Abituati a vivere le vicende della politica attuale sotto il segno della discontinuità rispetto alle ideologie e ai partiti che dalla nascita della Repubblica giunsero fino ai primi anni '90, risulta persino inquietante trovar rappresentata – in un'opera che ha per tema “la Repubblica e il suo passato” – la continuità della storia d'Italia in quanto nazione nella presenza di un potere politico oligarchico e plutocratico. Neppure incrinata dalla tragedia del fascismo questa realtà del potere politico si è saputa rinnovare dietro il paravento della difesa delle istituzioni e della Costituzione che, piuttosto, hanno finito con l'esser esse stesse non protette ma protezione di fronte alla minaccia di una messa in crisi dell'oligopolio a vantaggio di una reale democratizzazione del paese. Se il principio della legalità e la fedeltà alla Costituzione possono essere intesi come il sottile filo rosso che tiene in vita i valori della Resistenza, esiste nella storia dell'Italia repubblicana fino ai giorni nostri, un'azione di sabotaggio delle istituzioni che avviene dentro le stesse e che non ha bisogno di ricorrere all'utilizzo sistematico di forze paramilitari, né di legarsi a progetti nazionalistici e imperialistici ma che pur tuttavia, come il fascismo, detiene il potere plagiando e favorendo gli istinti più bassi delle masse alfine di perpetuare il proprio controllo sul potere e sui relativi vantaggi che ne derivano.
Pier Giorgio Zunino, insegnante di Storia contemporanea nell'università di Torino e già autore di studi sull'ideologia e le interpretazioni del fascismo si prefigge in quest'opera di compiere, rispetto al medesimo periodo storico «un riesame del passato che riannodi nel modo dovuto i fattori politici ed economici a quelli ideologici e culturali» (p.28).
Nella struttura del testo la continuità nella gestione del potere in Italia, come sopra indicata, si realizza attraverso la circolarità con cui il primo capitolo della prima sezione, quello dedicato all'analisi del ruolo svolto dalle élites economiche negli ultimi anni del fascismo, si lega all'ultima parte, dove lo scenario pur non essendo più quello della dittatura ma quello invece della democrazia, suscita nell'autore l'amara constatazione di come: «la struttura sociale dell'Italia fascista aveva fedelmente riprodotto un modello fortemente gerarchico nella distribuzione della ricchezza e del potere, uno stato di fatto che nella sua sostanza non fu certo contraddetto dal soggettivo incunearsi nei vertici sociali di alcuni homines novi provenienti dai ranghi delle camicie nere e del partito fascista[…] dei mutamenti intervenuti nella struttura del paese e in particolare dei riflessi che essi provocarono nell'integrarsi di vecchie e nuove élites nel nuovo sistema di potere [nella Repubblica], quando e se queste ultime comparvero, poco sappiamo. Certo è che il silenzio delle indagini lascia trapelare la sensazione che poco o nulla accadesse nei meccanismi di fondo da cui derivava la stratificazione sociale del paese. In particolare nell'incidenza delle classi più elevate nel determinare le linee direttrici della politica nazionale è probabile si dovesse registrare solo qualche variazione marginale» (p.730, corsivo mio).
Così nel primo capitolo (parte prima) l'attenzione è rivolta all'oligopolio del capitalismo italiano negli anni della crisi del regime. Particolare risalto è dato al modo in cui questi interessi assunsero un valore decisivo nella politica fascista, mostrando prima, come la politica corporativistica non fosse altro che un mascheramento degli interessi padronali poi, come questi stessi interessi condizionarono pesantemente le stesse sorti della guerra. L'autore sottolinea come ancor più che nella vita sociale, intellettuale e politica, fosse proprio nella vita economica che il sistema totalitario toccava i suoi vertici (p.44). La stessa tesi astratta che pretende di riconoscere nel capitalismo dell'epoca un insito pacifismo viene messa difronte alla realtà degli interessi della Fiat nella guerra d'Etiopia e ai relativi, ingenti aumenti del fatturato. Così fu poi ad esempio per l'intervento dei soldati italiani a fianco di Hitler in Spagna e poi ancora nei nove mesi di ‘non belligeranza' del '39- '40 che segnarono per le ingenti commesse estere un momento particolarmente idilliaco nei rapporti fra industriali e regime. Gli interessi economici delle grandi aziende italiane furono in quel frangente tanto super partes da contemplare infatti persino il fronte opposto: le industrie italiane infatti, rifornirono di armamenti la Gran Bretagna e la Francia. Fu soltanto negli ultimi mesi del '42, in seguito ai devastanti attacchi aerei sulle città del triangolo industriale, quando «la grande industria arrivò assai vicino al collasso» (p.73), che si consumò la sua contiguità col fascismo.
L'indagine sull'alleanza fra grande capitale e politica fascista viene quindi ridiscussa nelle pagine conclusive dell'opera dove l'attualità del passato è riconosciuta nella misura in cui «recenti indagini, infatti, sembrano ribadire che anche nell'Italia di fine secolo lo strato superiore della società sia permanentemente costituito da una ristrettissima minoranza che non pare vada oltre la soglia del 3% della popolazione. Come a dire che centocinquanta anni di vita unitaria troverebbero nella conferma di questo tratto, i cui inevitabili risvolti politici non si vede come si potrebbero chiamare altrimenti che oligarchici, uno dei più significativi elementi di continuità» (p.731).
Sarebbe stato forse necessario a questo punto spingere più a fondo la legittimità che deriva all'indagine sul passato dalla sua capacità di critica del presente riconoscendo come questa problematica continuità sia stata possibile all'interno di un ordinamento dello Stato non più totalitario ma invece, almeno formalmente, democratico. Legittimo in questo studio sarebbe stato il ricercare dunque in coloro che politicamente furono responsabili dell'affermarsi della democrazia nel nostro paese le ragioni di simile continuità, la quale, nei fatti è un'accusa contro la realtà della stessa democrazia.
Si vuol dire che nelle riflessioni dedicate a colui che fu gravato del «peso maggiore nel portare l'Italia fascista alla democrazia» (p.661) ovvero alla figura politica di Alcide De Gasperi, si sarebbe dovuto dare maggiore risalto e quindi giudizio critico a quella progressiva separazione fra democrazia formale e democrazia sostanziale, dove ad esser sacrificata fu la seconda, e che ebbe un ruolo nient'affatto indifferente nel rinnovare l'alleanza di potere fra grande capitale e classe politica» (p. 667).
Per comprendere dunque come il passaggio dal totalitarismo alla Repubblica non significò un reale
mutamento nella struttura oligopolistica della classe dirigente, occorre piuttosto che ascoltare la voce degli intellettuali riconoscere i tratti costitutivi che furono propri della gestione del potere da parte della Democrazia Cristiana. Di questi tratti, nel capitolo sul ‘cattolicesimo dal totalitarismo alla democrazia', uno e uno solo è il motivo ideologico fondamentale che li tiene insieme: l'anticomunismo. «Si dovrà avvertire come all'esito immediato della crociata anticomunista, che sembrò confortare le attese, non corrispondessero nel volgere degli anni acquisti durevoli sul piano dei valori per i quali si diceva di averla indetta» (p.718). Così, nello stesso tempo, il tentativo di riconquista della società da parte della chiesa prima tentato attraverso l'intreccio dei fasci e della croce «non si realizzò a ben vedere neppure sotto lo scudo crociato; neppure se ne posero le premesse, ché anzi allora se ne preparò il rovesciamento conclusivo» (p.719).
All'esperienza del governo democristiano colto pressappoco nel suo primo decennio, il senso che si può attribuire è dunque quello di una occasione mancata. La stessa incapacità che ancora oggi sembra attraversare la nostra cultura politica, di fare realmente i conti con l'esperienza fascista ha, per buona parte, la sua radice in questo mancato rinnovamento. Non è un caso infatti che, proprio di fronte allo spettro dell'invasione della paventata “barbarie comunista”, si sviluppò una indulgenza verso la realtà e gli uomini del fascismo: alle responsabilità di fronte alla storia si sostituì il senso di una fatalità impersonale che, come una mano invisibile, avrebbe orientato le sorti della nazione attraverso la tragedia bellica. Testimonianza insieme eloquente e tristemente attuale di questo orientamento è la voce “fascismo” che comparve nell' Enciclopedia Cattolica nel 1950 e che in parte leggiamo alla pagina 695 dell'opera di Zunino: l'immagine che ci viene trasmessa è quella di un Mussolini travolto dagli eventi, che passò da «provvedimenti molte volte ottimi e tempestivi» ad esser vittima del «servilismo dei collaboratori che […] seppero man mano staccarlo dalla parte migliore e più capace della nazione». Dietro questa, che altro non può dirsi che un'immagine, c'era da parte di chi la produceva anzitutto un processo di rimozione delle proprie responsabilità, un processo ancora vivo e attuale.
Se da parte della classe dirigente della Democrazia Cristiana il passato fascista poteva rappresentare per la complicità che vi fu con esso fonte di profondo imbarazzo, sull'altro fronte, quello del Partito Comunista Italiano altre erano le incertezze e le difficoltà che turbavano il giudizio storico. Chiarissimo nell'esposizione di Zunino è il centro teorico dal quale sorgevano non soltanto le difficoltà interpretative ma pure quelle riguardanti gli stessi orientamenti pratici del partito nella nuova Italia: «non era poca cosa, infatti, che nel breve volgere di una dozzina d'anni dall'affermazione della consustanzialità della democrazia, della borghesia e della stessa socialdemocrazia al fascismo si fosse pervenuti alla lotta per il ripristino delle istituzioni rappresentative stroncate dai totalitarismi. Il passo era enorme e, qui è il punto, si trattava di un approfondimento nella comprensione della storia del Novecento che non poteva disgiungersi, sia pure paradossalmente, dall'avvio di un processo che avrebbe condotto alla crisi della propria legittimazione storica» (p.398). Della difficoltà di superare l'interpretazione del fascismo come realtà delimitata nell'ambito della crisi del capitalismo, dell'opposizione violenta e faziosa verso lo storicismo, dell'ambivalenza fra lotta nelle istituzioni e opzione rivoluzionaria, dei meriti decisivi nella lotta armata della Resistenza, l'opera di Zunino risulta scrupolosa e intelligente esposizione.
In questa cornice ‘La Repubblica e il suo passato' costituisce per la restante parte che è pure quella centrale, un'indagine intorno al modo in cui le voci più rappresentative della cultura italiana vissero e interpretarono gli ultimi anni tragici del regime e, successivamente, il primo decennio dell'esperienza repubblicana.
Si va da artisti come Gadda e Montale per i quali, fatte salvo le profonde differenze, emerge il tratto comune di una elaborazione del fascismo esemplare della tragicità irredimibile del destino umano, dove poteva sperimentarsi il congiungersi del fallimento tanto dell'esperienza collettiva quanto della personale biografia, ad altri come Fenoglio e quanti si impegnarono nelle file del Partito d'Azione che parteciparono direttamente alla guerra civile contro il fascismo, ad altri ancora per i quali anzitutto l'autore ricorre all'immagine della no man's land (p.133). E' particolarmente a questi ultimi che Zunino intende rivolgere la sua considerazione alla luce di come «più ancora che nella luce meridiana che fissa l'inalterabile responsabilità di coloro che dello sfacelo nazionale furono gli artefici, è proprio in quei chiaroscuri, in quelle presenze intellettuali poste sul limitare di regioni di confine che è dato di cogliere quanto brucianti e forse inguaribili fossero le ferite provocate dal disastro collettivo. E' anche in questa penombra – solo talvolta, e di rado dissoltasi nelle luminose certezze dell'antifascismo – che si devono ricercare le premesse dell'Italia contemporanea e del suo senso del passato» (pp.134-5).
Due sono i profili di intellettuali per i quali quella “penombra” si dissolse sì, ma senza che questo riuscisse veramente a risolvere le tensioni che dominavano la loro esistenza: sono Pavese e Giaime Pintor.
Quella ‘penombra' fu per entrambi il prodotto dell'effetto della guerra sul credo storicista: una tensione morale fino ad allora inespressa e frustrata dal disagio con cui si trovavono a vivere il loro essere degli intellettuali, sembrò trovare nell'evento bellico, rivissuto in modo estetizzante, l'occasione per sottrarsi ad un credo – e si badi necessariamente “credo” poteva essere e non la filosofia, quella di Croce in quanto storicismo assoluto – che si riteneva avesse reso impotenti gli uomini di fronte al corso della storia e dunque incapaci di sentire il richiamo dell'azione. La sensibilità che nutriva questo comune modo d'essere era significativamente, una sensibilità religiosa: un concentrare il senso dell'esistenza nella forza risolutrice e redentrice dell'attimo, rispetto alla quale la prossimità della morte che si realizzava nella guerra era la più fedele espressione. Se Pavese visse i mesi cruciali successivi all'8 settembre appartato nel Monferrato in una solitaria meditazione, per Pintor l'aderire alla causa dell'antifascismo venne, verrebbe da dire quasi allo stesso modo in cui era stato accolto lo scontro militare fra le nazioni, mantenendo inalterato il valore “metafisico” insito nell'esperienza del fronte. Pintor vi trovò la morte, a Pavese accadde di togliersi la vita sei anni dopo. Per entrambi il «sacrificio di sé» (p.151) recise piuttosto che risolvere quelle tensioni.
Riprendendo l'immagine utilizzata da Zunino della “penombra”, ci piacerebbe estenderla anche a quegli intellettuali presi in esame nell'opera, segnatamente coloro che si trovarono accumunati nell'esperienza della rivista La Voce (1908-1913), che furono invece integrati al fascismo e che, soprattutto, sopravvissero ad esso in un mondo, quello della Repubblica e della democrazia, al quale la loro indole non seppe né volle mai del tutto intonarsi.
Nelle pagine loro dedicate, Zunino mostra come Prezzolini, Papini, Soffici, partiti con l'intento di operare un «totale rinnovamento della cultura e della società italiana», in una cantilena di proclami, si erano poi riconosciuti nella figura carismatica di Mussolini e dunque nell'esperienza della dittatura fascista, finendo col vivere e subire l'Italia liberata e la successiva Repubblica come cosa loro estranea. Ciò che più colpisce della loro personale vicenda è quello scetticismo greve da sopravvissuti a se stessi, dove se c'era, l'intelligenza era nient'affatto congiunta con una coscienza morale. Colpisce quale vizio ricorrente di una certa cosiddetta intellettualità (vedi in quest'opera la pagine che ricostruiscono la vicenda di Indro Montanelli) che pretende di risolvere la critica nell'esercizio del cinismo, facendo poi di questa pratica la legittimazione di qualcosa non altrimenti giudicabile che come spirito di lacchè. Così nelle pagine dedicate a questi scrittori si assiste alla vicenda del loro riciclarsi dal fascismo nella nomenclatura dell'Italia repubblicana, allo «strisciante recupero» del loro passato, rimanendo assolutamente inalterata la «presunzione pedagogica», la «vanagloriosa certezza di avere inteso il senso della storia e il significato della vita»; così commenta Zunino nella stessa pagina : «poco, o fin troppo, per dare veramente un senso alle scelte del passato, nulla in grado di legittimare l'agire nel presente» (p.555).
La temperie culturale da ultimo descritta è vissuta anche attraverso la vicenda dei tre più grandi quotidiani che durante e dopo il fascismo fecero l'opinione pubblica in Italia. Un capitolo di quest'opera è infatti dedicato al trapasso dalla dittatura al nuovo ordine che vissero le due principali testate della stampa del nord: il Corriere della Sera e La Stampa e poi nel sud Il Messaggero ed il ‘Tempo'.
Un unico atteggiamento di fondo raccoglie il senso della funzione della stampa nel primo decennio della Repubblica, «una disposizione degli animi il cui compendio si sarebbe potuto stringere nel consueto motto: mettere una pietra sul passato» (p. 526). Particolarmente significativa la vicenda del Corriere in quanto, seppure per un periodo assai breve, ossia fino all'estate del '46 sotto la direzione e la firma di Mario Borsa, sul più prestigioso giornale italiano si tentò di riflettere riguardo alle responsabilità della borghesia, ovvero di quella «‘gente per bene' che aveva lastricato la via alla dittatura» (p.513). Di fronte al nobile e doveroso intento critico di questo direttore, ben presto si levarono gli interessi dei ceti tradizionali ai quali premeva piuttosto nascondere le responsabilità dietro un'immagine del fascismo come fenomeno estraneo al vero sentire degli italiani, non dotato di un'insita negatività ma piuttosto svantaggiato dalla ‘congiuntura storica'. Si ripeteva ancora in questi ‘luoghi' l'adagio, ricordato a proposito dell'interpretazione cattolica, della fatalità della storia. L'attenzione veniva ora piuttosto a concentrarsi contro il pericolo comunista, al quale, attraverso una contorsione del giudizio storico presto fattosi vero e proprio canone storiografico, si imputava la stessa responsabilità del fascismo e, contemporaneamente, si dava realtà ad un liberazione a rovescio dall'antifascismo riconosciuto come fonte permanente di instabilità e di divisione nella coscienza della nazione.
Erano questi, come si può intendere, accadimenti del tutto estranei ad ogni concreto rinnovamento.
E' stato fatto notare come sia invalso tra gli intellettuali italiani il giudizio circa una incapacità da parte della cultura tedesca a compiere un reale confronto con il passato del totalitarismo e, sempre lo stesso autore, Gennaro Sasso, non ha mancato di ricordare come se da quella cultura sono nate opere quali il Doktor Faustus di Thomas Mann o La catastrofe della Germania di Friedrich Meinecke, differentemente in Italia non soltanto il fascismo è rimasto un'eredità imbarazzante, ma, nello stesso tempo, sostanzialmente inascoltata, quando non fu censurata o mutilata, fu la voce di chi come Benedetto Croce aveva percorso e, di fatto, accompagnato con la sua costante riflessione la storia d'Italia e, per questo, insieme ad una esemplare integrità morale, migliori strumenti avrebbe potuto fornire per rinnovarsi secondo una coerente sensibilità verso la propria storia recente.
A Benedetto Croce e alla sua interpretazione del fascismo sono dedicati i due capitoli centrali dell'opera di Zunino.
Non è una recensione certo il luogo adeguato per ripercorrere la molteplicità di argomentazioni che intorno all'origine e al significato del fascismo furono sviluppate dal filosofo e trovano analisi in quest'opera. Al lettore che, armato di curiosità e pazienza, vorrà confrontarsi con queste pagine si preannuncia anzitutto come nella voce “fascismo” due sono le problematiche fondamentali che si nascondono. La prima, la più evidente, è quella del fascismo come problema storico e del contributo che alla sua interpretazione può offrire la prospettiva dello storicismo crociano; la seconda, in cui, si noti, la prima è presupposta, riguarda gli effetti che il fascismo produsse nella struttura stessa della filosofia di Croce. Intrecciata a questi problemi vi è poi una vicenda biografica che, se sulla sua opera lasciò tracce più o meno rilevanti, pervade invece quei Taccuini di lavoro , nati per sorvegliare la propria disciplina del Beruf e divenuti proprio negli anni della seconda guerra mondiale sempre più disponibili ad accogliere la confessione della propria inquietudine. Un'inquietudine che proprio negli ultimi anni del fascismo divenne tanto più profonda quanto di maggior forza dovette armarsi la volontà nel respingere quel desiderio di scioglimento dai compiti che l'esistenza gli imponeva.
Basterebbe ripercorrere questo diario, riconoscere quanto affatto incline fosse l'animo del Croce ad ogni retorica dell'“abisso” e come dunque di autentica drammaticità si caratterizzò la complessiva sua esperienza del fascismo, per respingere la possibilità che essa potesse essere racchiusa sotto il simbolo di una parentesi. Eppure anche in uno studioso attento e scrupoloso quale Zunino ci appare questa tesi ritrova spazio e giustificazione. Che il passato più prossimo per la nuova Repubblica, fosse realtà ingombrante è cosa certa ma che essa potesse trovare la forza per reggere alla prova del tempo attraverso la collocazione di questo, il passato, in uno spazio vuoto, in una estrinsecità come quella rappresentata dall'idea della “parentesi”, ci appare nient'altro che un'illusione che a Croce non poteva appartenere e infatti non appartenne. La contestualizzazione di questo problema interpretativo deve esser compiuta anzitutto attraverso le pagine di Croce e poi tenendo accanto alla ricostruzione di Zunino gli studi di Gennaro Sasso, da Zunino stesso considerato come il maggior interprete del Croce e che si trovano indicati nelle note dell'opera qui recensita.
Sul tema del rapporto fra Croce e il fascismo questa recensione altro non può dire e si preferisce piuttosto lasciar spazio ad alcune considerazioni conclusive.
Sembrerebbe che il Zunino voglia trasmetterci con questa ricerca la percezione di come di fronte alle difficoltà e spesso vere e proprie incapacità degli storici nel confronto con questo periodo cruciale della nostra storia recente, quello di certi intellettuali rappresenti un punto di vista più adeguato all'oggetto, come se nella coerenza morale che fu propria di Fenoglio, di Croce, di Ginzburg, Mila, Venturi, l'autore riconosca l'adeguata distanza che lo storico dovrebbe avere verso questi fatti.
Allo stesso tempo la vicenda del modo in cui gli intellettuali vissero e interpretarono il fascismo collocata all'interno della continuità rappresentata dall' élite politico-economica che prima durante e dopo mantenne le redini del potere in Italia, rischia di apparire su di un unico sfondo dove l'asprezza delle differenze anzitutto etiche e poi ideologiche, si scolora perdendo i tratti di distinzione nella cupa tonalità del fallimento storico.
E' rispetto a questa continuità della natura del potere politico in Italia che deve esser contestualizzato il problema dell'attualità dell'antifascismo e quello ad esso speculare della presenza nella storia della Repubblica di un “fascismo dopo il fascismo”, di “un passato che mai passerà” – per usare le parole con cui Zunino raccoglie i capitoli della prima sezione dell'opera.
Il bisogno di una ricostruzione della Resistenza libera dalla mitizzazione ideologica e insieme non strumentale come quella ‘revisionista', ad un interesse politico, conduce l'autore, in particolare ripercorrendo alcuni luoghi rappresentativi dell'opera di Fenoglio, a riconoscere l'istanza etica che fu all'origine di quelle istituzioni che diedero al nostro paese una identità repubblicana.
A lettura conclusa e così argomentando, si vuol porre l'attenzione sulla separazione oramai compiuta che nella vita politica del nostro paese si è prodotta della stessa politica nei confronti della cultura e che va di pari passo con l'altra fra Stato e società civile. La cultura oggi viene avvicinata dalla politica soltanto se sa ridursi ad una esistenza surrettizia ossia se sa farsi politica e vivere non delle sue ma delle leggi di questa. Varrebbe la pena aggiungere che questo processo ha ragion d'essere nella rescissione di quell'esile filo – eppur necessario alla “dignità” del cittadino – che vive nella mediazione delle ragioni dell'intelletto con quelle della prassi ed è la coscienza morale. E' per questo che il problema storico della Resistenza e della sua “attualità” non sta – si sarebbe quasi tentati di dire – ingenuamente, nella possibilità di una descrizione scientificamente oggettiva della sua realtà storica ma nell'imbarazzante eredità di chi, come recita una osservazione del diario della Resistenza di Pietro Chiodi, fu capace di dire a se stesso come fosse diventato impossibile «vivere accettando qualcosa di simile» e seppe, conseguentemente, agire. |