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G. Bocchi e M. Ceruti ( a cura di), La sfida della complessità.
Bruno Mondadori, 2007

di Fausto Fraisopi

Nel 2007 è uscita in ristampa presso Bruno Mondadori la seconda edizione de “La sfida della complessità”, un volume collettaneo pubblicato nel 1985 composto da numerosi ed interessanti contributi dei protagonisti, a volte dei “padri” del pensiero della complessità. A distanza di più di venti anni, questo volume, di grandissimo valore teorico (tanto dal punto di vista epistemologico quanto filosofico, tanto ieri quanto oggi), acquista anche un notevole valore storico.  Se infatti, oggi la complessità rappresenta l’orizzonte stesso della scienza, ne articola gli sviluppi, le domande, il presente volume ci introduce nella complessità in statu nascendi. Esso rappresenta un’introduzione alla complessità secondo le sue molteplici “vie”.
Tra questi contributi compaiono quello di Edgar Morin (“Le vie della complessità”, pp. 25-36), quello di Ilya Prigogine (“L’esplorazione dela complessità”, pp. 155-169), Premio Nobel per la Fisica ed autore, insieme a Isabelle Stengers (“Perchè non può esserci un paradigma della complessità”, pp. 37-59) de “La nuova alleanza”, uno dei libri fondamentali per l’inizio del pensiero della complessità. A questi saggi si aggiungono quello di Jean-Louis Le Moigne (“Progettazione della complessità e complessità della progettazione”, pp. 60-78), uno dei maggiori studiosi internazionali di modellizzazione sistemica, di Heinz Von Förster (“Cibernetica ed epistemologia: storia e prospettive”, pp. 88-116), colui che maggiormente ha indagato i legami fra teoria della complessità e teorie dell’informazione, quello di Francisco Varela (“Complessità del cervello e autonomia del vivente”, pp. 117-133), quello di James E. Lovelock sull’ipotesi “Gaia” (“Gaia: una proprietà coesiva della vita, pp. 183-202), quello di Douglas R. Hofstadter (“L’architettura del ‘Jumbo’”, pp. 274-309). A questi saggi − che si muovono negli ambiti storicamente “classici” della complessità − si aggiungono dei saggi che esplorano la complessità nel dominio delle scienze umane, quello di Donata Fabbri Montesano e Alberto Munari (“Il conoscere del sapere. Complessità e psicologia culturale”, pp. 310-322), quello di Gianfranco Pasquino (“La scienza politica e la sfida della complessità”, pp. 323-337) e quello di Ervin Lazlo (“L’evoluzione della complessità e l’ordine mondiale contemporaneo”, pp. 338-376). A mò di conclusione troviamo un saggio molto interessante di Gianluca Bocchi, “Dal paradigma di Pangloss al pluralismo evolutivo: la costruzione del futuro nei sistemi umani” (pp. 390-402) che conferisce una sinossi, per quanto difficile, dei preziosissimi saggi contenuti nel volume.  “Ciascuno di degli itinerari di questo libro − come scrivevano i Curatori del volume in occasione della sua prima pubblicazione − ci consente di camminare nei luoghi di frontiera dove più cruciali sono i dibattiti filosofici ed epistemologici, dove più creative e più feconde sono le costruzioni di nuovi concetti, di nuove teorie, di nuovi strumenti per pensare la natura, la storia, la conoscenza, l’umanità. Ma il modo in cui ciascuno autore ci accompagna attraverso il proprio itinerario è anche un contributo interessate per la delineazione di una storia della complessità. E la testimonianza diretta, la ricostruzione del modo in cui si sono aperte particolari vie di accesso al problema della complessità, sono singolarmente significative della complessità della storia che porta all’emergenza di questo problema, della complessità della storia della nostra tradizione e − più in generale − della complessità della storia delle idee” (pp. XXXVI-XXXVII).
Come sottolinea Isabelle Stengers, l’emergenza della complessità non è l’emergere di una risposta nuova ad un problema classico, o già codificato dalla tradizione epistemologica, ma l’emergere della coscienza di un nuovo modo di porre problemi, di un modo di porre problemi ritenuti irrilevanti dal/nel paradigma classico, galileiano-cartesiano, della scienza. Nasce, anche dal punto di vista estetico ed etico, un nuovo Weltbild, si definisce progressivamente un nuovo orizzonte di interrogazione, a partire dal quale le questioni non sono più orientate alla sola dimensione quantitativa del dato. Se infatti è un nuovo orizzonte problematico ad orientare le domande, con l’emergere dell’orizzonte problematico della complessità cambiano a livello qualitativo le domande e le risposte, si ridefinisce una nuova prospettiva del sapere.
E’ questo nuovo esercizio della domanda che rivela il duplice aspetto della sfida della complessità. Si assiste, da un lato, alla fissazione di una certezza irriducibile delle nostre conoscenze, perchè la relazione soggetto-oggetto [Subjekt-Objekt Beziehung] viene radicalmente messa in discussione. Quei “miti dell’oggettività” che avevano costituito la scienza dell’epoca moderna, il concetto di certezza, di esaustività, di onniscenza (anche se attribuita ad un intellectus archetypus) non guidano più la positività della ricerca scientifica. Dall’altro lato l’ordine “cosmico” che fondava quella relazione “soggetto-oggetto” viene meno, si sgretola. I problemi che definiscono progressivamente i campi tematici delle scienze della complessità, dalla fisica quantistica alla cibernetica alla modellizzazione, sgretolano l’universo cartesiano (o di eredità cartesiana). In questo senso la complessità si fonda su una scommessa, quella di non ridurre l’approccio alla fenomenicità, la scommessa di sviluppare un’approccio non mutilante alla stessa natura umana.
Costruire, come propone Morin, un metodo della complessità, significa innanzitutto prendere atto delle transizioni epocali in cui incorre la tradizione filosofica occidentale. Lo sgretolarsi dell’onto-teo-logia conduce al venir meno dei concetti di evidenza, di plausibilità euristica, di un ideale di conoscenza che per secoli ha guidato le definizioni della natura, dei metodi, dei compiti, delle domande, degli scopi dell’impresa scientifica. La finitezza della conoscenza umana, l’incompletezza, l’indeterminazione, la necessità di ricorrere a dei modelli complementari ed interagenti, intervengono a colmare quel vuoto creato dal riconoscimento delle hybris del sapere assoluto.
La residualità del quantitativo, l’incertezza dell’osservazione, non sono solo aspetti secondari dell’esperienza scientifica ma ne costituiscono la trama più intima. Tutto ciò non può che indicare la necessità di una ridefinizione radicale delle categorie ontologiche fondamentali. E’ proprio il senso di un’ontologia non monolitica che anima il concetto della fluidità costitutiva del sapere: non un “paradigma” fondato sull’immagine del solido ma un “non-paradigma” configurato a partire dalla fluidità degli schemi, dal loro interagire, dalla loro osmosi costante e ricorsiva. La crisi dell’ontologia monolitica della res innesca una nuova indagine della fenomenicità, una nuova fase di interrogazione. A partire da questo nuovo senso del domandare, il sistema in cui vengono configurati i dati si propone come un livello dinamico, riconducibile a strutture sovra-sistemiche e sotto-sistemiche, che co-opera all’istituzione di vincoli, di “gerarchie di possibilità”, di vincoli tra strutture di possibilità ecc.
Il problema cambia, la nozione stessa di “problema” si dinamizza, dinamizzando anche l’orizzonte categoriale dell’epistemologia che non sarà più un orizzonte omogeneo ma dinamico. Ed è proprio la nozione di “orizzonte” a rivelarsi centrale [p. 10] perchè l’orizzonte indica un limite costitutivo ma allo stesso tempo estensibile, una linea limite [Grenzlinie] sempre costitutivamente legata all’osservatore, che oltrepassa la nozione “classica” di oggettività. L’oggettività è un oggettività costitutivamente legata ad un campo sintattico, ad una grammatica, ad un orizzonte di senso: “all’interno di un universo di discorso, di un programma, o di particolari opzioni epistemologiche, un problema può risultare insolubile, e la sua insolubilità in tali ambiti può essere oggetto di dimostrazione” [p. 9]. L’orizzonte, come limite, lungi dall’esprimere una struttura o un’entità metafisica, esprime “quell’insieme di precondizioni attraverso le quali si verifica ricorrentemente l’emergenza, la costituzione, la creazione di novità” [p. 10]. L’orizzonte del sapere è un territorio che deve essere esplorato, non un cosmo cristallino fissato nell’empireo della metafisica. Di conseguenza  “una mappa del sapere non è data dall’alto, non è data in anticipo: non si può sorvolare neppure per un momento, a volo di uccello, il territorio delle conoscenze nella sua totalità. Siamo inevitabilmente e costitutivamente all’interno del territorio, e dall’interno apriamo e percorriamo sentieri, raggiungiamo regioni diverse e pregressivamente ci figuriamo, disfiamo e nuovamente disegnamo le nostre mappe” [p. 19].
Se, di conseguenza, il sapere è un orizzonte da esplorarsi, da sondare, di cui tracciare prima di tutto una topografia, non c’è una via sola, già tracciata, predefinita, per accedere all’universo della complessità. Ci sono, come mostra il saggio di Morin, molte vie alla complessità, non più un approccio monologico, monolitico, pre-stabilito. Questo sottolinea l’eccedenza anche antropologica del pensiero della complessità che − come Giano − si dimostra sempre almeno am-bivalente, irriducibile ad uno schema, nutrito da quel principio di complementarità che Niels Bohr aveva originariamente formulato per la fisica ed esteso poi al sapere in quanto tale. La complessità stessa si mostra come eccedenza dallo spazio mentale della fisica classica, come l’introduzione destabilizzante dell’incertezza, dell’incompletezza, dell’indeterminazione di alcune conoscenze. Allo stesso tempo, a partire dalla critica di una visione monologica e monolitica, il pensiero della complessità si presenta come l’affermazione più radicale della multidimensionalità del sapere. Non si dà più un universum ma un multiversum, non si da più uno strumento privilegiato, il telescopio (per il macro-cosmo, l’infinitamente grande) o il micro-scopio (per il micro-cosmo, per l’infinitamente piccolo) ma − per usare una felice espressione di Joel de Rosnay − un “macroscopio”: “Noi siamo oggi messi di fronte à un altro infinito [scil. rispetto all’infinitamente piccolo e all’infinitamente grande]: l’inifinitamente complesso. Ma questa volta non ci sono più strumenti [scil. il microscopio ed il telescopio]. Non c’è altro che un cervello nudo, un’intelligenza e una logica disarmate di fronte all’immensa complessità della vita e della società. Siamo confusi per il numero e la prodigiosa varietà di elementi, di relazioni, di interazioni o di combinazioni sui quali riposano il funzionamento dei grandi sistemi dei quali siamo delle cellule, per non dire gli ingranaggi. Siamo deviati dal gioco delle loro interdipendenze e della loro dinamica propria, che li fanno trasformare nel momento stesso in cui noi li studiamo, mantre avremmo bisogno di comprenderli per meglio guidarli. Certo, il computer è uno strumento indispensabile. Ma non è che un catalizzatore, non è ancora quello strumento di cui noi tutti abbiamo tanto bisogno” [Joël de Rosnay, Le Macroscope, p. 9]. Comme afferma Morin nel suo saggio “Le vie della complessità”, “non ci si può accostare alla complessità attraverso una definizione preliminare. Dobbiamo invece seguire percorsi differenti, tanto differenti che ci si può chiedere se in vece di una complessità non vi siano delle complessità” [p. 25].
Le scoperte scientifiche nel dominio della fisica (ma non solo) impogno innanzitutto una ridefinizione dei concetti di “ordine”, di “disordine”, di “caos”, di “equilibrio”, come anche una ridefinizione assiologica del valore attribuito a questi concetti. In questa ridefinizione, innescata dalla termodinamica e dalla scoperta delle strutture dissipative, anche il tempo inizia a svestire il suo carattere univoco: esistono dei tempi “oggettivi” differenti, costitutivamente interagenti con sistemi diversi, con situazioni morfologiche eterogenee. La temporalità, la località e la contestualità dell’evento fisico come anche dello sviluppo onto- e filo-genetico, la singolarità (come ad esempio la singolarità del vivente), non sono più relegate, rimosse dall’orizzonte scientifico. Si sorpassa così quella che Morin chiama “l’astrazione universalista”.
Il superamento del paradigma dell’astrazione universalista e, quindi, il superamento di un’ontologia fissa, monologica, monolitica apre alla comprensione della complessità come trama che non appartiene alla res, nè al soggetto, ma alla relazione dell’uomo alla natura. Ciò che si dimostra complesso è l’approccio stesso, un nuovo modo di vedere, perchè articolato sulla complementarità tra schemi diversi, tra schematismi diversi, un approccio sempre esposto alla necessità di riqualificazione, articolato su una ridefinizione continua delle sue categorie fondamentali. Come mostra il saggio di Jean-Louis Le Moigne, ogni intelligibilità possibile della complessità implica una ridefinizione della nostra concezione tradizionale della razionalità, una transizione da una razionalità positiva (“sostantiva”) ad una “razionalità procedurale”.

PUBBLICATO IL : 01-08-2008
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