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Francesco Saverio Trincia, Il governo della distanza. Etica sociale e diritti umani. Franco Angeli, 2004
di Daniela Lapenna |
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“Paradossalmente, l’estraneazione si manifesta negli uomini come caduta
delle distanze”. Esergo al lavoro di Francesco Saverio Trincia questa breve
considerazione di T. W. Adorno ne condensa il nucleo di riflessione più
profondo. La vicinanza di uomini culturalmente ed esistenzialmente lontani, estranei,
è teoricamente impensabile e praticamente impossibile se la prossimità
non è regolata da una distanza.
Prendendo le mosse dalla riflessione freudiana che riprende il noto apologo di
Schopenauer sui porcospini che devono mantenersi, allo stesso tempo, sufficientemente
lontani per non pungersi e sufficientemente vicini per non morire di freddo, il
lavoro di Francesco Saverio Trincia si propone come un’ampia riflessione
su cosa l’etica sociale possa suggerire oggi, nel nostro mondo globalizzato,
alla questione della convivenza umana. Il procedere argomentativo attraverso il
quale non solo il filosofo, ma la filosofia stessa, non cessa di interrogarsi
e interrogare, segna un percorso concettuale che dalla messa in questione della
natura della libertà è teso ad individuare nello statuto filosofico
dei diritti umani, nella loro costituzione infondabile, la chiave di volta del
“governo della distanza”.
Non ritengo inopportuno sottolineare in questa sede che ciò che maggiormente
anima e qualifica il testo di Trincia sia proprio il carattere aperto della riflessione;
non si tratta, infatti, di un vademecum dell’etica sociale dal
sapore vagamente manualistico, bensì del frutto del lavoro di anni in cui
l’autore, da filosofo e docente di etica sociale, si è impegnato
con i suoi allievi e collaboratori. Puntualizzazione non affatto accessoria rispetto
a questo lavoro che della spirale filosofica della domanda che investe nella doppia
direzione immanente e trascendente il mondo della vita, della datità
dell’esistenza collettiva ed individuale, e le possibilità dell’istanza
normativa, fa, contemporaneamente, metodo e risorsa, ricerca e contenuto.
Se l’etica sociale deve e può svolgere un ruolo illuminante nell’analisi
della conflittualità intrinseca di questo mondo globalizzato, essa è
chiamata a non declinare dalla ispirazione originaria della filosofia pratica
e a conservare l’istanza fondativa che impedisce l’appiattimento improduttivo
sulla prassi. Essa si colloca pertanto in quello spazio propriamente sociale e
quindi prepolitico, non ancora istituzionalizzato, originariamente morale, ma
non normato in cui si manifesta la natura morale e politica dell’uomo. E’
proprio in quello spazio visibilmente vuoto, ma internamente pieno che l’esistenza
singolare come coscienza trova il senso del suo essere esistenza fra le esistenze,
intrinsecamente individuale e trascesa, al tempo stesso, in senso sovraindividuale.
E’ proprio nello spazio vuoto della contingente naturalità umana
che emerge il pieno della sua sostanza eminentemente morale e dunque l’originario
e indissolubile legame fra il fattuale e il normativo, fra lo spazio della libera
estensione della coscienza particolare, (che incontra in modo naturalmente conflittuale
il limite negativo delle particolarità altre, e da cui e per cui il negativo
della libertà diventa necessariamente positivo nel dispiegarsi del distanziamento
esistenziale) e la necessità di normare il disallontanamento ontologico
proprio della spazialità costitutiva dell’esserci degli enti. Si
tratta di una spazialità non solo fattuale, ma intenzionale, che, proprio
in quanto originariamente esistenziale, si traduce nella necessitante vicinanza
e lontananza dall’altro da sé, l’estraneo che minaccia la nostra
vita e allo stesso tempo la richiama salvandola.
La dimensione sociale dell’essere etico è dunque qui tratteggiata
non solo o non semplicemente come essere per ma anzitutto in quanto esserci.
L’evocazione dell’immagine degli alberi nel bosco, ben nota metafora
kantiana, è lo specchio che riflette e fa riflettere sulla natura del vivere
sociale come continua autoregolazione reciproca che consente di sussistere, di
avere aria e luce, nonostante la vicinanza di altri, ed anzi, proprio in virtù
di questa, che permette di crescere come alberi forti ed alti in un bosco rigoglioso,
piuttosto che storti e malfermi nell’isolamento.
E’ indispensabile a questo punto chiedersi cosa renda effettivamente possibile
l’arginare il rischio sempre presente dello sconfinamento nello spazio altrui,
del superamento del limite che è violenza dell’assimilazione omologante
o stato di guerra reciproca e fratricida; e chiedersi quale sia il fondamento
filosofico dell’esistenza e della riconoscibilità di una spazio di
inviolabilità individuale, la sacralità morale dell’individuo.
L’argomentazione lascia pensare che essa sia, anzitutto, distanza psicologica
e antropologica del singolo essere vivente, indispensabile al vincolo solidale
e, dunque, al consorzio pubblico; essa prende forma nel diritto all’esistenza
individuale, il diritto universale e inalienabile, il diritto dell’uomo
riconducibile alla definizione dei diritti umani. La scaturigine dei
diritti è la ragione stessa della loro mancanza di fondamento, e del loro
presentarsi come fondanti infondati. Se appare vano il tentativo di pervenire
regressivamente ad un valido fondamento filosofico, ciò accade perché
i diritti fondamentali stessi si manifestano, emergendo, come fondamento infondato,
l’alterità abissale dal mondo, il radicamento trascendente del loro
essere per il mondo. Il diritto umano universale non è la ragione
della dignità morale della persona umana, ma la sua dignità stessa.
Solo presupponendo una non filosoficamente ingiustificata universalità
del “diritto umano” sarà possibile pensare ad una effettiva
globalizzazione di esso che superi in senso geografico e storico la ragione occidentale
e ragione a cui ancorare la speranza teorica e l’impegno politico per la
realizzazione del vagheggiato cosmopolitismo kantiano.
Il cosmopolitismo, in quanto luogo teorico della realizzazione perfetta dei diritti
umani universali, non può essere considerato dall’uomo contemporaneo
(che vive la realtà storica e non l’ipotesi filosofica di un mondo
globale) come l’estremo teleologico dell’incessante e naturale procedere
storico e resta tensione perfettibile e sempre imperfetta verso la federazione
di sovranità statali. Se un diritto c’è, parimenti dovrà
esserci un dovere di rispetto di tale diritto e una forza che lo renda attuale.
L’affratellamento delle genti che mantiene in sé il pericolo della
scomparsa dell’individuo a vantaggio dell’emersione unica della collettività
è un rischio ulteriore dell’inefficacia del diritto. Lo stato sovrano
è necessario e allo stesso tempo insufficiente se è l’unico
interprete del diritto stesso; non lo Stato, bensì gli Stati possono essere
la reciproca garanzia sopranazionale della propria sopravvivenza come complessa
e regolata interrelazione di singolarità individuali e, in senso altresì
problematico, di gruppi. Un possibile cosmopolitismo garante della pace mondiale
è pensabile esclusivamente se soggetto del diritto cosmopolitico resta
il singolo individuo, uguale ad ogni altro singolo individuo, perché soggetto
indisponibile del diritto universale ai diritti fondamentali.
Lo snodarsi dell’argomentazione legata dal filo concettuale del pensare
la distanza si snoda attraverso la messa in discussione delle categorie
sostanziali che la sottendono: il ripensamento della soggettività, dell’
”esistenzialità” e del diritto. Tali categorie si declinano
nella trattazione, in modo più complesso di quanto una semplice schematizzazione
possa sintetizzare, nel problema della libertà individuale, del dato antropologico,
psicologico e culturale del singolo che vive una condizione esistenziale plurale
e della regolamentazione sociale e politica del vivere. Tematizzando di volta
in volta la questione della differenza, del multiculturalismo e dell’eguaglianza,
della società democratica e del liberalismo politico nonché il problema
del cosmopolitismo giuridico, l’autore non perde di vista i suoi punti di
riferimento teorici fondamentali, il trascendentalismo, i filosofi della politica,
gli esiti filosofici della psicoanalisi, attraverso una chiave di lettura fenomenologica.
Il pensiero di Kant, Hegel, Rousseau, Marx, Freud, Heidegger, Husserl entra in
fruttuosa connessione concettuale con le riflessioni dei filosofi contemporanei
della politica e i loro stessi referenti intellettuali, mentre le riflessioni
suscitate da pensatori come Rawls, Habermas, Sen, Nussbaum, Walzer, (l’elenco
è puramente indicativo, ancora molti altri sono i riferimenti del testo)
giocano un ruolo di interrogazione continua che conferisce al lavoro quel carattere
di apertura concettuale e relazione osmotica fra il dato teoretico ed il suo storicizzarsi,
fra le ragioni dell’etica e l’ethos, fra, ancora una volta,
il normativo ed il fattuale.
Se non si perde di vista, avvicinandosi al lavoro di Trincia, nell’entrare
in questione delle diverse delicate problematiche affrontate, l’ispirazione
organica che lo supporta e l’attraversa, non sarà difficile coglierne
i motivi ed il valore teorico. Terminata la lettura si può comprendere
che evocare il simbolo teoreticamente opponibile a questo modo di interpretare
“il governo della distanza” non può significare pensare esclusivamente
alla contiguità bensì, al contempo, al muro. Il muro come presupposto
ideologico, ma anche ai muri reali, di cemento, quelli dei ghetti, quello di Berlino
e quelli di recente innalzati Se l’omologazione annulla il diritto togliendo
la libertà di respirare, il muro divide, non distanzia; ed anche la divisione
impedisce la vita. Forse, proprio in un tempo in cui si innalzano barriere in
nome di un diritto del tutto svuotato di senso, perché eccedente di senso,
risulta doveroso e necessario ripensare alla distanza come spazio e non come recinto,
come governo e non spartizione. Il muro che divide taglia, ferisce; non salva
la differenza tenendola a distanza; livella chi si trova al di qua o al di là
spingendo all’identificazione fondamentalista; e, insieme, contrappone la
differenza e genera la guerra ingovernabile. |
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