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J. Derrida, Adesso l’architettura.
Libri Scheiwiller, 2008

di Samantha Maruzzella

Già nel corso del 1700, nel bel mezzo del Secolo dei Lumi, l’architettura verrà chiamata dinanzi al kantiano tribunale della ragione, per essere sottoposta ad un esame critico, messo in atto dal ragionamento filosofico.
Questo dialogo tra filosofia e architettura, lungi dall’interrompersi nel tempo, è andato sempre più vivacizzandosi, al punto che nel 2000 Fulvio Papi ha dedicato un intero libro al rapporto che alcuni grandi filosofi hanno intrattenuto con l’architettura (Fulvio Papi, Filosofia e architettura. Kant, Hegel, Valéry, Heidegger, Derrida, Ibis, Como-Pavia 2000).
Questione fondamentale concerne il darsi stesso di un rapporto tra due campi della conoscenza apparentemente così lontani tra loro. Tra gli altri, anche Jacques Derrida ha tentato – a suo modo – di riflettere sulla questione, e nella modalità unica in cui poteva farlo: attraverso la decostruzione.
È il 1986 quando Bernard Tschumi invita Derrida e Peter Eisenmann a collaborare al progetto di uno dei giardini del Parc de La Villette a Parigi.
Un incontro del tutto casuale, come avrà modo di sottolineare più volte Derrida ritornando sull’argomento, un incontro del tutto non cercato, soprattutto da Derrida, eppure accettato felicemente dal filosofo, nonostante lo stupore.
Il progetto architettonico non verrà mai realizzato per problemi con la committenza istituzionale, eppure ne nasceranno una lunga serie di lettere, convegni, incontri istituzionali e non, aforismi ed uno splendido testo in  lingua inglese Chora L Works.
Gran parte di queste interviste, relazioni per convegni, aforismi, abbozzi, etc. sono oggi tradotti in italiano in un bel volume curato ed introdotto da Francesco Vitale, per le edizioni Scheiwiller.
In ognuno di questi testi, fin dall’inizio, o forse prima ancora di iniziare, Derrida si dichiara incompetente in materia – in questa materia come in molte altre – ma questa incompetenza, il fatto di scrivere, parlare, relazionare su e di qualcosa di cui non si ha pieno dominio, di cui non si ha pieno possesso, sembrerebbe essere un tratto distintivo del filosofo. Del resto, già Socrate diceva che «non v’è più saggio di colui che sa di non sapere» e Derrida questo lo sapeva molto bene; ciò nonostante ha voluto inoltrarsi oltre, spingersi al di là di quel limite che stabilisce le competenze, che decide su cosa si può e su cosa non si può scrivere, parlare, recensire.
Due termini che fin da subito escono allo scoperto sono nel testo di Derrida “decostruzione” e architettura”; allora, cosa ne è dell’ “architettura decostruttiva”? Si tratta di un paradosso, di un gioco di parole, di una congettura filosofia? Oppure quest’espressione nasconde in sé qualcosa di intrinsecamente articolato e lungimirante?
Per il sentire comune, per il pensiero comune, l’architettura è ciò che – come lo stesso termine sembrerebbe indicare – “costruisce”, quindi nulla di formalmente più lontano da una decostruzione che invece sembrerebbe “distruggere”, disarticolare tutto ciò che le capita sotto mano. Ma dobbiamo già distinguere le parole, perché vi è una certa somiglianza, ma anche una profonda differenza tra alcune di esse: è ad esempio il caso di decostruzione, decostruzionismo e decostruttivismo.
I tre termini provengono indubbiamente dalla stessa famiglia linguistica, eppure tra di essi vi sono delle grandi differenze. Decostruzionismo, ad esempio, è un termine che Derrida non usa mai, introdotto in alcuni circoli letterari che sembrerebbero aver frainteso con esso la decostruzione o la modalità operativa della decostruzione.
Il decostruttivismo consisterebbe invece in una tendenza architettonica, un vero e proprio movimento sviluppatosi negli Stati Uniti e in Europa nel corso degli anni Ottanta del Novecento. Gli architetti decostruttivisti vollero sperimentare nuove combinazioni compositive, con imprevedibili accostamenti di volumi, bruschi sbalzi di altezze, impiego di materiali diversi affiancati spesso in modo apparentemente illogico. Il termine che noi utilizzeremo sarà, invece, decostruzione, intesa come forma del tutto particolare di analisi dei testi – ma non soltanto – che non protegge i testi ma li percorre sotteraneamente aprendoli dall'interno per far emergere ciò che in essi è in-scritto, cercando di smascherare il movimento differenziale che si nasconde in ogni testo e che lo produce dall’interno.
Ma come si può costruire qualcosa di creativo, nuovo, diverso, se non disarticolando – senza necessariamente distruggere – ciò che c’era prima, ciò che resta al fondo? Laddove le fondazioni (ma anche le fondamenta, se vogliamo applicare il nostro procedimento all’architettura) sono stabili, insondabili e non è possibile metterle in discussione, non c’è costruzione possibile: «Se le fondazioni sono garantite, non c’è costruzione; e nemmeno c’è invenzione», (p. 66). Inventare qualcosa significa trovarsi in un momento di vuoto completo, in un momento di non garanzia, dove tutto è possibile ma nulla lo è davvero: soltanto dal nulla sembrerebbe allora emergere la possibilità di una costituzione, per una costruzione, per una nuova fondazione.
Dunque, la decostruzione si porrebbe in tal modo alla base di ogni costruzione perché soltanto essa può davvero «inventare l’architettura» (p 66).
L’architettura si dà come un evento, come qualcosa che accade e dinanzi alla quale noi nulla possiamo, se non accoglierla nel suo precipitarci addosso.
Ogni sapere potrebbe corrompere il suo arrivare, il suo sopraggiungere, per questo è necessario che la strada sia sgombra, per permettere il suo arrivo, un arrivo che non è determinabile a priori, piuttosto è indagabile soltanto a cose fatte, après coup, con un inevitabile ritardo che costituisce la condizione stessa di possibilità di ogni evento.
Soltanto dopo che l’opera – sia essa pittorica, architettonica, etc. – ci si è offerta, si è data a noi, allora noi possiamo ragionare sul suo luogo d’attesa, sul suo orizzonte d’arrivo. Ed è soltanto a condizione di emergere da questo orizzonte che l’opera si instaura come opera, che si mostra nella sua unicità.
Quello che la filosofia ha da dirci sull’architettura è proprio il pensiero del luogo come evento. In quanto «l’interrogazione sull’architettura é in effetti quella sul luogo, sull’aver luogo nello spazio, sull’evento architettonico» (p. 88).
La decostruzione – lo si dovrà riconoscere – non ha avuto propriamente inizio con la filosofia, con la discorsività filosofica, piuttosto con le istituzioni, con «i reali, solidi edifici delle costruzioni sociali» (p. 156).
La partita tra l’architettura e la decostruzione si gioca in Babele, in quel luogo di non traducibilità, dove ogni traduzione non potrà che essere falsata e falsificante, così come intraducibile resta la domanda derridiana «Quoi maintenant de l’architecture?».
Il verbo maintenir assume in francese molteplici accezioni, perciò la nostra domanda potrà tradursi in «Chi mantiene l’architettura?» inteso nel senso di «Chi la tiene in vita? Chi la manda avanti?», ma in francese maintenant è anche un avverbio che significa «Ora, adesso, attualmente» e potrebbe derivare proprio da qui il titolo italiano Adesso l’architettura.
Soltanto sui limiti dell’intraducibilità e della non completa assimilazione tra due lingue e tra diversi espressioni di una stessa lingua, può aprirsi il baratro per un «discorso decostruttivo sull’architettura» (p. 130).
Un simile discorso si pone in opera come una liberazione da vecchi concetti, troppo obsoleti, che vanno superati, ed è per questo che Derrida ritiene pensabile un simile discorso, là dove architetti come Eisenmann e Tschumi hanno iniziato un’opera di decostruzione dei fondamenti della tradizione (architettonica, in questo caso), cercando di liberare l’architettura da una teleologia, da una finalità esterna che le sarebbe totalmente estranea.
Quello che però si è cercato di fare non è stato ri-fondare un’architettura pura e  originaria, piuttosto volerla contaminare dall’interno, mettendola in contatto con altre forme, altre arti, altri media. Questa liberazione/contaminazione, però, è lungi dall’essere una deriva postmodernista. Se così fosse, infatti, noi non avremmo più bisogno di ciò che ci ha preceduto e ci rinchiuderemmo in qualcosa che sia temporalmente definibile, determinabile e terminato.
Non così per la decostruzione: un discorso decostruttivo sull’architettura non potrà che essere serio e rigoroso soltanto nel momento stesso in cui si farà carico del passato dell’architettura, di ciò che c’è stato prima della decostruzione.
Soltanto dove un’opera riesce a reinscrivere – a reinscriversi – all’interno di vecchi valori con una fantasia ed una modalità del tutto nuovi, soltanto allora l’opera avrà saputo creare un nuovo paradigma perché – come lo stesso Derrida riconosce – «l’inventiva degli architetti più dotati consiste in questa reinscrizione, nell’economia di questa reinscrizione, che coinvolge anche qualche rispetto per la tradizione, per la memoria» (p. 136).
 Il pubblico dei convegni cui Derrida ha preso parte, non ha sempre accolto favorevolmente questa prossimità tra architettura e decostruzione, al punto che alcuni uditori hanno segnalato l’emergere di una «contraddizione formale tra una tale teoria analitica [la decostruzione] e l’architettura che è essenzialmente uno sforzo sintetico» (p. 164).
Come insegnava Kant, per procedimento analitico si intende la scomposizione di un problema dato nei suoi elementi semplici, mentre il procedimento sintetico ricompone la serie degli elementi rintracciati mediante l’analisi, collegando le parti in un insieme logicamente ordinato. L’analisi consisterebbe dunque nel procedimento che muove dalla conoscenza degli effetti per risalire alle cause; allo stesso modo la sintesi designa non solo il procedimento che ricompone il tutto, andando da ciò che è più semplice in direzione di ciò che è più complesso, ma anche il procedimento che dimostra o deduce gli effetti a partire dalle loro cause.
La decostruzione, per come la intende Derrida, è un procedimento tanto analitico, quanto sintetico, e questa sua modalità di essere la rende quanto mai prossima all’architettura, o perlomeno a quella spinta alla dislocazione, alla dissociazione, alla differenza ed alla disgiuntura che architetti come Eisenman attuano nei loro disegni, così come negli stessi edifici.
La decostruzione sembra sempre più andare di pari passo con l’architettura, ed è un andare-insieme costitutivo: quando, infatti, applicando la decostruzione al discorso filosofico, tentiamo di decostruire il potere, l’egemonia, l’autorità, la supremazia in tutte le loro forme – politiche, statuali, etc.  – dobbiamo prima di tutto pensare che quel potere risiede fisicamente in un dato luogo, in una data struttura, e che questo edificio è uno spazio architettonicamente costruito.
Ogni sede del potere ha una struttura architettonica a farle da supporto, a coprirne i giochi, a velarne le carte: là dove si decide di riempire uno spazio con una chiesa piuttosto che con un ospedale, con una strada piuttosto che con una casa, allora un qualche potere ha già suddiviso e strutturato lo spazio, determinando la sua autorità su di esso e su tutti coloro che vi si trovino di passaggio, sancendo una discreta quantità di norme etiche, politiche, morali, comportamentali e stabilendo costrizioni e punizioni.
È per questo motivo che la decostruzione va di pari passo con l’architettura, ed anzi inizia con essa, perché se vogliamo decostruire il potere, non possiamo che iniziare dai suoi fondamenti… o meglio, dalle sue fondamenta…

 

PUBBLICATO IL : 23-01-2010
@ SCRIVI A Samantha Maruzzella
 

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