un misticismo privo di una religione che riprende questo flusso di sensazioni in cui si perde la coesione degli oggetti, in cui si frantuma la determinatezza del mondo esterno.
Se, al di là del differente quadro teorico, la speculazione sul tema del comico di Freud e quella di Bergson intessono una trama così vasta di corrispondenza, significa che siamo veramente all’incrocio di due linee di ricerca, cioè di fronte ad un nucleo di idee che guadagnano in accredito. Nel corso del Novecento, la riflessione sul comico ha sviluppato in maniera particolare la sua portata rivoluzionaria e decontestualizzante: al livello di critica sociale, e in termini di decostruzione e ridefinizione di forme letterarie e linguistiche costituite. Sia Bergson che Freud avevano carpito questo valore eversivo.
Ma cosa è – oggi – in gioco?
Se da un lato, il crollo di ogni certezza referenziale nell’ambito dell’onnipresente struttura teatrale dei processi cognitivi e comunicativi, può essere fonte di angoscia, dall’altro emerge piuttosto – per le coscienze inquiete e tormentate – una possibilità di consolazione. La possibilità di una risemantizzazione in chiave carnevalesca della mascherata delle certezze e delle convenzioni, invita a tuffarsi con rinnovato vigore nell’oceano della vita sociale, liberandosi da imago autoritarie. L’ironia, già da secoli forma di difesa dalla censura, diventa l’arma della rivolta degli oppressi, della riscossa dei deboli e dei diversi. Perché se noi ridiamo del diverso, egli ride di noi, che siamo tutti uguali.
Sigle:
MS = S. FREUD, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten [1905], tr. It. Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Bollati Boringhieri, Torino 2002
R = H. BERGSON, Le Rire. Essai sur la signification du comique [1900], tr. It. Il Riso. Saggio sul significato del comico, Laterza, Roma-Bari 19993
UM = Der Humour [1927], Tr. It. L’umorismo, in S. FREUD, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 19912, pp. 310-319.
Note:
[1] Si trattava di testi che oggi danno l’impressione di un cinismo compiaciuto, di una presunzione di superiorità, e soprattutto di un’oscillazione fra rigido atteggiamento scientifico e intento moralizzante. Già in altre branche della medicina regnavano un’attitudine moralistica ed estetizzante allo stesso tempo. Per quanto riguarda la società, dobbiamo pensare al contesto di crisi che la Francia del lungo dopo-Sedan ancora viveva: diffuso era il sentimento di un’inesorabile decadenza, dello sfaldamento della compattezza sociale ma anche individuale (le spettacolari scissioni di personalità, fra interesse scientifico e baraccone circense); caratteri di compattezza che invece venivano proiettati sulla Germania di Bismarck vincitrice. Diffusissimi erano i disturbi psichici e il disagio esistenziale, specialmente nei ceti medio-alti, dove la recessione economica colpiva meno lo stomaco, e aumentavano paurosamente – soprattutto negli anni’80 – il consumo di alcool, di assenzio e oppio, la prostituzione con i suoi tragici correlati. Accanto alle poetiche dell’estetismo decadente e del simbolismo, dominavano nella letteratura di consumo un sensualismo esasperato e un’attenzione ai drammi nei loro aspetti quasi caricaturali dal punto di vista patetico, espressi con attitudine tronfia, macabra e compiaciuta. Anche la Vienna in cui lavorava Freud registrava analoghi malumori culturali, col fiorire della cosiddetta “arte nervosa”, carica di sensualità opulenta. C’era altresì un rifiuto, che si radicalizza nel quadro delle dissonanze sociali, della dimensione comunitaria dell’arte e della letteratura, che faceva rifugiare molti scrittori e artisti nelle pieghe di un’interiorità turbata. Molti dei motti e delle storie raccontate da Freud sono prese dall’ambiente della borghesia ebraica viennese del tempo.
[2] H. BERGSON, Essai sur les données immédiates de la conscience [1889], ora in Œuvres, Ed du Centenaire, PUF, Paris 20016, pp. 1-157. Giova ricordare, per inciso, che il primo capitolo del Saggio, quello in cui maggiori sono i riferimenti alle ricerche di quantificazione dei fenomeni psichici, è stato in realtà l’ultimo ad essere steso dall’autore. Rimane forte il contatto con la psicologia sperimentale, in particolare con l’empirismo inglese, di cui alcuni aspetti del pensiero bergsoniano sono un’elaborazione raffinata piuttosto che un vero e proprio distacco. Cfr. M. MELETTI BERTOLINI, Bergson e la psicologia, Milano 1985, p 21.
[3] Questo avviene già nel giovanile Progetto, e si manterrà ben oltre gli anni di formazione medica e psichiatrica. Cfr. G. ENDRASS, Zur Geschichte und Systematik von Qualität und Quantität in Freuds Metapsychologie, Clausthal-Zellerfeld, Bönecke-Druck 1975, in particolare pp. 56-94.
[4] D’altra parte, anche l’interesse di Freud ai processi nervosi e motori che accompagnano il riso è piuttosto limitato.
[5] G. LAFRANCE, La philosophie sociale de Bergson, Ottawa 1974, p. 29.
[6] Questa concezione emergerà con chiarezza ne Le due fonti della morale e della religione.
[7] “Il riso deve rispondere ad alcune determinate esigenze della vita comune; deve avere un significato sociale” (R, 7).
[8] G. FERRONI, Il comico, Milano 1974, p. 26
[10] Cfr. MS, 78: “ …non dobbiamo confondere i processi psichici che intervengono nella formulazione del motto (il lavoro arguto) con i processi psichici connessi con la recezione del motto stesso (il lavoro di comprendimento).” A p.178 Freud parla della duplicità d’intenti del motto, ovvero del fatto che fra il motteggiatore e l’ascoltatore vi sia una sorta di intesa equivoca, anche se ammette la parziale oscurità dell’origine del piacere nella prima persona del motteggiatore. Il processo del Witz ha bisogno di tre soggetti: il motteggiatore, il motteggiato e l’ascoltatore, mentre per il comico bastano i primi due; la presenza di un terzo “rafforza il processo comico, ma non vi aggiunge niente di nuovo” (MS, 203).
[11] “Una specie di castigo sociale” (R, 89).
[12] M. FABRIS, La filosofia sociale di Henri Bergson, Bari 1966; pp. 37-8.
[13] È curioso il fatto che la personalità dell’artista, così come emerge implicitamente dall’abbozzo di teoria estetica presente in alcune pagine del Riso, sia quella di un uomo che oltrepassa le categorie convenzionali dell’intelligenza pratica, per entrare in contatto simpatetico ed intuitivo con la natura profonda delle cose. Al di là di ogni polemica, un uomo del genere – stante la concezione utilitaristica dell’intelligenza che Bergson sostiene, come adattamento all’azione e alla vita sociale – è fondamentalmente un distratto (cfr. A PERES, Le Rire Bergson, Paris 1998, pp. 26-7), qualcuno che suscita proprio il comico in quanto irrigidito nella sua visionaria torre d’avorio. Proprio il gusto borghese della società chiusa, traduzione sociologica della Parigi salottiera di quegli anni, derideva e disprezzava l’artista, il fou vicario di un sapere inquietante ed eversivo.
[14] Agisce ovviamente l’insofferenza verso la riduzione del vivente a schemi meccanicistici e meccanizzabili, tipica di tutta la borghesia della belle époque. La standardizzazione delle forme degli oggetti preparati industrialmente frustrava quel sapore di autenticità e unicità che i nobili e l’alta borghesia vagheggiavano, rifiutando quel mondo e preferendo l’esasperazione del dettaglio, la ricerca dell’antiquariato o delle manifatture esotiche, come in molti appartamenti descritti nella Recherche proustiana. Non a caso, più volte Bergson utilizzerà nei suoi scritti la metafora del vestito di sartoria eseguito su misura contro quello basato sui clichés, per dire che il vivente deve essere indagato secondo paradigmi epistemologici specifici, e non presi in prestito dalle scienze fisiche, e soprattutto per dire che per quanto riguarda l’uomo bisognerà sempre tener presente l’irripetibile unicità di ogni evento che lo riguarda, e dunque il determinismo causa-effetto deve essere meno rigido in psicologia (ammettendo peraltro causalità circolari). Dunque lo scritto sul Riso è un testo esemplare di un determinato momento di reazione della coscienza europea ai processi di industrializzazione nei loro corollari di omologazione e standardizzazione, il cui corrispettivo ideologico veniva individuato nella sicumera del positivismo scientista. Si pensi al rifiuto delle forme geometriche nell’art nouveau, quale ritorno alle forme della natura vivente e quale rifiuto della linea rigida funzionalistica, e dunque alla rivendicazione del posto dell’uomo nella sfera del vivente, e non nella freddezza asettica ed inorganica della tecnologia. Il futurismo, o l’esaltazione dell’uomo-macchina nella Grande Guerra non sono altro che la formazione reattiva di questo rifiuto, nei termini di un’introiezione del ruolo del padre che la tecnologia esercitava, e dunque di uno scioglimento-soluzione dell’Edipo con la natura-madre. Anche nella Vienna degli stessi anni agiva un’analoga insofferenza dell’aristocrazia alla nuova cultura tecnologica, un’aristocrazia che cercava di imporre i suoi valori estetici.
[16] Cioè violazione di quella continuità indivisa che costituisce un carattere differenziale del vivente dalle forme inorganiche. Jankélévitch nota come anche nelle forme musicali sia lo scherzo a privilegiare l’uso dello staccato, disarticolando così la continuità della melodia in mille frammenti spezzettati (nel contesto di una contrapposizione fra la vita avventurosa, fatta di istanti irrelati, e la serietà, che privilegia il legato nell’esistenza, cfr. V. JANKELEVITCH, L’avventura, la noia, la serietà, Genova 1991).
[17] G. FERRONI, cit., p. 32.
[18] Cfr. L’Evolution créatrice, pp. 699-708.
[19] Cfr. A. PERES, cit., p. 60.
[20] Cfr. MS, 199, dove Freud spiega che l’abbassamento al livello dell’inconscio dell’investimento del pensiero inconscio aiuta l’agilità formale del motto, giacché “nell’inconscio, come abbiamo appreso dal lavoro onirico, i tramiti connettivi che si diramano dalle parole sono trattati allo stesso modo dei collegamenti tra le cose.”
[21] Analoga distinzione viene tracciata – all’interno del comico delle parole – da Bergson (cfr. R, 67).
[22] Mediante il contrario – MS, 94-7; mediante il simile e l’affine – MS, 98-101, mediante omissione, MS 102-4; similitudine – MS, 105-112.
[23] Secondo Bergson nel motto di spirito c’è sempre l’evocazione – al limite in maniera recondita e confusa – di una scena comica: l’esito linguistico è la proiezione di una situazione comica sul piano delle parole (cfr. R, 72).
[24] L’ “innocenza” è un equivoco basato su una connotazione assiologica, in quanto c’è comunque un senso di alleviamento dalle costrizioni della critica e del pensiero logico: il motto innocente risparmia sulla vigile razionalità del mondo adulto (“alleviamento della costrizione di critica”, MS, 151) ed è messo in contatto con il piacere preliminare, che funge da scintilla (cfr. MS, 160-1). In questi casi, il senso del motto servirebbe principalmente a proteggere il piacere formale dalla demolizione della critica (cfr. MS, 155).
[25] Si tratta di un modello esplicativo che non deve essere interpretato come rigidamente mimetico del funzionamento dei processi psichici – e tanto meno del loro corrispettivo neurale che oggi siamo in grado di studiare – ma come un assetto pragmatico, che orienta tutta la ricerca psicoanalitica freudiana, e il cui unico criterio di verificazione e falsificazione è di conseguenza l’efficacia terapeutica.
[26] Cfr. S. FREUD, Der Dichter und das Phantasieren [1907], tr. It. Il poeta e la fantasia, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino 19912, pp. 47-59.
[27] Cfr. MS, 145: “In un secondo gruppo di mezzi tecnici del motto – unificazione, omofonia, impiego molteplice, modificazione di locuzioni ben note, allusione a citazioni – rileviamo come carattere comune la possibilità offertaci di ritrovare ogni volta un che di noto laddove, invece, magari ci saremmo aspettati qualcosa di nuovo. Questo ritrovamento del noto è causa di piacere, e anche qui non ci sarà difficile riconoscere in un tal piacere il piacere del risparmio, metterlo in relazione col risparmio di dispendio psichico”.
[28] Der Humour, letto dalla figlia Anna il 1° settembre 1927 al decimo Congresso psicoanalitico internazionale tenutosi a Innsbruck. Tr. It. UM.
[29] Cfr. MS, 188: “Decidiamoci quindi ad adottare l’ipotesi che sia questa l’origine del modo in cui si forma il motto nella prima persona. Un pensiero preconscio viene abbandonato per un attimo all’elaborazione inconscia e ciò che ne risulta viene colto immediatamente dalla percezione cosciente” (corsivo di Freud).
[30] Vi è comunque, nell’umorismo bergsoniano, un’anestesia dell’anima: la trasposizione nei codici linguistici e nei modi di pensare della scienza fisica di quello che doveva essere un problema morale.
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