Come ricorda Francesco Saverio Trincia nella sua introduzione, il volume raccoglie i contributi di diversi studiosi europei ad un convegno, dal titolo “Il problema del soggetto nella filosofia contemporanea”, che si è svolto a Roma nel Febbraio 2005, organizzato dallo stesso Trincia (Università La Sapienza) e da Gianna Gigliotti e Aldo Brancacci, (Università di Tor Vergata).
Il testo, curato da Trincia e Stefano Bancalari, ha il merito di sondare i diversi approcci e i diversi livelli (non solo filosofici) attraverso i quali il problema della soggettività si è sviluppato nei diversi filoni della ricerca filosofica del Novecento.
Tema centrale della filosofia moderna a partire da Cartesio, la categoria del soggetto rimane al centro della riflessione filosofica contemporanea, nonostante essa non possa più affidarsi ad una fondazione teoretica quale quella offertale da Cartesio. E’ stata probabilmente la fenomenologia di E. Husserl ad aver per prima tematizzato il soggetto e la soggettività in forma problematica.
Non è un caso, allora, se all’interno del volume l’impostazione fenomenologica resti uno degli orientamenti privilegiati. Tuttavia, lo stesso carattere aperto della questione comporta una molteplicità di approcci, la quale trova in qualche modo riscontro nella varietà dei contributi raccolti.
Se da un lato saggi come quelli di Bodei e Marramao privilegiano impostazioni diverse da quella rigorosamente fenomenologica, i testi di Olivetti e Trincia, pur richiamandosi esplicitamente ad essa, non mancano di ricercare un confronto con la filosofia classica, chiamando in causa pensatori come Kant e Hegel.
Il saggio di Brigati mette invece a confronto fenomenologia e pragmatismo americano, al quale con forzatura solo apparente egli riallaccia anche il pensiero di Wittgenstein.
Di derivazione lato sensu fenomenologica sono gli altri saggi presenti, che mostrano quanto dal pensiero husserliano si siano diramate diverse correnti filosofiche, alcune che rivendicano l’eredità fenomenlogica, altre che si propongono come un tentativo di rielaborarla o di radicalizzarla.
La raccolta si apre con il saggio di Marco Maria Olivetti, Intersoggettività e religione. La scelta di aprire il volume con questo contributo vuole essere innanzi tutto un omaggio allo studioso scomparso, e tuttavia assume anche un significato filosofico. Olivetti, infatti, avvia una riflessione che mette in discussione la certezza fondativa dell’ego cartesiano, affermando che il soggetto, pensato qui come «persona», «è già prima dell’essere» (p. 21) e interrogandosi, poi, non sul che ma sul chi che da questa espressione viene significato. Si tratta di rinunciare ad una “metafisica descrittiva” che si limiti a trasferire il linguaggio ordinario e naturale su di una realtà già pensata in senso logico/teoretico - limite che Olivetti imputa in parte allo stesso approccio fenomenologico tradizionale. La domanda sul soggetto diviene, dunque, domanda sul chi – domanda religiosa e teologica. Ed è in Kant, secondo Olivetti, in particolare nel “tu devi, dunque puoi” che il potere oggettivante dell’ego cogito viene esautorato, mentre il soggetto-persona non si costituisce più come l’essere derivato da un pensiero, ma, appunto, come un potere che risponde all’appello alla seconda persona del “tu devi”. Non più l’ego significa il soggetto, dunque, ma quel tu che chiama, l’imperativo che obbliga la persona, il cui tempo diviene allora non più il presente della certezza teoretica, né una qualche temporalità estatica e, se si vuole, posteriore, quanto, piuttosto, l’intervallo (interim) in cui l’io è già sempre il tu di un comando e di una risposta ad esso. In cui, ancora, l’altro si costituisce all’interno dell’obbligazione stessa, mostrando il carattere etico e originariamente intersoggettivo della persona – e non è un caso, allora che, in conclusione del saggio, sul piano religioso, il tu del dovere diviene la persona del comandamento dell’amore.
Come nel saggio di Olivetti, in quello di Francesco Saverio Trincia, L’angolo oscuro della soggettività, il chi del soggetto è sottoposto ad una analisi e ad una critica serrate a partire dallo spazio opaco del soggetto, rimasto impensato. L’argomentazione segue due percorsi: l’uno, filosofico, consiste in una ripresa dell’interpretazione heideggeriana del soggetto e dell’autocoscienza in Hegel (seminario di LeThor del 1968); l’altro porta Trincia a confrontarsi con la prospettiva psicanalitica.
Entrambi i percorsi mirano all’abbandono dell’ipotesi di un soggetto del tutto trasparente a se stesso, capace di autofondarsi e di fondare il mondo attraverso la propria intenzionalità. Trincia, non abbandonando del tutto un’ipotesi fondativa trascendentale, tende piuttosto a mettere in risalto la presenza necessaria e inevitabile, all’interno di questa stessa fondazione, di uno scarto del soggetto (che si pensa) rispetto a se stesso (in quanto pensato).
Secondo il percorso filosofico questo scarto originario è quella che Heidegger chiama Zerrissenheit (lacerazione). Heidegger, nel seminario citato e in altri saggi dedicati al pensiero hegeliano, riprende l’idea che, se nella vita quotidiana non esiste lacerazione della soggettività, così non accade quando il soggetto si pensa come autocoscienza. Trincia oltrepassa l’impasse fenomenologica che porterebbe a pensare questa lacerazione come un non senso teoretico, attraverso l’idea che si tratti piuttosto di una “evidenza originaria”, un’intuizione di sé che il soggetto ha, appunto, come lacerazione.
Compiuto tale gesto filosofico, Trincia può aprirsi alla ricerca psicanalitica attorno al problema della soggettività, per ritrovare tanto un campo d’applicazione all’idea di soggetto originariamente lacerato, quanto un pendant alla riflessione filosofica su di essa. L’approccio psicanalitico permette di chiarire che questo “angolo oscuro” della soggettività altro non sia che il vissuto stesso del soggetto. Come tale il soggetto può quindi vivere lo scarto paradossale di cui e in cui si costituisce, ma non può propriamente saperlo.
Questa “paradossale” teoria del soggetto si tutela da ogni deriva idealista o riduzionista attraverso una doppia garanzia che filosofia e psicoanalisi sembrano offrirsi a vicenda: nella necessaria identità e differenza tra io trascendentale ed io psicologico, è possibile garantire un discorso unitario sul e del soggetto che ne comprenda e ricostruisca insieme il suo originario esperirsi come scisso.
I due saggi appena discussi, non a caso posti all’inizio e alla fine del libro, sembrano offrire al lettore la cifra analitica di tutto il volume. Un’impostazione quale quella di Olivetti e Trincia (la ridiscussione dei fondamenti disciplinari della filosofia, il ritorno ai suoi problemi fondamentali e l’apertura a discipline non immediatamente filosofiche) è facilmente rintracciabile nella gran parte dei saggi presenti nella raccolta. Per comodità abbiamo diviso i contributi ulteriori in due grandi gruppi, che solo in parte corrispondono all’impostazione e alle intenzioni esplicite dei diversi autori. Un gruppo di saggi, in particolare quelli di Bancalari, Bernet, Benoist e Goddard sembrano richiamarsi più decisamente all’ampia e molteplice vicenda fenomenologica, così come si è sviluppata nella ricezione del pensiero di Husserl. Posizione più liminare e autonoma sembrano assumere i contributi di Scognamiglio e Brigati. Il saggio di Scognamiglio, presentando l’opera di Nicolai Hartmann, ci offre uno scorcio su di una filosofia, di certo non ignara della lezione husserliana, ma al contempo svincolata dalla decisa appartenenza ad una scuola. Il testo di Brigati tenta di gettare un ponte tra la riflessione fenomenologica e quella del mondo anglosassone. Infine Marramao e Bodei, pur impegnandosi in un confronto a tutto campo con la tradizione filosofica, scelgono un punto di vista offertogli soprattutto dalla produzione filosofica di lingua inglese degli ultimi venti/trent’anni.
Nel saggio dal titolo Phénoménologie et mythe de l’hypostase. Subjectivité, objectivité, apriori Stefano Bancalari si confronta con il pensiero di Emanuel Lévinas, in particolare con la nozione di ipostasi. L’ipostasi «rappresenta una radicalizzazione coerente della nozione fenomenologica di soggettività, attraverso la quale si rivela un rapporto di esclusione reciproca tra soggettività e manifestazione, ma anche una solidarietà strutturale – e aporetica – tra soggettività e intersoggettività» (p. 30; trad. nostra).
Lévinas analizzerebbe il concetto di ipostasi per poi confrontarlo con quello, strettamente legato alla fenomenologia di Husserl, di ego primordiale. Per Husserl quest’ultimo è la soggettività pensata come capace di costituire la manifestazione di una soggettività altra: l’alter ego, appunto.
Come ben mette in luce Bancalari, Lévinas, se da un lato critica Husserl, lo fa soprattutto per intraprendere un percorso alternativo a quello di Heidegger, che assegna una originaria socialità al Dasein. Per Lévinas non si dà un Mitsein, assicurato al soggetto fin dalla sua costituzione. La strada scelta presenta tuttavia un’ambiguità di fondo: l’ipostasi si pone da un lato come uscita dal tempo della quotidianità del il y a, dall’altro deve assicurare la possibilità che in questo tempo un evento si dia. La partita si gioca tra «mito dell’ipostasi» e l’edificazione di una «fenomenologia del quotidiano». Attraverso un confronto con Husserl, in particolare con quello delle Meditazioni cartesiane, Lévinas giunge alla convinzione che il confronto paradossale tra queste due totalità – ipostasi e quotidianità - non sia mai risolvibile pienamente: si tratta di una dialettica, non nel senso di Hegel, il quale intravede la possibilità di una Aufhebung, ma nel senso di Kant, per il quale la dialettica consiste nel confronto di due posizioni tra loro contradditore e alternative. Banacalari, infine, sottolinea – seppur di sfuggita – l’importanza che l’esperienza religiosa riveste nel pensiero levinassiano. La creazione del mondo da parte di un Dio è l’evento a partire dal quale è possibile concepire la stessa categoria di evento.
Il saggio di Rudolf Bernet, Autocoscienza affettiva, mette in questione la capacità della nozione tradizionale di intenzionalità di rendere conto della fondazione di una autocoscienza. L’intento è quello di evitare qualsiasi riduzione della coscienza a fatto psicologico o a mero processo cerebrale, senza rinunciare, al contempo, al ruolo fondamentale che la corporeità gioca nella costituzione di essa.
In particolare, sono le sensazioni ad essere poste da Bernet al centro della riflessione. Il ruolo da esse svolto appare evidente e pregnante, ad uno sguardo fenomenologico, nelle forme dell’esperienza coscienziale dei nostri movimenti corporei e in quella connessi agli eventi traumatici.
Nel primo caso si fa evidente il sussistere, al di qua della coscienza intenzionale, di un’autocoscienza corporea, la quale non è altro dalla coscienza, si potrebbe dire, di “come ci si sente”. In questo senso, Bernet connette queste sensazioni affettive originarie a quelle di piacere e dispiacere, caratterizzate dal loro non essere finalizzate. Esse sembrano offrire, così, la possibilità di pensare un’autoaffezione corporea originaria in cui «viene esperito solo il decorso della propria vita» (p. 57). La costituzione della coscienza si delinea, allora, come un «divenir-coscienti» originario. In rapporto a ciò, ancora più significativo è l’esempio delle sensazioni affettive – anch’esse pensate come originarie – che sembrano, paradossalmente, porre un veto alla possibilità percettiva medesima: le esperienze traumatiche. In esse il divenir-coscienti non è infatti l’atto intenzionale di una coscienza oggettivante, ma una sorta di divisione e differenziazione interiore che è, in primo luogo, una percezione di sé, appunto, un’autoreferenzialità originaria, sulla cui base soltanto un’autocoscienza riflessiva sembra possibile.
Nel saggio Le funzioni del soggetto, Jocelyn Benoist sposta l’interrogativo dalla questione strettamente connessa alla costituzione del soggetto a quella relativa alle sue funzioni. Riprendendo la teoria di Descombes, e il concetto di «agentività», Benoist rinuncia a pensare il soggetto in base ad una fondazione trascendentale e si sforza, piuttosto, di mettere in evidenza il suo essere immediatamente pratico – agente, appunto. Lo stesso rapporto con l’oggetto, quindi, non viene più visto come una sorta di frattura da ricomporre su di un piano più originario, quanto come la relazione, essenzialmente pratica, all’interno della quale il soggetto è tale. In una prospettiva fenomenologica, questo vuol dire ripensare i rapporti intenzionali come rapporti che non sono puri, ma sempre reali. Fin qui Benoist non fa, in realtà, che riproporre le tesi di Descombes. A questi tuttavia l’autore imputa una mancanza, che spiega attraverso l’analisi della «recessività», come forma particolare di intransitività del verbo. A partire da questa digressione, Benoist mostra come, proprio perché agente, proprio perché essenzialmente relazionale, o meglio, immediatamente costituito nella sua relazione all’oggetto, il soggetto è anche sempre passivo. Ed è per questo che la coscienza pura non può essere altro che un mito, poiché, nell’agentività non soltanto il soggetto opera qualcosa sull’oggetto: nel suo fare, al soggetto stesso accade qualcosa. Il soggetto, cioè, è sempre anche oggetto. In questo senso, allora, esiste una plurivocità del soggetto che, secondo Benoist, è necessario prendere in considerazione, nell’ottica secondo la quale «la vera fenomenologia del soggetto, che sarebbe una fenomenologia funzionale, [sarebbe] lungi da ogni evidenza immediata del soggetto (ma quale soggetto?) a se stesso» (p. 76).
In La figure du sujet sans objet dans la philosphie contemporaine. Derrida lecteur d’Antonin Artaud, Jean-Christophe Goddard analizza la ormai classica lettura offerta da Derrida dell’opera dello scrittore e uomo di teatro francese Antonin Artaud. Ci riferiamo, ovviamente, al saggio contenuto in La scrittura e la differenza, “Il teatro della crudeltà e la chiusura della rappresentazione”. Goddard inscrive l’analisi derridiana nel contesto più generale della filosofia francese degli anni Sessanta. In questi anni centrale è il contributo dell’opera di Georges Bataille. In particolare Goddard si riferisce all’opera L’esperienza interiore, in cui Bataille teorizza che l’esperienza, vale a dire il rapportarsi del soggetto ad un oggetto, comporti per il soggetto una «perdita di sé». Derrida, quindi, tenterebbe attraverso Artaud di interpretare la perdita di sé come follia. Questa assume però un senso duplice. Apparentemente si tratta della follia personale e artistica di Artaud, la cui opera consiste nella messa in discussione di ogni relazione tra sentire e corporeità. La follia, per Derrida, è in realtà la follia stessa del cogito cartesiano, che si pensa al di fuori di ogni apertura all’oggetto o sull’oggetto. A differenza del Foucault della Storia della follia, per Derrida il cogito non ha valore anche se il soggetto pensante è folle, ma ha valore proprio in quanto è legittimata la follia di un soggetto puramente pensante. L’opera di Artaud ha, a questo punto, per Derrida piuttosto il valore curativo di riacquisire la consapevolezza della follia interna alla logica del soggetto. Il rapporto fra soggetto e oggetto va compreso «a partire da questo eccesso» (p. 80; trad. nostra). Solo l’eccesso può fondare una «economia» della «protezione/esposizione del soggetto all’oggetto» (p. 81; trad. nostra). Dal punto di vista estetico, secondo Goddard, la linea che va Artaud a Derrida riprende l’idea roussoviana della festa come puro «atto politico», che annulla ogni valenza della nozione di spettacolo. Come è abolito ogni confine dato tra soggetto e oggetto e tra interno ed esterno, così è abolita la differenza di attore e spettatore: non più un dramma della rappresentazione ma il semplice costituirsi di una «presenza pura», che per Goddard rimanda tanto al progetto di Artaud di una sensibilità inorganica, quanto al carattere dionisiaco della tragedia teorizzato da Nietzsche.
Nel saggio di Goddard particolarmente problematico è il salto dalla dimensione individuale del rapporto soggetto-oggetto a quella politica, o più in generale intersoggettiva. Come l’autore stesso sembra ammettere nel saggio, è ripresa e messa al centro dell’argomentazione l’idea di Derrida che precedente ad ogni singola determinazione ontologica sia la «differenza pura», la différance che qui viene reinterpretata come originario dispendio del cogito nell’oggetto. Poiché la possibilità di un’esperienza dell’oggetto dipende da questo dispendio, l’intersoggettività, intesa come struttura del soggetto, è già per lo meno implicitamente operativa nella esperienza dell’oggetto.
Di tutt’altra impostazione il saggio di Carlo Scognamiglio, Il problema del soggetto nell’ontologia citica di Nicolai Hartmann, nel quale, attraverso la ricostruzione di alcuni aspetti del pensiero di Hartmann, viene proposta una ulteriore prospettiva volta a ripensare fondativamente la soggettività oltre gli ambiti strettamente cognitivi.
E’ a partire da una dissoluzione del soggettivisimo trascendentale kantiano, infatti, che Hartmann fonda la propria ontologia critica, sostituendo all’analisi trascendentale quella categoriale dell’essere.
Come Scognamiglio mette in evidenza, il punto cruciale della riflessione hartmanniana è la questione di come possa comprendersi la relazione gnoseologica tra soggetto e oggetto se si rimane prigionieri del «dogma della coscienza», secondo il quale quest’ultima non può essere trascesa. Ma la comprensione (Erfassen) è, in quanto tale, un atto rivolto alla trascendenza, e trascendente esso stesso: come si rende possibile, in questa prospettiva, l’atto conoscitivo, attraverso il quale il soggetto trascende se stesso verso l’oggetto? Inoltre il soggetto stesso è a sua volta oggetto di rappresentazione da parte di altri soggetti, il che dischiude l’ambito di una intersoggettività che, come si vede, dovrebbe potersi pensare come cooriginaria alla soggettività medesima.
Si tratta per Hartmann, quindi, di ricondurre il soggetto e l’oggetto alla loro comune appartenenza ad un mondo reale. In questo senso si fa allora evidente la necessità di svincolare la relazione soggetto-oggetto dai termini strettamente conoscitivi e di ripensarla in senso fondamentalmente “ontologico”, come una relazione che si gioca all’interno della struttura stessa dell’essere.
Scognamiglio riesce a mostrare con estrema chiarezza – pur ricostruendo la complessa indagine hartmanniana della struttura del soggetto e del mondo - come l’abbandono che qui Hartmann opera del piano trascendentale a vantaggio di quello ontologico apra inevitabilmente la strada ad una prospettiva immediatamente etica: non solo nel senso che l’oggetto reale si pone in quanto tale, ontologicamente, di fronte al soggetto, ma perchè anche l’oggetto ideale è oggetto di intenzione da parte del soggetto. Questi può “vedere” la sfera ideale e valoriale dell’essere in quanto è persona: non pone i valori, ma è in un mondo reale, il quale, a sua volta, si op-pone come oggetto alla sua attività assiologica.
Nel suo saggio La place des pratiques dans un monde de données, Roberto Brigati offre un possibile passaggio dalle teorie fenomenologiche della soggettività all’orizzonte aperto dal pragmatismo americano, ed in parte ripreso dal secondo Wittgenstein. L’impresa di Brigati non è di poco conto se si considera che vengono comparati approcci alla soggettività profondamente diversi. La fenomenologia, presa qui nel suo insieme, senza fare riferimento ad un autore in particolare, tende a privilegiare la costituzione di un a priori del soggetto, che ne assicuri la legittimità prima che questo divenga operativo nell’esperienza. L’approccio pragmatista ritiene questa impostazione un vero e proprio non senso, in quanto reputa impossibile studiare la soggettività al di fuori dell’esperienza. E’ evidente che, per Brigati, è la nozione wittgensteiniana di gioco a permettere di riformulare la teoria della soggettività, prendendo il meglio tanto dell’impostazione fenomenologica, quanto di quella pragmatista. Il soggetto (nozione che solo problematicamente può essere messa in campo quando parliamo di Wittgenstein) è, sì, già da sempre in un gioco, via via linguistico, conoscitivo, pratico o semplicemente esperienziale. Tuttavia, questo soggetto non può che trovarcisi a partire dalla domanda sulla natura (e sull’esistenza) di una possibile regola del gioco. Certo non un vero e proprio a priori; piuttosto l’emergere di un “come se si desse un a priori”, a partire dalle specifiche pratiche che il soggetto mette in campo.
Riprendendo un’espressione di Dewey, Brigati ritiene così possibile il superamento della spectator theory of knowledge, in quanto ogni sapere, anche il più scientificamente provato, può essere ridotto ad una specifica e relativa visione del mondo, che dipende dalla costituzione del soggetto nell’esperienza. E’ così possibile ribaltare quella che appariva come una visione passiva e puramente teoretica in un a vera e propria pratica di posizionamento nel reale.
Questa strategia permette a Brigati di dribblare molta della critica alla visione scientifica moderna del mondo (v. soprattutto Foucault) in favore di una posizione filosoficamente più meditata. Per Brigati l’approdo è il Wittgenstein di Della certezza, laddove il filosofo austriaco teorizzava di una possibilità di una fondazione del gioco linguistico come azione e mai come visione esterna di un soggetto puro.
Brigati conclude problematicamente il suo saggio chiedendosi fino a che punto sia possibile impiegare Wittgenstein in un’impresa di ripensamento del soggetto. Wittgenstein è interessato a individuare ed isolare la regola di un pattern linguistico o esperienziale e si presta ad ogni critica che metta in discussione al possibilità di considerare il valore normativo delle norme.
Il saggio di Giacomo Marramao, Relazione, costituzione, narrazione. Lo stato pluriversale del Sé, sposta decisamente l’interesse su un fronte diverso rispetto a quello della fenomenologia. Il punto di partenza della trattazione è una teoria del soggetto multiplo. Marramao recupera tale teoria dall’opera del filosofo Jon Elster, secondo la quale il soggetto in realtà è formato da un insieme di «io sottoindividuali», che rendono possibile l’identità del soggetto stesso, attraverso un equilibrio conflittuale. E’ chiaro che l’intento di Marramao è quello di costruire una teoria del soggetto volta a fondare filosoficamente il concetto di identità, sempre più importante in ambito politico. A questo fine Marramao coinvolge nella sua argomentazione diversi autori provenienti dalle più svariate correnti filosofiche, tanto analitici quanto continentali. Basti citare i nomi di Parfit, oltre Elster, da un lato, e di Derrida e Deluze, dall’altro. Lo scopo è evitare di cadere in una teoria del politico costruita su presupposti meramente razionali e che può di conseguenza sfociare solo in una visione procedurale dell’azione politica. L’esempio “negativo” è, in questo senso, la proposta filosofica di John Rawls.
Il saggio si presenta soprattutto come il tentativo problematico di rielaborare la nozione di soggettività alla luce tanto di una critica che si vuole insieme nietzschiana e humeana, quanto dell’esigenza di inscrivere il soggetto, preso come attore politico, in un mondo globalizzato e multiculturale. Marramao sottolinea il venir meno di alcune divisioni all’interno della filosofia, a partire dalla constatazione che in un testo come Reasons and Persons di Parfit la citazione in esergo sia una frase tratta da Nietzsche. E’ sostanzialmente possibile, quindi, portare avanti una critica radicale del soggetto quale quella di Nietzsche, avendo in mente una possibile ricostruzione di un soggetto “aperto”, attraverso gli strumenti filosofici di Hume.
Da quest’ultimo Marramao riprende l’idea di soggetto come federazione di facoltà del pensiero. Imitando in questo Deleuze, egli ritiene possibile riprendere questo tema humeano, liberandolo da qualsiasi aggancio o deriva metafisica. In questo senso si può dire che l’impresa assume tratti nietzscheani. Il problema che resta da risolvere è a questo punto la corrispondenza tra la solidarietà/conflittualità interna al soggetto medesimo e la realtà esterna, in questo caso l’organizzazione politica e sociale. La proposta di Marramao si può condensare di un «universalismo o cosmopolitismo della differenza (e non delle differenze)» (p. 155). Come riconosce lo stesso autore questo significa tornare su un problema fondamentale della filosofia politica kantiana per riarticolarlo o perlomeno per riformularlo, secondo la prospettiva contemporanea. Il compito della filosofia non si limita, quindi, alla creazione di sempre nuove «retoriche» volte alla giustificazione dei diversi sistemi politici. La filosofia ha, invece, un duplice compito: da un lato deve esigere che ogni retorica sia argomentata con prove – tema che Marramao riprende da Carlo Ginzburg – d’altro canto la filosofia si deve sforzare di pensare un modello di cittadinanza in cui l’istanza universalista non si limiti a rispondere, ma si fondi sul concetto stesso di differenza del soggetto. Non è difficile vedere i fortissimi punti di contatto che la proposta di Marramao ha con la lettura di Kant offerta in numerosi saggi e opere da Derrida.
Alla domanda sul permanere dell’identità soggettiva dell’autocoscienza tenta di rispondere Remo Bodei, nel saggio Gli avatars del soggetto. Il saggio riprende il punto di partenza dell’argomentazione di Marramao, ossia il carattere multiplo del soggetto teorizzato da Elster. Bodei parte dalla critica ai due tentativi filosofici fondamentali tesi a risolvere il problema della possibilità per un soggetto di pensare se stesso, al di là delle discontinuità che lo caratterizzano: quello della filosofia della riflessione, da un lato; quello del cogito préreflexif dall’altro. Egli accusa entrambe queste impostazioni di circolarità e propone un’uscita da essa attraverso la combinazione di tre modelli analogici: l’idea freudiana della condensazione, secondo la quale l’identità personale si costituirebbe di una sovrapposizione di diversi io; quella secondo cui nella vita psichica si combinerebbero, in una collaborazione conflittuale, il lavoro continuo della coscienza e la delimitazione del pensiero da parte della coscienza vigile; infine l’interpretazione dell’identità come qualcosa di fondamentalmente eterotopico ed eterocronico. Secondo quest’ultima, come accade quando ci si guarda in uno specchio, il soggetto avrebbe bisogno di riflettersi in uno spazio ed in un tempo altri per potersi a sua volta pensare come spazialmente e temporalmente collocato e determinato. La possibilità del soggetto si gioca, quindi, per Bodei in questa «utopia» della rappresentazione.
In conclusione, ci sembra di scorgere una possibile linea di lettura unitaria dei contributi offerti in questo volume, nella necessità di andare oltre alcune impostazioni all’interno della riflessione filosofica sul soggetto. In più di un saggio appare abbastanza evidente il fatto che laddove si tenti di ripensare la relazione soggetto-oggetto non si possa fare a meno di confrontarsi con la questione dell’intersoggettività. Viene da chiedersi, allora, se nel momento in cui si cerca una fondazione del soggetto alternativa a quella metafisica tradizionale – logico/cognitiva – non sia opportuno ripensare la soggettività in senso, appunto, costitutivamente intersoggettivo. Ciò permette di cogliere, inoltre, il senso delle implicazioni etico-politiche proposte da alcuni dei saggi presentati, nonché la plausibilità di un incontro tra la filosofia e altri ambiti disciplinari.
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