Psicologia evoluzionistica è un libro avvincente che mette in campo alcune tra le più autorevoli voci del dibattito internazionale intorno alle scienze cognitive. Ben organizzato e curato, il volume riesce a dare una visione d’insieme della psicologia evoluzionistica, dei suoi principali ambiti di applicazione (presente e futura), delle ragioni dei suoi sostenitori e quelle dei suoi – ahimé autorevoli – detrattori. Infatti, sebbene essa sia da considerare una disciplina in continuità con la scienza cognitiva – realizzando il connubio tra ipotesi modulare della mente e teoria evolutiva dell’adattamento – non bisogna dimenticare che autori del calibro di Jerry Fodor, Stephen J. Gould e Richard Lewontin (soprattutto il primo essendone anche uno degli ispiratori fondamentali) non la vedono proprio di buon occhio, come testimoniano i loro interventi contenuti nel volume.
L’ipotesi alla base della psicologia evoluzionistica è prendere sul serio l’idea – apparentemente semplice, come notano i curatori nell’Introduzione – che la mente, come il resto dell’organismo umano, «sia il prodotto di milioni di anni di evoluzione» (p. XI). La plausibilità di un livello di analisi evoluzionistico sulla mente deve essere però rivendicata non solo agli occhi dei critici cui si è appena accennato, i cosiddetti “nemici interni”, ma anche nei confronti dei sostenitori di una mente senza specifiche dotazioni innate, che procede per metodi associativi appoggiandosi esclusivamente all’esperienza. D’altra parte, la battaglia razionalista ingaggiata da Chomsky fin dalla critica al comportamentismo ha portato ormai molti risultati a favore di una mente già riccamente specificata dal principio.
Il volume si divide in tre parti. Nella prima, dedicata alla Plausibilità della psicologia evoluzionistica, due contributi decisamente a suo favore (Leda Cosmides e John Tooby; Donald Symons) sono seguiti da due saggi profondamente critici (Gould e Lewontin; Fodor). La seconda parte (Il nucleo concettuale) raccoglie sei contributi dedicati ad alcune questioni centrali: le caratteristiche della conoscenza iniziale posseduta dalla mente (Elizabeth Spelke), la teoria della mente (Alan Leslie), il linguaggio come adattamento (Steven Pinker), la rappresentazione dei numeri (Stanislas Dehaene, Ghislaine Dehaene-Lambertz e Laurent Cohen), le strategie sessuali negli umani (David Buss), la modularità del pensiero (Dan Sperber). Il volume si chiude con una sezione dedicata alle Applicazioni cliniche, costituita da due saggi. Nel primo Dominic Murphy e Stephen Stich propongono una classificazione dei disturbi mentali alternativa al DSM-IV che faccia propria la teoria della modularità massiva della mente e sfrutti le acquisizioni della psicologia evoluzionistica. Nel secondo Giovanni Liotti intende dimostrare l’utilità di un approccio evolutivo in campo terapeutico analizzando in particolare casi di attaccamento disorganizzato e di stati borderline. Per motivi di spazio e di pertinenza, discuterò principalmente i saggi di Cosmides e Tooby, Symons, Gould e Lewontin, Fodor.
Nel primo saggio (Oltre l’intuizione e la cecità degli istinti: verso una scienza cognitiva rigorosamente evoluzionistica) Cosmides e Tooby, veri e propri padri del programma qui presentato fin dal volume curato con Jerome H. Barkow The adapted mind (1992), intendono dimostrare la rilevanza della questione su come qualcosa si sia evoluto per comprenderne il suo attuale funzionamento. Questo perché «la conoscenza del che cosa e del perché impone i vincoli decisivi alle teorie del come» (p. 10). Niente di più semplice: la struttura dipende dalla funzione. Rifacendosi alla miliare teoria di Marr sulla spiegazione in scienza cognitiva, essi ritengono che nella ricerca psicologica il livello computazionale di analisi del compito, incaricato di capire la funzione di un dispositivo, deve essere indagato appellandosi alla biologia evoluzionistica, in grado di rivelare quali pressioni selettive e problemi adattativi abbiano guidato l’evoluzione della specie Homo sapiens nell’ambiente ancestrale. Ciò che in Marr era affidato alla sola intuizione dovrebbe ora venir svolto integrando conoscenze evoluzionistiche – basate sul concetto di funzione – e psicologia cognitiva. Infatti, sostengono gli autori, «quando si tratta dei sistemi biologici, la natura dei processi che li producono ha precise implicazioni circa la natura dei prodotti» (p. 12). L’interazione di meccanismi computazionali modellati dalla storia della specie sarebbe la chiave della spiegazione del comportamento.
Portando ancora oltre il parallelismo tra biologia e psicologia, Cosmides e Tooby ritengono che anche in psicologia una maggiore specializzazione è più indicata per la risoluzione dei problemi adattativi rispetto a meccanismi con dominio generale: strutture specifiche per dominio garantiscono maggiore efficienza e velocità, caratteristiche fondamentali a livello evolutivo. D’altra parte, già Fodor (1983) ci aveva convinti di questo, anche se solo per una parte limitata dei processi mentali. La specificità di dominio e l’incapsulamento informazionale dei processi modulari sono in grado di risolvere in un sol colpo il frame problem e di allontanare lo spettro dell’esplosione combinatoria. Queste ultime due minacce hanno spinto alcuni autori ad esplorare l’ipotesi della modularità del pensiero (Cosmides e Tooby; Sperber).
La proposta innovativa dell’articolo di Cosmides e Tooby, costruita grazie agli studi evoluzionistici sulla cognizione sociale, si fonda su un fruttuoso parallelismo tra linguaggio e ragionamento sociale che porta gli autori a postulare una grammatica universale dello scambio sociale, comune a tutti gli uomini e declinata poi diversamente nelle varie culture e società. Così come per i linguisti è difficile scovare i principi universali alla base delle lingue umane, per gli psicologi è altrettanto difficile reperire quegli universali “istinti del ragionamento sociale” che costituiscono l’unità psichica dell’uomo che Cosmides e Tooby intendono ricostruire, contro ogni forma di relativismo culturale. L’ipotesi è che lo scambio sociale – a differenza del ragionamento logico o di quello astrologico – sia una costante in tutti i gruppi umani, e che dunque nel corso dell’evoluzione si siano sviluppati meccanismi in grado di facilitare alcuni compiti incontrati da tutti, quali ad esempio scoprire gli imbroglioni o difendersi dalle aggressioni e dagli imprevisti. Sarebbe per questo che il test di Wason (o delle quattro carte) presentato sottoforma di scambio sociale è facilmente risolto dalla maggior parte degli individui, laddove nella sua forma logica mette in difficoltà anche studenti universitari (di logica!). Dunque, la mente umana sarebbe una collezione di istinti evolutisi nel tempo, che governano non solo la percezione e il linguaggio ma anche il ragionamento. Tutto questo, se da un lato sembra mettere a rischio creatività e individualità umana, non deve tuttavia spaventare. La battaglia degli psicologi evoluzionisti verso qualsiasi forma di relativismo culturale si fonda su un’affermazione della natura umana universale che, anziché impedire, funge proprio da condizione di possibilità di qualsiasi variabilità culturale. Con le parole degli autori, infatti, «senza istinti universali del ragionamento l’acquisizione di una “cultura” sarebbe letteralmente impossibile, poiché non saremmo in grado di inferire quali rappresentazioni, all’interno dell’infinito universo delle possibilità, sono contenute nelle menti degli altri membri della cultura» (p. 39). È a questi istinti del ragionamento che saremmo ciechi, come recita il titolo, e la nostra cecità sarebbe tanta quanta è la naturalità degli istinti stessi. Le lenti correttive che gli autori propongono di indossare per combatterla sono lo studio delle altre specie – che ci porta a relativizzare la nostra variabilità culturale – e della biologia evoluzionistica.
L’intento principale dell’articolo di Donald Symons (Usi legittimi e illegittimi del darwinismo nello studio del comportamento umano) è scongiurare l’assimilazione della psicologia evoluzionistica alla sociobiologia, o scienza sociale darwiniana. La cruciale differenza tra i due approcci, sostiene Symons, sta nel fatto che nella psicologia evoluzionistica la selezione naturale agisce sui meccanismi psicologici (o moduli darwiniani) che poi producono il comportamento – infinitamente creativo e, tutto sommato, libero – laddove la sociobiologia fa intervenire la selezione naturale direttamente sui comportamenti, più o meno adattativi, proponendo così una versione “lamarckiana” dell’evoluzione psicologica, e in realtà non aderendo a nessuna teoria psicologica in particolare. La posizione dei meccanismi psicologici come mediatori tra struttura biologica e comportamento è di fondamentale importanza per garantire la libertà del comportamento umano. Se i meccanismi sono universali, perché universali sono le funzioni che un organismo deve soddisfare, tali non saranno i comportamenti. La flessibilità degli esseri umani non consiste in una flessibilità degli scopi, ma solo dei mezzi utilizzati per raggiungerli. Allo stesso modo, il principio di parsimonia che deve giustamente vigilare su ogni teoria scientifica si deve applicare ai principi della biologia, e non alle entità da essa individuati. I moduli teorizzati nella versione massiva della teoria, adottata dagli psicologi evoluzionisti, consisterebbero in una sorta di esperienza accumulata nell’evoluzione in certi tipi di compiti piuttosto che in altri. Questa esperienza si sarebbe mano a mano cristallizzata in meccanismi dotati di una base di conoscenze propria che si attivano ogniqualvolta si trovino davanti a qualche dato appartenente al loro dominio specifico. Come chiariscono Murphy e Stich, le caratteristiche che i moduli darwiniani ereditano dai moduli fodoriani sono l’incapsulamento informazionale e la generale inaccessibilità ad altri processi mentali, rinunciando invece a quelle che riguardano aspetti tipici dei moduli periferici (p. 197). Un fondamentale chiarimento concettuale offerto da Symons riguarda la differenza tra adattamento e adattatività. Qualcosa può essere adattativo senza dover essere un adattamento, definito invece come un tratto o un meccanismo prodotto dalla selezione per una specifica funzione. Mentre la sociobiologia si occupa di quali siano i comportamenti adattativi, la psicologia evoluzionistica è più propriamente lo studio degli adattamenti in senso stretto.
Veniamo ora alle critiche. Il saggio di Fodor (I problemi della psicologia darwinista) è certamente uno dei più spinosi. Come dicevamo all’inizio, non c’è niente di peggio di nemici “interni”, che per di più sono stati tra gli ispiratori del programma di ricerca qui discusso. Bisogna ricordare infatti che fu proprio Fodor a proporre che la mente fosse almeno in parte – in realtà in minima parte – modulare, appoggiando così quell’unione tra computazionalismo, rappresentazionalismo e innatismo che diede vita alla scienza cognitiva. Il problema evidenziato da Fodor già nel 1983 e ribadito nel 2001 è che il concetto di computazione funziona solo in ambito locale, quindi si addice a processi mentali periferici ma non certo a quelli centrali (come il ragionamento, la conferma, la risoluzione di problemi etc.) che sembrano coinvolgere l’intero sistema di credenze e conoscenze. Optando per una visione quineana dei processi centrali, Fodor esclude che la cognizione centrale possa essere trattata con i mezzi elaborati dalla teoria computazionale.
Tuttavia, ormai qualche tempo fa diversi autori hanno proposto che la modularità possa essere estesa anche ad alcuni ambiti della cognizione centrale e che, rinunciando ad alcune delle caratteristiche enumerate da Fodor nella descrizione dei moduli, come l’obbligatorietà, la localizzazione neurale e forse almeno in parte la velocità, si poteva concepire la mente come un insieme di meccanismi, dalla periferia al centro, incapsulati dal punto di vista informativo, che agiscono in quasi totale indipendenza gli uni dagli altri. Questa visione si accompagna alla convinzione che vi possano essere anche zone non modulari della mente, di cui non sappiamo più o meno nulla, tra cui magazzini di informazioni generali cui possano accedere diversi moduli centrali (contenenti ad esempio le norme e i valori del vivere sociale, dunque culturalmente specifici). Il contributo della psicologia evoluzionistica consiste nell’idea che questi moduli centrali, chiamati non a caso darwiniani, siano il frutto dell’evoluzione psicologica e possano essere studiati integrando psicologia cognitiva e biologia evoluzionistica. In particolare, la mente e i meccanismi che la costituiscono vengono considerati degli adattamenti, risposte specifiche date a problemi adattativi nel corso dell’evoluzione. È proprio su questo punto nevralgico che si innesta la critica di Fodor.
Secondo lui, gli psicologi evoluzionisti non sono giustificati nel concludere che la mente e i suoi meccanismi siano degli adattamenti. La partita si gioca tutta sul concedere o negare rilevanza alla questione dell’evoluzione e della genesi nello studio del funzionamento attuale di un meccanismo. Supponiamo di avere di fronte un congegno complesso sulla cui funzione non abbiamo alcuna idea. A parte qualche indizio dettato dalla sua struttura superficiale, potremmo arrivare a formulare le idee più astruse e bislacche a proposito del suo attuale funzionamento. Conoscere in parte o del tutto la funzione per cui quel meccanismo si è evoluto sarebbe certamente di grande aiuto nella comprensione del suo attuale uso: questo sostengono gli evoluzionisti. Fodor risponde con il celebre esempio delle ali, organi che negli uccelli non si sarebbero sviluppati, come si tenderebbe a credere, allo scopo di permettere il volo, ma che si pensa fungessero inizialmente da regolatori della temperatura interna dell’organismo. Si tratterebbe quindi di un fenomeno di exaptation, lo stesso fenomeno che Chomsky ritiene probabile sia alla base dell’evoluzione del linguaggio. Ora, rispetto allo studio di come funziona il volo degli uccelli oggi, conoscere la funzione per cui le ali si sono originariamente evolute non porta chiaramente alcun vantaggio. Con questo, Fodor ritiene di aver messo alla porta qualsiasi possibile utilità della teoria dell’evoluzione in campo psicologico. Non è però in virtù della possibilità che si tratti di exaptation che, crediamo, si debba rinunciare in toto alla nozione di adattamento.
Qui si arriva al nocciolo del problema, alle profonde ragioni che militano a favore o contro l’approccio evoluzionistico in psicologia. I suoi sostenitori ritengono si debba tener fede al principio darwiniano del gradualismo evolutivo, secondo cui tutte le specie compresa quella umana si sarebbero evolute per gradi. «Non c’è alcuna ragione di credere che il cervello umano e la mente facciano eccezione» (Cosmides e Tooby, p. 24). È dunque legittimo integrare il contributo dell’evoluzione nella teoria psicologica perché sapere a quali problemi l’evoluzione di un meccanismo doveva rispondere non può altro che aiutarci nel cercare di comprendere come esso funzioni ora. Effettivamente, a sentirlo così, sembrerebbe proprio uno scenario plausibile.
Ma i dubbi sollevati dai critici sono davvero molti. Primo fra tutti quello che riguarda proprio il gradualismo, e che in qualche modo risale alla posizione antievoluzionistica elaborata da Chomsky a proposito del linguaggio. Se fosse vera la storia del gradualismo, infatti, sarebbe difficile spiegare la situazione cui ci si trova di fronte oggi: una gran quantità di organismi e di specie diverse, impressionantemente simili dal punto di vista genetico e talvolta cerebrale, ma con così grandi differenze a livello di capacità mentali. Com’è possibile che, a fronte di una somiglianza biologica così forte, ci distinguiamo dalle scimmie per attributi così importanti come il linguaggio, la cultura, le capacità metarappresentazionali? Questo dato sembrerebbe parlare non a favore del gradualismo, bensì di piccole mutazioni fisiche (ad esempio genetiche) in grado di dare luogo a consistenti differenze mentali. Se allora non abbiamo alcuna idea su come funzioni la corrispondenza tra mente e cervello o struttura biologica in generale, come possiamo pensare che la selezione naturale si possa applicare alle nostre menti (e non sia sufficiente che si applichi ai nostri cervelli)? Questo è l’argomento che Fodor utilizza per rispondere all’argomento della complessità, secondo cui fenomeni complessi come il linguaggio non possono essere nati da fenomeni semplici come una sola mutazione genetica.
Secondo Fodor, esiste un modo (diverso dal creazionismo) per evitare di pensare che la selezione naturale sia responsabile dell’evoluzione delle nostre menti: esso consiste nell’idea «che l’evoluzione del nostro comportamento sia stata mediata dall’evoluzione dei nostri cervelli. Perciò, riguardo alla questione se la mente sia o no un adattamento, quello che conta non è quanto complesso sia il nostro comportamento, bensì quanto debba mutare il cervello di una scimmia antropomorfa per produrre la struttura cognitiva di una mente umana. E a questo riguardo non sappiamo nulla. […] non sappiamo nulla di come la struttura delle nostre menti dipenda dalla struttura dei nostri cervelli» (p. 93). Questo è un argomento che ci fa riflettere: effettivamente, che motivo avremmo di pensare che l’evoluzione riguardi la mente e i meccanismi mentali e non, più semplicemente, il cervello e le strutture neuronali? Beh, un motivo ci sarebbe. Infatti, anche se noi sappiamo veramente molto poco della connessione tra cervello e mente, e su questo Fodor ha ragione, riconosciamo che una connessione ci deve pur essere, e che quindi sono state selezionate certe strutture cerebrali piuttosto che altre in quanto produttrici di certi comportamenti, più adattativi di altri, o meglio in quanto condizioni di possibilità di certe capacità mentali (es. la capacità metarappresentazionale, linguistica, inferenziale). Altrimenti, in base a quale criterio si dovrebbe pensare l’evoluzione cerebrale? Non si tratta di ricadere nell’errore di Pangloss, nessuno sta affermando che viviamo nel migliore dei mondi possibili né che questa sia la migliore delle evoluzioni che l’uomo potesse percorrere, anzi. Tuttavia, si tratta di un’evoluzione che, bene o male, permette agli individui umani di sopravvivere. Se così non fosse, non staremmo qui a discuterne. È il concetto stesso di evoluzione che si presta a facili banalizzazioni nella sua pericolosa assimilazione con il progresso. Questo rischio però non può portarci a rinunciare del tutto a pensare che almeno nella maggior parte dei casi sopravvivano gli individui che rispondono in maniera più adattativa all’ambiente circostante. È proprio il caso di dire che è una questione di vitale importanza!
Altro punto di critica, su cui convergono anche Gould e Lewontin, la psicologia evoluzionistica farebbe propria una teoria dell’evoluzione in forma eccessivamente semplificata, che si appoggia troppo soltanto sulla forza della selezione naturale (per questo si parla di panselezionismo) e propone una visione adattazionista che rischia di cadere in una forma di teleologia. Come sostiene Fodor, un dato comportamento si può razionalizzare in infiniti modi diversi, e non è detto che quello proposto dal programma adattazionista corrisponda alle sue vere motivazioni. A questa critica si potrebbe rispondere ricordando che in fondo tutta la teoria dell’evoluzione si basa su congetture costruite avendo a disposizione pochi dati, e che non per questo si deve smettere di elaborarle, basta soltanto essere pronti a rivederle nel caso in cui intervengano dati contraddittori.
Sembra insomma che nonostante l’acutezza dei suoi critici la psicologia evoluzionistica possa vantare una buona salute, a giudicare dalla varietà dei suoi ambiti di applicazione e, naturalmente, dalla validità delle teorie che la compongono. Essa ha il merito di integrare discipline come psicologia e scienza cognitiva con un approccio biologicamente orientato, in modo da legare lo studio dell’uomo alla sua storia evolutiva e al rapporto con le altre specie.
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