1) Il titolo della Sua relazione suona: «Spunti leibniziani
negli anni di Marburg». Come mai ha scelto un titolo così
poco sistematico?
La frammentazione non riguarda tanto i contenuti, perché
il confronto con Leibniz si è svolto nell’ultimo
corso di Marburgo, nell’estate del 1928, e quindi possediamo
effettivamente un testo di riferimento all’interno del quale
si svolge una Auseinandersetzung con Leibniz, un confronto ma
anche un misurarsi con la tradizione metafisica moderna. Io sono
stata prudente nel titolo perché non posso nella mia relazione
entrare nel merito dei moltissimi temi e quindi mi limito a segnalare
solo alcuni spunti teoretici che a mio avviso hanno avuto una
tale profonda incidenza nella filosofia di Heidegger da risultare
addirittura poi presenti nella sua filosofia ufficiale; già
in quella di Essere e Tempo, che era uscito l’anno precedente,
ma anche nel prosieguo e quindi dopo la famosa svolta degli anni
trenta. Credo che la tematica dell’essere e la differenza
ontologica tra essere ed ente, che è poi il motivo teoreticamente
più interessante di tutta la filosofia heideggeriana, non
solo di questi anni marburghesi, abbia molto a che vedere con
la tradizione metafisica classica e moderna. Heidegger sapeva
che Leibniz era un pensatore difficile da incontrare. Più
di una volta dice di averne dovuto leggere i frammenti di pensiero
nelle corrispondenze, negli epistolari, nelle lettere e nei brevi
opuscoli che Leibniz ci ha lasciato. Questo incontro così
difficile ma anche così affascinante ha prodotto risultati
straordinariamente importanti, visto che il filosofo di Lipsia
rappresenta il crocevia della filosofia moderna. Leibniz non è
chiaramente Cartesio, ma non è nemmeno Kant. Quando Heidegger
si misura con lui, si trova di fronte ad un pensiero pre-kantiano.
Nella sua difficoltà di aderire al neokantismo marburghese,
Heidegger utilizza l’incontro con Leibniz come spunto di
confronto con la filosofia moderna. Ciò che era importante
per Heidegger è che in Leibniz non vi fosse il cogito e
quella sostanzializzazione della esistenza pensante che certamente
egli non trovava congeniale al suo modo di pensare. Questo incontro
tra Heidegger e Leibniz risulta tanto più interessante
perché il filosofo di Lipsia risulta profondamente influenzato
dalla tradizione aristotelica (basta leggere un po’ i suoi
scritti e anche la sua biografia per sapere che, come egli stesso
ha più volte dichiarato, il suo concetto di verità
gli derivava direttamente da Aristotele, così come anche
la passione per le questioni logiche). Il rapporto di Heidegger
con Leibniz si fonda sulla discussione del principio di ragion
sufficiente, che è il tema cruciale della filosofia di
tutti i tempi, e che, pur non essendo una invenzione di Leibniz,
venne da lui esplicitamente formulato.
Ma che cos’è appunto questo principio di ragion sufficiente?
Heidegger per un verso attribuisce a Leibniz il principio della
ragione calcolante, il principio proprio della modernità
che ha messo al primo posto la ratio, la ratio matematica, la
ratio calcolante, la ragione moderna, e quindi la ragione tecnico-scientifica.
Ma questo è un luogo comune e Heidegger lo sa bene; nel
corso del 1928 (devo tralasciare gli scritti degli anni ’50,
a cui pure faccio qualche riferimento), infatti, si confronta
con Leibniz sulle questioni di logica e il tema più interessante
non è la ragione che calcola, la ragione matematica, ma
è il principio del pensiero. La questione dei principi
del pensiero ci porta a chiedere insieme ad Heidegger ‘che
cosa significa pensare?’ e quale sia il rapporto tra il
pensiero e l’essere. In Leibniz queste tematiche sono fortemente
suggestive perché egli imposta la questione sul problema
del giudizio (e su questo verte principalmente la mia relazione),
e quindi della inerenza del predicato al soggetto, del concetto
di verità come identità. Quando noi diciamo “questo
è vero” dobbiamo ammettere che c’è una
identità di fondo; se manca questa identità noi
non possiamo formulare alcun giudizio, non solo analitico, del
tipo “il triangolo ha tre lati”, ma neppure il giudizio
di fatto, quello che riguarda appunto le verità di fatto.
Quindi il giudizio all’interno del quale il predicato inerisce
al soggetto è anche il giudizio storico, quel giudizio
che narra un evento, un fatto accaduto (Cesare passò il
Rubicone). Il giudizio logico a proposito della verità
di fatto diventa una sorta di enigma pressoché insolubile:
noi non abbiamo di fronte agli occhi il fatto, e quindi non possiamo
parlare di Vernehmen, di una visione che descriva il ‘che
cos’è’ e il ‘come’ in relazione
alla nostra esperienza vissuta. Abbiamo bisogno invece di mettere
in rapporto quelle che Heidegger chiama le estasi temporali: passato,
presente, futuro. Insomma, quando Heidegger si confronta con Leibniz
a me pare si realizzi una sorta di simbiosi, quasi una immedesimazione
nella metafisica leibniziana, che finisce per avere come suo corrispettivo
la logica del giudizio, cioè del giudizio all’interno
del quale il predicato inerisce al soggetto; insomma la monadologia,
che è la metafisica leibniziana, e quindi il concetto di
monade, è sul versante della sostanza metafisica quello
che il giudizio è sul piano logico (c’è una
perfetta aderenza di logica e metafisica che in qualche maniera
precorre anche Hegel). Allora l’incontro tra Heidegger e
Leibniz è un incontro che in un certo qual modo consente
ad Heidegger di mettere un po’ da parte la questione categoriale-trascendentale,
che pure naturalmente gli interessa. Io arrivo a fare questa ipotesi
di lettura: la concezione heideggeriana dell’essere ha molto
a che vedere con la sostanza monadica di cui parlava Leibniz.
Perché? Che cos’è la monade?
La monade è il principium individuationis, l’assoluta
unicità del qualcosa, che può essere una persona
o qualsiasi vivente (Leibniz è stato il primo a difendere
la specificità di ogni vivente, a qualsiasi livello di
vita si voglia restare); la monade è quella nozione, come
peraltro i medievali gli avevano insegnato, completa e perfetta
che contiene dentro di sé tutti i predicati passati, presenti
e futuri. Magnifica questa nozione, perché concentra nella
sostanza che è monade la compresenza di tutte le estasi
temporali. E allora anche il giudizio logico non può riguardare
o il passato o il presente o il futuro, ma nella formulazione
del giudizio logico noi concentriamo tutti i momenti del tempo.
E’ un po’ quello che nella sua relazione diceva Costantino
Esposito: dalla storia come eredità alla storia come destino.
Ciò non significa affatto che tutto è preordinato
e che non c’è libertà. Leibniz si è
effettivamente trovato nel labirinto del conflitto tra necessità
e libertà e ne è uscito brillantemente con una metafisica
creazionistica. Sebbene Heidegger non lo segua su questo versante,
comunque aderisce a mio avviso alla metafisica leibniziana perché
trova in essa la possibilità di dire che l’essere
non è un ente, che l’essere non è qualcosa
che accade ma si trova in quel che accade, cioè l’essere
è kinesis, come l’essere umano: noi siamo identità
narrative, non siamo mai fermi, siamo in questo momento mutevoli
anche a livello cellulare e biologico, quindi c’è
una unità interna di movimento che riguarda la monade anima
e noi, esistenti, il Dasein. Ma c’è questa unità
interna di movimento soprattutto nel pensiero dell’essere:
quando noi pensiamo l’essere non pensiamo nulla di fisso,
di stabilizzato, bensì, appunto, una unità interna
di movimento.
2. Quali differenze ci sono secondo Lei tra l’interpretazione
che Heidegger effettua di Leibniz nell’ultimo corso marburghese
del 1928 e quella che invece realizza nel corso del semestre invernale
1955-56 su “Il principio di ragione”?
Le differenze sono notevoli, e ciò fu dovuto al profondo
rivolgimento del pensiero heideggeriano dopo il 1933 e comunque
a partire dagli anni trenta. Non credo affatto che Heidegger sia
passato “dall’esistenza all’Essere”, secondo
una formuletta di moda alcuni anni or sono. Certo è, però,
che Heidegger ha via via abbandonato i risultati conseguiti negli
anni venti sul piano logico-teoretico per accentuare la dimensione
storico-ontologica del pensiero dell’essere. Heidegger ha
dato sempre più importanza alla questione della tecnica,
ai cambiamenti epocali, alle scansioni della storia della metafisica
come destino dell’Essere. Si è sempre più
inoltrato per i cammini del pensiero poetante, trascurando a mio
avviso di ribadire le articolazioni necessarie al compito critico,
“politico”, discussivo e comunicativo del discorso
(non a caso in concomitanza con il declino della democrazia in
Germania). Tornando al nostro tema – vale a dire alla lettura
del principio di ragione – occorre dire che Heidegger negli
anni cinquanta imputava a Leibniz la vittoria incondizionata del
principio della ragione calcolante e scientifica. Incorse pertanto
in una sorta di abbaglio ermeneutico che nasceva anche dal suo
fiero atteggiamento antimoderno. Non colse nella leibniziana metafisica
della ragion sufficiente le tante aperture alla ragione storica.
Provò a leggere diversamente il problema del fondamento,
che è tutt’uno con l’essere, e proprio per
questo resta sullo sfondo (senza fondo ultimo) a sorreggere una
ragione magari non irretita nel dogma ma neppure così forte
da sostenere le sue posizioni nel concreto degli eventi. Heidegger
chiudeva il corso degli anni cinquanta con l’immagine del
Gioco, uno, unico, supremo. Tema di grande fascino, ma ancora
una volta non utilizzato per accrescere il ruolo del pensiero
nella storicità delle singole vicende individuali e collettive.
3. Rispetto al libro che Lei ha pubblicato su Heidegger e
Leibniz nel 1989 (Il Gran principio. Heidegger e Leibniz) in quali
direzioni si è evoluta nel frattempo la sua interpretazione
della lettura heideggeriana di Leibniz?
Rispondo a questa domanda in maniera lapidaria. A parte obiecti,
per dir così, non ci sono state nel frattempo pubblicazioni
( testi inediti o interpretazioni nuove) tali da indurmi a rivedere
i risultati di quegli studi. Se considero invece la prospettiva
della mia maturazione intellettuale, devo dire allora che qualcosa
è cambiato, perché si è ad esempio rafforzata
la convinzione che i temi “classici” della filosofia
d’ogni tempo sono tutt’altro che inadeguati a capire
i nostri tempi. L’antica formula del logon didonai è
forse la più adatta a rispondere oggi all’esigenza
di pensiero avanzata da tante parti.
Il dar conto, il principio socratico della conoscenza di sé
nella pratica di una autonomia sia teoretica che morale, sono
gli elementi essenziali del pensiero, che pur sempre si rivolge
all’Essere (cioè va in cerca di senso, che è
verità) ma non distoglie per ciò lo sguardo dal
concreto intreccio delle particolari situazioni di vita in cui
è destinato a venire consapevolmente esercitato. |