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Bruno Accarino (a cura di), Confini in disordine. Le trasformazioni dello spazio.
Manifestolibri, 2007

di Dario Gentili

Nel dibattito filosofico attuale, come ha profetizzato Michel Foucault, diventa sempre più centrale la questione dello spazio, interrogata soprattutto dal versante filosofico-politico. La globalizzazione ha imposto, infatti, un ripensamento radicale di tutto il bagaglio di concetti che il pensiero politico moderno, in particolare quello fondato sulle categorie di sovranità e Stato, ci ha consegnato. Stando alla linea Hobbes-Schmitt, che presuppone il rapporto privilegiato e la compromissione originaria di politica e spazio, non può essere elusa la domanda sulle ripercussioni politiche prodotte dalle trasformazioni spaziali e geopolitiche in corso. Certo è che, nella loro forma moderna, le categorie di sovranità e Stato non sono in grado di comprendere, controllare e dominare la spazialità della globalizzazione. La crisi del paradigma moderno del politico – e della spazialità del politico moderno – è evidente non solo a livello della riflessione filosofica. Eppure, che cosa è, in particolare, in crisi? Di quali concetti, che definiscono specificatamente la concezione moderna dello spazio, bisogna decretare la crisi irreversibile? Piuttosto che nell’individuazione dei nuovi spazi e delle nuove forme politiche che si producono o potrebbero prodursi, Confini in disordine, una raccolta di saggi a cura di Bruno Accarino, prendendone atto, interroga la crisi in profondità, estendendone la portata all’intera Weltanschauung della modernità ed evidenziandone pertanto una ben maggiore complessità. È dal punto di vista della sua crisi attuale che è possibile valutare in pieno la portata complessiva del “progetto” moderno; detto altrimenti: con la permeabilità e la porosità dei confini statuali non va in crisi soltanto la forma-Stato e il concetto di confine, bensì l’intera immagine del mondo che rappresentano e – su questo insiste Accarino nei suoi due saggi – la centralità della rappresentanza nell’ordine politico e, ancor più in generale, l’idea stessa di rappresentazione che ne è a fondamento. Secondo Accarino, la riflessione filosofica non ha ancora compreso in pieno e affrontato quanto di moderno resiste nella globalizzazione perché questa possa dirsi post-moderna: «Se è da respingere l’immagine dello sconfinamento come di un processo che è destinato a cancellare tutte le tracce e a creare un fittizio spazio liscio, non altrettanto può dirsi dello sconfinamento veicolato dalla potenza della contingenza storica. Se si pensa alla vigenza di quella sorta di codice che ha legato per secoli la rappresentanza politica a condizioni territoriali, o al fiorire di metafore a ridosso della metafora semplice della rappresentanza come “stare per” o stare “al posto di”, si può intravedere a quante ricerche future occorrerà affidare il compito di ridisegnare gli schemi offerti dalla fittissima rete della storia istituzionale della rappresentanza» [p. 28].

Sia nel saggio introduttivo, L’entropia del confine, che in ‘Tabula constituens’. Tra appropriazione cartografica e geometria politica, Accarino delinea una breve storia della cartografia per marcare, oggi, le trasformazioni dello spazio politico che sono intervenute: l’inoperosità del concetto di confine e lo svuotamento della concezione della rappresentazione. Le vicende storiche e lo sviluppo della cartografia possono rappresentare al meglio il modo e il senso dell’“appropriazione” politica dello spazio. La cartografia del mondo non può essere considerata la traduzione geo-grafica della realtà; mediante la sua rappresentazione, essa è piuttosto la produzione e la creazione stessa del mondo: l’immagine che su carta si offre del mondo, la mappa, è il mondo stesso. Attraverso un processo di progressiva semplificazione e astrazione – dalla geografia alla geometria, dalla tridimensionalità alla bidimensionalità –, la cartografia diventa un’appropriazione del mondo in funzione politica, fino alla saturazione del suo spazio e alla riduzione della sua realtà a rappresentazione. Per essere “reale”, il confine stesso non è mai soltanto una linea tracciata sulla carta: «L’ipotesi di partenza dalla quale muovere è che il processo costituente degli ordinamenti politici occidentali abbiano avuto bisogno, per ciò che attiene alla loro opera di localizzazione e di spazializzazione, di contributi simbolici esorbitanti da quello, pur decisivo, della determinazione dei confini» [p. 36]. Ciò che conferisce legittimità al confine non è la giustezza del suo tracciato, quanto piuttosto l’orizzonte simbolico entro cui si inscrive, il pro-getto che pre-suppone: l’ordo di cui è parte. In tal senso, i saggi su Voegelin (di Antonietta Brillante) e su Schmitt (di Nicola Casanova) offrono l’analisi di due pensatori che hanno dato un contributo fondamentale all’interpretazione della spazialità moderna nella misura in cui erano consapevoli che il progetto politico moderno si sosteneva su un fondamento trascendente rispetto al mero calcolo cartografico.

Che ne è, che legittimazione hanno i confini in assenza di un ordine o di un orizzonte? Così si potrebbe parafrasare il titolo del volume, Confini in disordine. In tal modo, Accarino rovescia i termini in cui frequentemente è affrontata oggi la questione dello spazio. L’esempio della cartografia mostra come sia la politica e le sue esigenze a determinare lo spazio e non viceversa. Non è possibile individuare o semplicemente pensare nuove forme di spazialità in un contesto politico e con categorie politiche ancora legate all’ordine moderno. È la questione di cui si occupa anche il saggio di Gregor Fitzi, Dinamiche dello spazio politico nella comunità mondiale. Certo, si hanno già a disposizione anche altre categorie, meno compromesse di quella di “confine” con la cartografia dominante della modernità, come quella di soglia [pp. 35-36]. Ma non basta. Senza una diversa progettualità politica, resta dubbia l’efficacia politica delle nuove concettualizzazioni dello spazio sorte dalla crisi della mappatura del mondo moderno: «Rimane da capire, al di là di facili e politicamente sterili omaggi alle intrinseche virtù rizomatiche del mondo “in rete”, se le forzature disciplinanti e quasi nomopoietiche della conoscenza cartografica, che è parte integrante della storia della rappresentazione, non debbano, in un prossimo futuro, cedere il passo ad un nuovo ordine iconico; e se quindi non sia l’intero spettro della rappresentazione ad assumere, oggi, un volto inedito» [p. 59]. Per adesso, in quest’epoca ipermoderna, si assiste alla confusione e al cortocircuito di pre-moderno e post-moderno; lo spazio è s-confinato per la finanza e i migranti, ma non per la politica, che, non riuscendo a organizzarlo “sulla carta”, ricade nell’arcaismo dell’innalzamento di mura pur di legittimare i propri confini: nel cortocircuito tra mappa e mondo, i confini si devono tracciare materialmente nella realtà per affermarne l’esistenza e l’efficacia sulla carta politica. L’ultima rappresentazione possibile di quest’epoca resta quella de Il castello di Kafka, dove K. vaga senza scopo e senza fine in un villaggio che ormai non ha più bisogno di un agrimensore

PUBBLICATO IL : 27-04-2008
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