Almeno sino a tempi recenti, la storiografia ha di regola avuto a suo fondamento un interesse etico-politico. L’uso pubblico o politico della storia è, di fatto, connaturato e inseparabile dal fare storia. L’oggetto del volume collettaneo che recensiamo non è tuttavia propriamente questo rapporto generalissimo e antico. E già il fatto che si dia un modo di fare uso pubblico della storia che possa aver dato occasione a libri come questo è indice di una nuova differenziazione qualitativa, entro il concetto di ‘uso pubblico della storia’, che solleva un problema di grande rilevanza per la cultura contemporanea.
Il volume è il risultato di un seminario di studi tenutosi presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma nel 2007, intitolato «Apologia della storia o storia apologetica? Il mestiere dello storico, il metodo dell’archivista e il sensazionalismo dei media», la cui occasione prossima era stata la pubblicazione del volume di Ariel Toaff, Pasque di Sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali (Il Mulino, Bologna 2007, 20082). Esso consta di due saggi metodologici, uno introduttivo e uno conclusivo, rispettivamente di Marina Caffiero (Libertà di ricerca, responsabilità dello storico e funzione dei media, pp. 3-26), curatrice del libro insieme a Micaela Procaccia, e Daniele Menozzi (Verità storica e rappresentazioni mediatiche, pp. 209-223); di un saggio anch’esso metodologico ma dedicato al ruolo della scienza archivistica nella storiografia (Maria Grazia Pastura, Le fonti, come e perché, pp. 27-40) e di altri nove saggi: tre di essi direttamente o indirettamente rivolti a discutere questioni sollevate dal volume di Toaff; i restanti a casi in cui vi sia stata, ovviamente a parere degli autori, una qualche sorta di falsificazione di documenti, dati storici, vicende, concetti. Si potrebbe dire che questi saggi forniscano, per la gran parte, esempi critici di metodologia storiografica; critici, cioè, in riferimento a quella differenziazione qualitativa entro il concetto generale di uso pubblico della storia a cui si è sopra accennato.
Corrado Vivanti, ripercorrendo un caso di reintepretazionedi un testo noto alla luce di nuove acquisizioni documentali, utilizza i Ghiribizzi di Machiavelli (L’autografo e l’interpretazione di un testo. Considerazioni sui Ghiribizzi di Machiavelli, pp. 43-62). Seguono i tre saggi che si occupano del libro di Toaff: rispettivamente di Diego Quaglioni (Vero e falso nella carte processuali: la parola «data» e la parola «presa», pp. 63-82), David Bidussa (Macchina mitologica e indagine storica. A proposito di Pasque di sangue e del «mestiere di storico», pp. 139-172) e, molto indirettamente e in linea generale, Andrea del Col (La divulgazione della storia inquisitoriale tra approssimazione e serietà professionale, pp. 83-102). Di una vicenda analoga a quella di Pasque di sangue, che ha avuto però assai minore risonanza giornalistica, si occupa Alessandro Portelli (Uso mitico della storia: varianti delle Fosse Ardeatine, pp. 173-178). Ad altri generi di ‘falso’ storico, l’uno proprio e intenzionale, l’altro concettuale, si occupano rispettivamente Cesare G. De Michelis (Il manoscritto inesistente: la storia e gli archivi, pp. 103-116; il manoscritto inesistente è quello dei famigerati «protocolli dei savi di Sion»), ed Emilio Gentile (Uso e distorsione di un concetto storico: il fascismo come totalitarismo, pp. 197-206). Due casi giudiziari sono invece al centro di altrettanti interventi. Micaela Procaccia (Pantera o stella: verità giudiziarie e verità storiche nel processo a Celeste di Porto, pp. 117-136), parte dal processo in questione - e dalla approssimazione con cui è stato trattato nella informazione giornalistica - per elaborare considerazioni più ampie riguardo a una serie di casi, appunto sensibili, riguardanti tra l’altro il ruolo di ebrei collaborazionisti nel secondo conflitto mondiale. Carlo Spartaco Capogreco fa luce sul caso di un comandante partigiano comunista, medaglia d’argento al valore, ucciso da partigiani anch’essi comunisti in una sorta di replica su scala minuta delle pratiche staliniane (Il caso Facio e il rovescio della medaglia, pp. 179-195).
Il problema che i due saggi metodologici vogliono mettere in luce, e che viene toccato in modo esplicito soprattutto negli interventi di Quaglioni, Del Col, Bidussa e Portelli, è quello di una specifica e nuova torsione che l’uso pubblico della storia ha subito negli ultimi anni. Una torsione che va al di là delle tendenze cosiddette ‘revisionistiche’, ormai consolidate, degli ultimi decenni; oltre che, come si diceva al principio, al di là del generale interesse etico-politico che è per lo più la base concreta del fare storia. Questa nuova torsione è stata in effetti prodotta da un fattore nuovo, che molto in breve potrebbe essere definito come l’ingresso in forma organica dell’interesse economico nella comunicazione dei media concernente temi storici. La storia, in altri termini, è uno dei prodotti culturali che si vende meglio, o comunque che si presta meglio allo scopo, in particolare quando sia mescolata alla finzione, oppure quando se ne potenzi artificiosamente, in forma polemica o sensazionalistica, qualcheelemento legato a temi sensibili dell’attualità politico-culturale. Gli effetti di questa nuova forma dell’uso pubblico della storia, dove cioè l’elemento economico può avere la meglio persino su quello genericamente ideologico, seppure tali effetti ricadano comunque anche su quest’ultimo, sono quindi particolarmente visibili nella formazione della cultura nel senso più ampio. Come scrive Marina Caffiero, «la sovrapposizione sempre più frequente tra storia, romanzo e finzione scardina nelle nuove generazioni il senso della storia come scienza e rende il confine tra il vero e il verisimile, e perfino il falso, invisibile o insignificante» [M. Caffiero, Libertà di ricerca, responsabilità dello storico e funzione dei media, in Vero e falso. L’uso politico della storia, a c. di Marina Caffiero e Micaela Procaccia, Donzelli, Roma 2008, p. 6]. A ciò corrisponde poi una serie di modi di fare storia nei quali, più sottilmente e anche in sede scientifica, l’intento di ottenere certi effettidal suo uso mediatico - che non è più, dunque, precisamente e semplicemente il suo uso pubblico - diventa prevalente rispetto a quelle procedure metodologiche che sono state il risultato, non gratuito, dell’affinarsi della scienza storica in una fase relativamente recente - più o meno l’ultimo secolo e mezzo. Gli esempi volti a dimostrare la persistente problematicità della distinzione tra antigiudaismo e antisemitismo, che si leggono nel saggio di Caffiero, o il caso della censura, da parte di Renzo de Felice, dell’autografo mussoliniano dello scritto anonimo che inaugurò la rivista «La difesa della razza», a cui fa riferimento Vivanti [Vero e falso,cit., pp. 46-47], possono essere indicati come appartenenti a questo ultimo genere, benché in essi non si manifesti in forma diretta la torsione a cui si è fatto riferimento sopra.
Non sarà necessario tornare qui sui rilievi critici già mossi in altre sedi a Pasque di sangue [cfr. G. Miccoli, «Pasque di sangue». La discussa ricerca di Ariel Toaff, «Studi storici», 48/2 (2007), pp. 323-339]. Basterà ricordare che i motivi centrali della polemica, innescata da una entusiastica recensione di Sergio Luzzatto sul «Corriere della sera» del 6 febbraio 2007 e dalla successiva protesta ufficiale di un gruppo di rappresentanti delle comunità ebraiche italiane, si sono aggirati soprattutto attorno all’uso, nello studio di Toaff, dei verbali del processo che il vescovo di Trento Johannes Hinderbach istruì nel 1475 contro undici ebrei ahskenaziti, con l’accusa di aver ucciso un bambino cristiano. Come è noto, i giudici trentini fecero ampio uso della tortura e i verbali furono ovviamente redatti sotto i suoi effetti. Osservando la trama logica dello studio di Toaff, che è orientato in primo luogo ad affermare come altamente probabile un evento - gli omicidi rituali compiuti da piccoli gruppi di ashkenaziti - ci si trova di fronte a due indizi principali che si stagliano su un contesto favorevole all’accadere di tale evento. Il contesto è quello di comunità ebraiche di origine germanica che, avendo subito persecuzioni e conversioni forzate, sono descritte come isolate, vendicative e inclini a credenze superstiziose nel potere taumaturgico del sangue. Il primo indizio è che in queste confessioni emergerebbe, proferito in ebraico pronunciato alla tirolese e verbalizzato in modo puramente fonetico, un riferimento a riti pasquali contenenti maledizioni di varia natura verso Cristo e i cristiani, riferimento che andrebbe oltre, semanticamente, le richieste dei magistrati, rendendo verosimili gli omicidi oggetto delle confessioni. Il secondo indizio è la testimonianza di un ebreo convertito che funzionerebbe da conferma esterna, nel senso che non è prestata, come tutte le altre, sotto tortura. Diego Quaglioni punta la sua attenzione su questo secondo indizio. Quaglioni ricorda che la testimonianza di Giovanni Sacheto da Feltre, difesa preventivamente dalla «delegittimazione» in Pasque di sangue appunto per la sua funzione decisiva, è fortemente messa in dubbio da un documento, ignorato nel libro, che fa parte delle carte processuali: un anonimo consigliere giuridico del vescovo di Trento sottolinea che essa minuitur fides in quanto Giovanni è in carcere per altri reati, e che depone de audito auditus, ossia neppure de relato. Per questo motivo e per il carattere delle confessioni, conclude il consigliere, l’intero procedimento è dubbio e nulla è stato effettivamente provato. Il documento, ricorda Quaglioni, avrebbe dovuto costringere lo storico scrupoloso a ricercare quali ragioni avessero spinto Hinderbach, contro il parere di un proprio consigliere, a procedere comunque contro gli imputati. Tutto ciò nel contesto di un rilievo più generale, sulla necessaria consapevolezza che lo storico deve avere riguardo allo scarto semantico tra la parola ‘data’ sotto tortura o comunque persino sotto interrogatorio, e la parola ‘presa’ dall’accusatore (Quaglioni compie anche alcune osservazioni riguardo alla tesi di Franco Cardini, secondo la quale il processo di Trento, non essendo stato diretto dall’Inquisizione, non sarebbe stato un processo per così dire viziato da intenti pregiudiziali dell’accusa: Vero e falso, cit., pp. 68-69).
Se la lettura del testo di Quaglioni evidenzia la problematicità di una lettura indiziaria ma incompleta di una vicenda come quella indagata da Toaff, le considerazioni di David Bidussa si orientano verso un aspetto metodologicamente ancora più complesso. Bidussa afferma la necessità di una conoscenza approfondita dei problemi connessi alla «macchina mitologica» per un corretto approccio a temi come quello di Pasque di sangue, nei quali miti, superstizioni, credenze, ricoprono un ruolo così rilevante. Il richiamo è a Karl Kerényi e Furio Jesi, contro la confusione tra mito e rito, già rilevata da Carlo Ginzburg in una delle recensioni più severe al libro di Toaff («Corriere della Sera», 23 febbraio 2007. Ginzburg scrive di «superficiale irresponsabilità» nel trattare un tema così grave, e, ancora oltre, accusa Toaff di «sordità morale» e «intellettuale»).
Le considerazioni di Bidussa sembrano cogliere in profondità, infatti, più che le singole argomentazioni, la cui incertezza non sempre è necessariamente connessa a tale confusione, l’intento complessivo del libro; intentoche, con tutta evidenza, ha coinvolto sia l’autore che la presentazione editoriale, in un certo senso andando oltre le vistose improprietà metodologiche dello studio (Ad esempio, sia nella prima che nella seconda edizione di Pasque di sangue, pur profondamente rimaneggiata, si osserva una assoluta indistinzione narrativa tra esposizione fondata su documenti in senso stretto e ricostruzione dei fatti ‘raccontati’ nei verbali del processo: questi ultimi vengono riassunti ed esposti al medesimo livello di realtà con il quale ci si riferisce ai precedenti. Si vedano ad esempio le pp. 72 sgg. della seconda edizione). Si potrebbe dire che la sovrapposizione di mito e rito sia stata in certo modo potenziata nei suoi effetti dalla polemica giornalistica e televisiva, tanto che nel corso di questa polemica, da parte di certa pubblicistica di destra, si è giunti a creare un ulteriore e forse anche più grave equivoco affermando che in generale il contenuto delle confessioni estorte sotto tortura ‘fa storia’, cosa che in riferimento alle argomentazioni di Pasque di sangue neppure l’autore pretende, almeno in questo medesimo senso, visto che il libro va in cerca di fatti realmente avvenuti - senza peraltro poi astenersi dal citare a suo vantaggio queste medesime opinioni nella Postfazione alla seconda edizione.
Il breve ma significativo intervento di Alessandro Portelli riguarda invece un caso che ha avuto assai meno audience rispetto a quello di cui si è parlato sinora. Portelli si riferisce a una breve nota di Ernesto Galli della Loggia su una pubblicazione dal titolo Fosse ardeatine e Marzabotto. Storia e memoria di due stragi tedesche (J. Staron. Fosse ardeatine e Marzabotto. Storia e memoria di due stragi tedesche, Il Mulino, Bologna 2007. La nota è pubblicata nella stessa pagina del «Corriere» in cui compariva la recensione a Pasque di sangue). Galli della Loggia riportava infatti una delle tesi di questo volume, secondo la quale «lo scopo dell’attentato in via Rasella era in realtà quello di provocare una rappresaglia» («Corriere della Sera», 6 febbraio 2007), utilizzandola per una classica provocazione giornalistica contro gli storici che egli ritiene pratichino il «paradigma inquisitorio». Portelli osserva che Fosse ardeatine e Marzabotto si basa, per giungere a quella conclusione, su fonti secondarie italiane che avrebbero avuto bisogno di un vaglio critico più attento: un volume dal titolo Attentati e rappresaglia. Il PCI e via Rasella (Alberto Benzoni, Attentati e rappresaglia. Il PCI e via Rasella, Marsilio, Venezia 1999) e un libello pubblicato un giornalista de «Il Giornale» che si occupa di cronaca romana (P. Maurizio, Via Rasella, cinquant’anni di menzogne, Maurizio Edizioni, Roma 1996). Appare in effetti piuttosto evidente che entrambi i testi, per come sono costruiti, non possano essere utilizzati propriamente come fonti, e in alcun caso nelle loro conclusioni. Il secondo, in particolare, sostiene opinioni vicine a quelle dell’esponente di Forza Nuova assolto dal magistrato.
Qui vale la pena, in effetti, di spendere qualche parola sul modo in cui l’autore di Fosse ardeatine e Marzabotto giunge alla conclusione (che, nell’economia del volume, è piuttosto una premessa) citata da Galli della Loggia. L’argomentazione che la precede infatti occupa circa una pagina del libro, e quasi al suo principio (J. Staron. Fosse ardeatine e Marzabotto, cit., pp. 43-44). Non entreremo nel dettaglio di queste righe, piuttosto confuse, ma va fatto almeno presente che se si procede per ipotesi analogiche, come qui accade, si deve almeno rispettare la loro logica propria: se si afferma, quindi, che i capi del CLN avessero mirato a una rappresaglia come effetto dell’attentato, al fine di far sollevare la popolazione romana contro gli occupanti, si dovrà anche ammettere che costoro avrebbero dovuto essere ragionevolmente certi che i tedeschi non sarebbero stati in grado di tenerla nascosta. Come è noto, della strage non si seppe nulla sino alla fuga dei tedeschi da Roma: attribuire al CLN l’intento di ottenere una strage destinata a restare segreta sembra illogico anche nel caso in cui si sostengano forme di revisionismo estremistico - alle quali peraltro l’autore di Fosse ardeatine non vorrebbe, almeno nelle sue intenzioni, aderire. In effetti, la presentazione sulla grande stampa italiana di un’argomentazione così fragile, su un punto sensibile della storia contemporanea italiana, segnala soprattutto una scarsa consapevolezza del contesto di origine di simili posizioni, contesto di cui abbiamo avuto un esempio recente negli argomenti della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» contro le tesi sostenute dal presidente della Repubblica nella commemorazione della battaglia di El Alamein, ma anche più in generale contro l’idea di un trattamento giuridico del passato storico - quasi una sottile vendetta trasversale e postuma contro la mai davvero metabolizzata Norimberga (H.-J. Fischer, Es wird weiter geschossen, «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 2 novembre 2008). Si tratta della tendenza, sostenuta da settori consistenti della intellettualità conservatrice tedesca, e non da oggi, alla neutralizzazione, e quindi alla riconduzione sul piano della storia militare ordinaria, del ruolo della Wehrmacht (non di corpi speciali esplicitamente ispirati a principi criminali) nei rapporti con le popolazioni civili europee.
Emilio Gentile illustra invece un punto di particolare interesse per la filosofia politica, il caso del concetto di «totalitarismo». Come è noto, l’uso che si fa oggi, correntemente, di questo concetto, è stato fortemente influenzato dal noto libro di Hanna Arendt, The Origins of Totalitarianism. Arendt, però, sulla base di dati che Gentile giudica «esigui, approssimativi, di seconda o terza mano, cioè tratti da citazioni di citazioni, anche su questioni di grave importanza» (Vero e falso, cit., p. 202), giudica il fascismo non totalitario, perché non avrebbe tra i suoi caratteri terrore e sterminio di massa. Ovvero, il fascismo diverrebbe totalitario solo nel 1938, così come anche il nazismo lo sarebbe solo nella fase della guerra, mentre del comunismo sarebbe totalitaria solo la fase staliniana, non dunque l’inizio bolscevico-leniniano. Gentile ricorda che ‘totalitarismo’ è una parola che gli antifascisti inventarono per qualificare appunto il fascismo, una correzione filologica che ci pare persino minimale rispetto all’uso non solo specificamente arendtiano del concetto, ma anche al suo uso generalizzato e puramente ideologico che non per nulla grandi studiosi liberali del pensiero politico come Raymond Aron rifiutarono. Naturalmente in questa sede non possiamo svolgere una analisi che richiederebbe ampio spazio. Ci limitiamo però ad accennare che proprio i testi e i riferimenti agli intellettuali antifascisti liberali - Giovanni Amendola in primo luogo, che Gentile indica come il probabile inventore, se così si può dire, del termine - permettono di circoscrivere e, insieme, di comprendere meglio quale uso proprio e quindi proficuo si possa fare del termine: un uso, cioè, riferito all’ideologia più che alla descrizione empirica.
Nell’ultimo saggio del libro, Daniele Menozzi compie in primo luogo una ricostruzione della peculiarità epistemologica della storia contemporanea, così come si è venuta conformando negli ultimi trent’anni circa. Si potrebbe dire che già la natura stessa delle fonti proprie della contemporaneistica segnali un problema di non poco conto. Per usare ancora come esempio il libro sopra citato su Fosse ardeatine e Marzabotto, il presupposto metodologico che ne sosterrebbe l’impalcatura, già in sè problematico, secondo cui l’analisi del contenuto degli articoli di stampa sarebbe un «metodo per la rilevazione della realtà sociale grazie al quale dai caratteri di un testo manifesto si possono desumere i caratteri di un contesto non manifesto» (Il riferimento di Staron è a Klaus Martens, Inhaltanalyse. Einführung in Theorie, Methode un Praxis, Opladen 1995, p. 59, cit. in Staron, op. cit., p. 21), si rivela nella ricostruzione effettiva del tutto astratto e si configura infine come una spesso vacillante induzione sulla cui base una vasta rassegna stampa sull’argomento vale, senza alcuna ulteriore operazione esegetica, come storia senz’altro della memoria dell’evento. Ma il problema della metodologia delle fonti contemporanee, nel discorso di Menozzi, non è che la premessa di un cambiamento decisivo avvenuto nel corso degli anni Ottanta, quello a cui si è fatto riferimento al principio di questa recensione. Da quando la «pubblicità diventa il canale fondamentale per il conseguimento di ricavi» (Vero e falso, cit., p. 220) si assiste a una progressiva «enfatizzazione e spettacolarizzazione» di ciò che viene comunicato, con effetti che si sono riversati sulla stessa pratica storiografica. Il punto centrale è che questo processo non è stato subito passivamente dalle redazioni di televisioni e giornali: al contrario, secondo Menozzi è stato teorizzato. Menozzi cita per esteso una dichiarazione di Paolo Mieli, raccolta da Alberto Papuzzi nel suo Manuale del giornalista, in cui si legge che «la generica esposizione» di questioni culturali va abbandonata a favore di un «conflitto» nel quale si creano polarità opposte. Polarità, si intende bene, che non necessariamente corrispondono a reali posizioni teoriche o interpretative ma, appunto, a localizzazioni artificiose di opinioni attorno alle quali si concentri facilmente l’attenzione del lettore. In questo modo argomenti storiografici sensibili vengono strutturati attorno a contrapposizioni che non si confrontano più in base alla loro fondatezza o alla loro documentabilità. E qui interviene il secondo e altrettanto importante presupposto di questa operazione, per dimostrare il quale Menozzi cita Sergio Romano. La tesi di Romano è che la fine delle contrapposizioni ideologiche faccia tornare la storia «a quello che è sempre stata: incoerente, ambigua, contraddittoria, camaleontica, capace di mutare significato a seconda dell’occhio che ne scruta le pieghe» (Vero e falso, cit., p. 221). Seppure corretta in seguito, come ricorda Menozzi, dalla sua estrema pointe soggettivistica, la tesi non fa che esprimere in forma chiara la tesi di quel relativismo radicale per il quale non c’è alcuna verità storica e quindi non si deve neppure cercarla. Tesi che è il contesto necessario di quei processi di reideologizzazione, grotteschi ma sorprendentemente efficaci, che finiscono per avere molto in comune con la science fiction applicata al passato di cui abbiamo parlato più sopra.
Ora, come è ovvio, la giusta risposta a questa tendenza non è certo quella di un «Aventino» della storiografia che si ritenga scientificamente ineccepibile, di contro a quella superficiale, distorta o sensazionalistica - come osserva Del Col nella seconda parte del suo saggio. Non vi deve essere certamente, da parte degli intellettuali, timore di impegnarsi nei luoghi di dibattito, nella televisione, nella scrittura di libri divulgativi ecc. Del resto è anche difficile evitare di osservare come il mercato e la moderna agorà non sembrino affatto avere, oggi, la configurazione dell’accoglimento paritario delle molte voci che vorrebbero intervenirvi. In esse vi sono corpi e interessi consolidati, che cercano permanentemente uno spostamento degli equilibri culturali, già del resto ampiamente attestato, verso prospettive che producano un grado di mitizzazione della storia sufficiente a renderla un prodotto meglio vendibile e, insieme, ideologicamente e culturalmente sfruttabile. Il problema sollevato da Vero e falso è quindi un problema di portata vastissima, crediamo sottovalutato o forse troppo facilmente ricondotto a processi già visti: il problema dell’uso politico della storia nell’era in cui il sapere serve, come altro entertainment, per vendere pubblico agli inserzionisti. Il fenomeno è complesso e il libro di cui stiamo parlando non vuole, né avrebbe potuto, elaborarne una analisi anche solo tendenzialmente completa. Ma che si inizi a parlarne sotto questa specifica forma, oltre a essere una testimonianza che il problema abbia raggiunto, su molti versanti, una fase particolarmente acuta, potrebbe anche rappresentare un incoraggiamento per ulteriori interventi nella medesima direzione.
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