Sotto il segno della domanda sul possibile rapporto tra la filosofia kantiana e la filosofia della scienza contemporanea, ha avuto luogo a UCL nel luglio 2007, la conferenza dal titolo Kant and Philosophy of Science Today. Il libro contiene i contributi che a questa domanda e alla sua possibile risposta hanno dato Michela Massimi, Margaret Morrison, Thomas Ryckman, Roberto Torretti, Michael Friedman, Hasok Chang, Daniel Sutherland e Carl Posy.
Nell’esporre il contenuto di essi, è facile vedere come oggi la filosofia kantiana possa prestarsi o meno a dare un contributo alla riflessione della filosofia della scienza e dell’epistemologia. Sul piano della filosofia della fisica sembra esserci uno spazio limitato o quasi nullo per gli studi kantiani. Eppure, come suggeriscono nelle loro conclusioni Friedman e Morrison, essi potrebbero giocare un ruolo fruttuoso, sebbene non esplicitino esattamente in che termini. Più che nelle pagine della Critica della ragione pura e dei Primi principi metafisici della scienza della natura, i manoscritti dell’Opus postumum lasciano ancora spazio alla domanda se e in che modo la filosofia di Kant possa contribuire alla fisica contemporanea. Questo spunto è un utile termine di confronto, considerando la concezione dell’ultimo Kant di fenomeno indiretto e la necessità di “superare” il concetto metafisico di forza per giungere a quello di Energie alla base dell’attività sia delle forze che della materia cosmica (cfr. I. Kant, Opus postumum, KgS XXI, pp. 352; 436;466; 584 e XXII, p. 186).
Ancor più rilevante, però, è il contributo di temi kantiani all’epistemologia contemporanea, in particolare, come evidenziano Torretti e Massimi, per la definizione di oggettività e per una possibile uscita dal contrasto fra realismo scientifico e realismo costruttivista.
Altri studi come quelli di Sutherland e Posy tendono a rivisitare sia in chiave storica che teoretica concetti kantiani come quelli di grandezza, infinito o unità nel quadro della filosofia della matematica. A questo proposito si pensi anche al lavoro di ricerca che sta svolgendo Emily Carson per mostrare una vicinanza tra il concetto di infinito kantiano e quello di Dedekind. Questa raccolta, se associata al precedente lavoro di Paolo Parrini (Kant and Contemporary Epistemology), costituisce un importante contributo e una ricca fonte di confronto sia per chi si occupa di temi squisitamente kantiani che di filosofia della scienza ed epistemologia. Più in generale, pur mancando un confronto tra filosofia kantiana e scienze del vivente o l’elaborazione di un confronto tra l’Opus postumum e la riflessione contemporanea, il lavoro apre prospettive di ricerca future. Prima di passare in rassegna le argomentazioni e il contenuto degli articoli, si segnala un dato che emerge dalla lettura. Quasi tutti i contributi affrontano direttamente o indirettamente l’idealismo trascendentale secondo approcci anche molto differenti. Questo è l’indice dell’importanza capitale di esso per la rivoluzione del modo di pensare del criticismo. Forse, ad un esame più attento della filosofia kantiana, proprio nella trattazione dello spazio e del tempo può essere identificato il Leitfaden da seguire per tracciare la lontananza o la vicinanza tra filosofia trascendentale e filosofia della scienza oggi.
In Why There are No Ready-Made Phenomena: What Philosophers of Science Should Learn from Kant, Massimi introduce il problema epistemico tra realismo scientifico ed empirismo costruttivista, indicando nella prospettiva kantiana una via alternativa per uscire da tale conflitto. La nozione di fenomeno costituisce il fulcro da cui può svilupparsi un’analisi del problema, riconsiderando la sua concezione filosofica, a partire dal punto di vista kantiano. Questo approccio sarebbe in grado di dare conto della complessità che si incontra nella pratica scientifica e può gettare le basi per il superamento della diatriba tra realismo scientifico ed empirismo costruttivista. Per chiarire l’origine dell’approccio kantiano alla concezione del fenomeno e dell’esperienza come qualcosa che deve essere fatto e sottoposto ad un processo di sintesi, Massimi attua un confronto con il processo galileiano di matematizzazione della natura che Kant aveva ben presente: “Namely for the sake of experiencing uniformly accelerated motion, we must constitute the kinematical properties of free-falling bodies according to the aformentioned supposition (non matter how counterintuitive the postulate necessary to back it up). But Galileo not only constituted the kinematical properties of free-falling bodies according to this supposition, he tried also to subsume these kinematical properties under the causal concept of a moving force that he called momentum gravitates or ‘impeto’” (p. 26). La svolta segnata dal metodo galileiano consiste nell’aver proposto una fisica che non dovesse introdurre ipotesi per “salvare i fenomeni”, piuttosto una fisica come scienza la cui fondazione dipendesse dalla costituzione fisico-matematica dei fenomeni. Nell’aver riconosciuto questo carattere del metodo galileiano Kant suggerì una nuova e radicale concezione di fenomeno secondo cui esso è costituito come oggetto spazio-temporale dal semplice apparato matematico-geometrico e dalla sussunzione ad un concetto causale, riconducendo certe proprietà spazio-temporali a una forza motrice, come nel caso della caduta dei gravi. In questo modo apparenze cinematiche possono venir trasformate in fenomeni fisici che diventano oggetti dell’indagine scientifica (p. 27). Nella svolta copernicana di Kant e nella sua concezione del fenomeno riposa la possibilità di pensare la fisica come scienza che rende le apparenze conformi al nostro modo di rappresentazione e il fenomeno non come un oggetto già precostituito, ma come processo in vista dell’unità dell’esperienza che deve già da sempre essere fatta.
Morrison in Reduction, Unity and the Nature of Science: Kant’s Legacy? propone il confronto tra la nozione della fisica moderna di unità di teorie e modelli e la concezione kantiana dell’unità sistematica a partire dall’architettonica. L’accordo dell’unità della ragione con la natura costituisce un presupposto e un bisogno della ragione che rivela l’importanza della riduzione ontologica nelle scienze come un fondamento metodologico della filosofia kantiana. Morrison rintraccia nel bisogno di costituire una filosofia della natura, basata sulla riduzione di certe forze ad altre fondamentali, l’eco kantiano dell’approccio contemporaneo al programma di riduzione e unificazione della fisica corpuscolare contemporanea. Si tratta per Morrison di far quadrare un riduzionismo ontologico ravvisabile nei Primi principi metafisici della scienza della natura e un approccio epistemologico antiriduzionista che si rileva nella Critica della ragione pura, specialmente nell’ambito della Confutazione dell’Idealismo (p. 42). In sostanza Morrison si pone la domanda su quale relazione intercorra tra fisica e metafisica, tra il trascendentale e l’empirico (pp. 40-41), tra intelletto e ragione, ponendo l’accento sulla molteplicità dei tipi di unità di cui Kant parla (p. 43). Di fatto l’ipotesi empirica di unità e la ricerca di unità tra gli enti scientifici non deve essere identificata con l’ideale della ragione che è un principio trascendentale su cui le prime devono basarsi. Il tentativo kantiano di risolvere la tensione tra l’uso logico-soggettivo delle massime e l’oggettività garantita dalla loro relazione a principi trascendentali rivela: 1- la necessità di un’unità presupposta tra ragione e natura, sebbene non su un piano ontologico; 2- una metodologia che Morrison mette a confronto con l’impiego di principi di simmetria nella fisica moderna, specialmente con l’approccio di Wigner. Morrison evidenzia, però, l’impossibilità di una corrispondenza tra l’impiego di simmetrie in fisica e l’impiego dei principi trascendentali, in quanto quest’ultimo si inquadra nella cornice dell’idealismo trascendentale. Le simmetrie, infatti, non solo si riflettono nelle leggi fisiche, ma devono essere anche proprietà dello spazio-tempo stesso, devono cioè essere identificate con la struttura geometrica del mondo fisico che va interpretata ontologicamente.
L’altro aspetto su cui Morrison si interroga consiste nella possibilità di pensare ad una forma di riduzionismo a partire dai Primi principi metafisici della scienza della natura del 1786 in cui Kant sostenne, come anche più tardi nell’Opus postumum, che la scienza della natura dovesse tentare una ricognizione e una riduzione di tutte le forze della materia a quelle fondamentali, che per Kant erano quelle di attrazione e repulsione. Dunque Morrison coglie una tensione nel sistema kantiano: da un lato scorge un anti-riduzionismo nella Critica della ragione pura, dall’altro mostra un atteggiamento fortemente riduzionista a livello ontologico nell’opera del 1786. Tuttavia questa tensione viene risolta, secondo Morrison, mostrando come l’idea kantiana di forza fondamentale possieda lo stesso status dei principi trascendentali e dunque funzioni come regola metodologica per un avvicinamento asintotico, mai esauribile, tra un piano metafisico e uno empirico. Su questo la riduzione delle forze nella fisica moderna non può essere associato all’approccio kantiano, in quanto tale progetto nella fisica deve essere completato, mentre per Kant non può esserlo. Da questo Morrison conclude che né sul piano di un approccio metodologico, né ontologico, può esserci una integrazione tra la filosofia kantiana e la pratica scientifica corrente, sebbene Morrison non esclude eventuali benefici che una ricostruzione della filosofia di Kant può portare alla fisica contemporanea.
Thomas Ryckman in Invariance Principles as Regulative Ideals: From Wigner to Hilbert, si confronta con l’applicazione alla fisica del metodo assiomatico, a partire dall’osservazione di una ‘family resemblance’ tra il modo di concepire di Hilbert l’invarianza generale e la discussione di Wigner del metodo assiomatico. Ryckman si riferisce al sistema kantiano solo traendo una premessa per tale confronto dalla distinzione presente nella Dialettica trascendentale tra intuizioni, concetti e idee. Questo per chiarire le conclusioni di Hilbert sul fatto che è la nostra struttura dell’esperienza cognitiva che conduce ad un certo uso di sistemi coordinati. Dal punto di vista di Hilbert, dunque, il principio fisico di causalità è inevitabilmente dipendente dal modo di conoscere umano, una condizione necessaria imposta dalla mente nello strutturare l’esperienza. Tuttavia Ryckman ricorda come Hilbert intendesse modificare l’approccio trascendentale kantiano per adattarlo alla fisica einsteiniana: per una conoscenza l’essere oggettivamente valida non dipende più da una struttura spaziotemporale recettiva, grazie all’uso dell’invarianza generale trovata nella teoria fisica.
Il metodo assiomatico è associato da Hilbert a un metodo di investigazione a livello logico ed epistemologico per la fondazione di una teoria: “In more general terms, and as Kant’s directive prescribes, the axiomatic method is conceived as a logical analysis that begins with certain ‘facts’ presented to our finite intuition or experience. Both pure mathematics and natural science alike begin with ‘facts’, i.e., singular judgments about ‘something…already…given to us in representation (in der Vorstellung): certain extra-logical discrete objects, that are intuitively present as an immediate experience prior to all thinking” (p. 66). L’analisi poi determina i concetti sotto di cui questi fatti dati possono essere classificati e si cercano di costruire le relazioni più generali tra questi concetti, ovvero un “framework” di concetti (Fachwerk von Begriffen) basati sul più piccolo numero possibile di assiomi. Questi ultimi tendono a essere indipendenti da particolari intuizioni con cui inizia l’analisi. La tesi di Ryckman consiste nel sostenere che gli assiomi matematici su cui si basa il framework di concetti non sono solamente generali, ma anche ideali nel senso kantiano, ovvero Hilbert li ha intesi come idee regolative che svolgono al meglio nell’ambito della conoscenza un ruolo ipotetico ed euristico. Ryckman compie un’analisi dell’applicazione del metodo assiomatico alla fisica relativistica (tentativo compiuto da Hilbert nel 1915-17), con particolare attenzione alla gravitazione e all’elettromagnetismo dove il principio generale di covarianza (o invarianza generale per Hilbert) è adottato come un assioma. Prende in esame l’assioma I (Mie’s axiom of the world function), l’assioma II (assioma dell’invarianza generale), teorema I (Leitmotiv) e l’assioma III (l’assioma dello spazio e del tempo). Uno dei risultati a cui giunge Hilbert col suo metodo è che qualunque teoria generale covariante dello spazio-tempo conduce a una domanda profonda sulla causalità, sia in senso matematico che fisico (p. 74). Dunque spazio, tempo e causalità (che per Hilbert presuppone entrambi) sono momenti necessari della conoscenza umana, ma non possono essere un criterio necessario di un possibile oggetto della fisica: “while the goal of physical science remains that of a completely objective description of nature, a systematically unified, observer-free cognition of nature require a (never fully attainable) emancipation of our view of the processes of nature from all the subjective elements pertaining to human sensibility” (p. 78). Da qui segue la nuova concezione dell’a priori kantiano di Hilbert secondo cui esso deve essere un’attitudine o un’espressione di certe precondizioni essenziali del pensiero e dell’esperienza, che Kant avrebbe però sovrastimato. Di fatto Ryckman sostiene che Hilbert avrebbe compreso il significato della covarianza generale attraverso lo sfondo della Dialettica trascendentale e in fondo in un senso molto simile, conclude Ryckman a quello che aveva in mente Wigner.
Un altro contributo è quello di Roberto Torretti, Objectivity: a Kantian Perspective. Il punto di partenza di Torretti consiste nell’enfatizzare il ruolo che l’attività della sintesi svolge per l’acquisizione e la costituzione dell’oggetto, che non è mai un dono (gift). Nel mettere a confronto la definizione kantiana di oggetto in generale, la Reflexion 5643 e la lettera a Marcus Herz del 21 febbraio 1772, Torretti afferma che l’unica cosa che la deduzione trascendentale e la tavola delle categorie possono arrivare a provare è che alcuni concetti non empirici sono richiesti per leggere apparenze soggettive come fenomeni e esperienza oggettiva (Erfahrung). Tuttavia, continua Torretti, Kant in ultima analisi non prova che tali concetti debbano essere necessariamente quelli della tavola e non altri. E’ solamente a partire da un confronto tra la Critica della ragione pura, la Critica della facoltà di giudizio e gli scritti degli anni ’90 che si può evitare questa difficoltà. Occorre cioè prendere in esame quei passi in cui Kant si concentra sul concetto di Verbindung e Zusammensetzung: “If the notion of combination or composition as such is, according to Kant, the only one that pertains to the under standing alone and ‘is not given by objects’, then surely all other notions are obtained through the objects constructed – by combination – from the stream of Erlebnisse. Now, unless I am quite wrong, all other notions include the twelve categories” (p. 88). Secondo Torretti, Kant guarda alle dodici categorie come modi o specificazioni del concetto di composto in generale e suggerisce che tutti gli altri concetti non sarebbero altro che ulteriori specificazioni di questo processo di analisi della composizione. A questo però si deve aggiungere lo schematismo della facoltà di giudizio che sarebbe in grado, grazie al gioco di intelletto e sensibilità, di operare in due direzioni, secondo un procedimento sia dall’alto verso il basso che dal basso verso l’alto. In particolare il processo dal basso verso l’alto è indispensabile e deve essere ascritto alla riflessione, ovvero alla facoltà del giudizio riflettente, sebbene non riesca a dare conto del processo di formazione dei concetti in fisica matematica. Cosa di cui Kant, secondo Torretti, era conscio. Per tale ragione Kant avrebbe tenuto presente la tradizione empirista e aristotelica per la formazione di concetti (in particolare per quanto riguarda gli atti di comparazione, riflessione e astrazione), ma avrebbe colto anche il grande limite e l’insufficienza dell’approccio aristotelico per la scienza moderna. Sebbene sia possibile obiettare contro Torretti su questa ricostruzione del processo di formazione dei concetti per Kant, le sua conclusione è condivisibile, così come il suo puntualizzare che un approccio a partire dalle categorie kantiane risulta essere del tutto inadeguato alla fisica contemporanea. A questo punto, però, Torretti propone una lettura della filosofia kantiana che recupera il gioco di sensibilità ed intelletto, ovvero lo schematismo, per un confronto con l’esercizio di libera invenzione di Einstein. Per compiere questo collegamento Torretti sostiene che bisogna partire dalla concezione kantiana dello spazio e del tempo intese come forme dell’intuizione e intuizioni formali e che di fatto, così come Kant connota l’intuizione, è evidente che essa solamente non può dar conto della geometria, anche quella euclidea. Di fatto Torretti propone di astrarre dall’Estetica trascendentale e dai concetti puri dell’intelletto, per concentrarsi sull’immaginazione produttiva e il giudizio riflettente. In primo luogo riprende per certi versi la tesi di B. Longuenesse (suffragata anche dal §38 dei Prolegomena), secondo cui “Kant’s transcendental account of the pure intuition of space provides no reason to assert that space is necessarily Euclidean, so that Kant needlessly limits the scope of his transcendental Aestethic and Analytic, when he claims that the representation of space they ground is that of Euclidean geometry” (p. 92). In secondo luogo Torretti pone l’accento ancora sulla formazione dei concetti. Se si ascrive all’intelletto la nozione di combinazione o composizione, viene “liberata” l’azione della facoltà di giudizio di articolare, non solo i concetti di causa ed effetto, ma tutti i gradi delle strutture concettuali usati in fisica matematica o quelli ancora da creare attraverso la pratica scientifica. In conclusione, per Torretti, l’oggettività kantiana è raggiunta attraverso il fare dell’intelletto, ma questo è un “handless actor” che dovrebbe piuttosto essere pensato come agente attraverso il corpo per comprendere gli oggetti in quanto pragmata.
In Einstein, Kant and the A Priori, Michael Friedman ripropone la sua tesi dell’a priori relativizzato, come elaborata in Dynamics of Reason (2001), cercando di rispondere alla domanda su come si possa sviluppare una comprensione filosofica dell’evoluzione della scienza moderna che sia da una parte storica e dall’altra trascendentale. La tesi di Friedman prende spunto da Hans Reichenbach, ma di fatto acquista una sua autonomia che lo stesso Friedman descrive nei seguenti termini: “But my implementation of this idea of relativized constitutively a priori principles (of geometry and mechanics) essentially depends on an historical argument describing the developmental process by which the transition from Newton to Einstein actually took place, as mediated, in my view, by the parallel developments in scientific philosophy involving Hermann von Helmoltz, Ernst Mach, and Henri Poincaré” (p. 96). Friedman passa dunque ad analizzare la generalizzazione della concezione kantiana di intuizione spaziale operata da Helmoltz. In secondo luogo Friedman mostra come Poincaré abbia trasformato la concezione di Helmoltz fino a contrapporsi alla sua visione. Friedman giunge infine alla formulazione della relatività speciale di Einstein: questa rappresenterebbe la prima realizzazione di una concezione dinamica e relativizzata dell’a priori attraverso il principio di equivalenza. In sostanza per Friedman il modo einsteiniano di riconfigurare il rapporto tra principi geometrici e la relatività del movimento rappresenta un’estensione o una continuazione della concezione di principi a priori relativizzati e dinamici realizzati nella creazione della relatività speciale. Il tentativo kantiano di pensare il rapporto tra geometria e fisica avrebbe messo in moto una serie di successive concettualizzazioni di questo rapporto (Helmoltz, Poicaré, Mach) che hanno trovato una convergenza nella teoria di Einstein.
Hasok Chang in Contingent Transcendental Arguments for Metaphysical Principles si propone di identificare argomenti trascendentali che hanno condizioni contingenti secondo cui “se si vuole avere una certa attività epistemica, occorre presumere la verità di alcuni principi metafisici particolari” (p. 113), i quali non ci danno però una rappresentazione diretta della natura, mentre la natura ci parla solo attraverso il risultato della nostra attività epistemica (p. 133). Chang vuole perciò trarre spunto da alcuni assunti kantiani per adattarli liberamente a temi della filosofia della scienza contemporanea. In contrasto con le tesi di Friedman, Chang traccia un’affinità tra il suo approccio e quello del pragmatismo concettuale o “concezione pragmatica dell’a priori” di C. I. Lewis. Nel mettere a confronto Lewis e Friedman, Chang sceglie di sviluppare l’idea di a priori pragmatico, cioè di considerare certi principi come condizioni necessarie per compiere attività epistemiche, riprendendo le tesi di Marjorie Grene sul soggetto conoscente come agente. Chang passa in rassegna differenti principi logici connessi all’attività epistemica (come quelli di predizione e principio di induzione oppure di spiegazione e principio di ragione sufficiente). Dopo aver compiuto questa rassegna Chang traccia possibili prospettive di una via pragmatica all’ontologia e pone l’accento sull’elemento della scelta e del giudizio, senza ricorrere alle categorie o concetti puri kantiani. Secondo Chang, infatti, la parte fondamentale dell’ontologia non è astratta da ciò che noi passivamente osserviamo e rintraccia un’intuizione kantiana su questo punto, secondo cui “nature in itself is not the object of our epistemic activities; our activity-based ontology is not a direct representation of nature” (p. 133).
Daniel Sutherland in Arithmetic from Kant to Frege: Numbers, Pure Units, and the Limits of Conceptual Representation attua un confronto fra la visione kantiana e quella di Frege: Kant riterrebbe che i concetti di numeri particolari siano derivati dalla rappresentazione di unità e in unità particolari, cioè qualitativamente indistinguibili. Frege al contrario, sottolinea Sutherland, rigetta il tentativo di derivare concetti di numeri dalla rappresentazione di unità. Ricostruendo il suo background, emerge che la concezione kantiana della grandezza riposerebbe sulla teoria delle proporzioni di Eudosso (presente nei libri V e VII di Euclide). Questa tratta genericamente le grandezze che non presuppongono numeri e le grandezze continue come linee, piani, volumi, quantità discrete, come i numeri. In primo luogo, secondo Sutherland, nel trattare la grandezza come molteplice omogeneo, Kant seguirebbe la concezione greca, sebbene vada ben oltre essa nel compiere un’analisi dell’omogeneità e una teoria della conoscenza del molteplice omogeneo, il quale esibisce una differenza numerica senza una differenza qualitativa. E poiché l’intuizione può rappresentare la differenza numerica senza differenza qualitativa, ciò permette la rappresentazione di un molteplice omogeneo e, dunque, conclude Sutherland, da questo elemento si ha evidenza del ruolo fondamentale dell’intuizione nella conoscenza matematica. In secondo luogo, anche nella trattazione delle grandezze discrete, Kant seguirebbe la tradizione greca e di questo darebbe evidenza il fatto che il termine greco arithmos, numero, presuppone la scelta di unità oppure un concetto per contare gli elementi di una collezione (“counting-concept”) o ancora un concetto basato sulla collezione di unità pure. Quest’ultimo significato è quello che interessa di più all’analisi di Sutherland. Con buoni argomenti Sutherland sostiene che Kant ha cercato di incamerare nella dottrina dello schematismo la possibilità di pensare la generalità della nostra rappresentazione di numero 5, ad esempio, attraverso la rappresentazione di unità pure e di questo si da evidenza nella conoscenza aritmetica. Questo approccio, tuttavia, avrebbe dato vita per Kant a quello che Sutherland chiama “pure plurality problem”, cioè ad una tensione tra una rappresentazione completamente generale di numero attraverso unità e le particolari caratteristiche richieste per distinguere queste unità. Da questa tensione Kant esce, secondo Sutherland, grazie all’appello all’intuizione pura. Nella seconda sezione del suo articolo, Sutherland passa al confronto tra i termini di Anzahl, Zahl e gleich nel contesto della tradizione matematica del XIX secolo (Lipschitz, Schröder e Jevons). Alla luce di queste considerazioni Sutherland riporta l’argomento di Frege contro la possibilità di rappresentare unità su cui possano basarsi i concetti di numero. Di fatto Frege ha posto fine alla storia dei concetti aritmetici che hanno bisogno di una rappresentazione di unità, in particolare di unità pura. Tuttavia Sutherland riconosce anche dei punti “inaspettati” di contatto tra Frege e Kant nella considerazione delle unità pure, sebbene divergano profondamente sulla necessità o meno di un appello allo spazio e al tempo.
Carl Posy in Intuition and Infinity: A Kantian Theme with Echoes in the Foundations of Mathematics discute la concezione kantiana dell’intuizione, il suo background leibniziano per sostenere che la nozione di infinità di Kant, distinguendo in particolare tra lo spazio delle Antinomie della Critica della ragione pura e lo spazio dell’Estetica trascendentale. Inoltre Posy vuole evidenziare l’eco di questa trattazione kantiana di infinità che si può trovare nella Grundlagenstreit di Hilbert-Brouwer negli anni ’20. secondo Posy, chiarito il senso in cui Kant parla di infinità, si potrà mostrare come sia Hilbert che Brouwer mostrino degli aspetti kantiani nella loro trattazione di infinità, sebbene affrontino in modo radicalmente differente il ruolo dell’intuizione nella matematica. Brouwer avrebbe formulato una teoria dell’intuizione diversa da quella kantiana circa la singolarità, ma riprenderebbe il gioco tra comprensione intuitiva, ricettività e infinità. Al contrario Hilbert avrebbe ripreso due delle condizioni dell’intuizione empirica kantiana, ovvero immediatezza e singolarità per la comprensione del tutto. Dopo una breve trattazione della teoria leibniziana dell’intuizione e i problemi che essa aveva posto ai successori, Posy analizza la soluzione kantiana del possibile raccordo tra metafisica e l’empirico, attraverso la sua concezione di intuizioni empiriche. Kant, secondo Posy, nega l’esistenza di oggetti empirici infiniti, sia infinitamente piccoli che infinitamente grandi, ma avanza una teoria dell’intuizione che permette di pensare l’infinito matematico. L’immediatezza, la singolarità e l’unità dello spazio kantiano, continua Posy, fanno sì che “from an empirical point of view, space is a specter, a nexus of possibilities, but no more than that” (p. 187). Tutt’altro discorso vale per la matematica e lo stesso progetto della filosofia trascendentale. Da un lato, secondo il punto di vista trascendentale, si può pensare l’infinito in senso regolativo e dall’altro, per la matematica, un’infinità che però non è mai riferita a oggetti esistenti (oggetti matematici).
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