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Vallori Rasini, L'essere umano. Percorsi dell’antropologia filosofica contemporanea.
Carocci, Roma, 2008

di Giorgio Fazio

La presenza sotto un’unica denominazione di pensiero di Max Scheler, Helmuth Plessner e Arnold Gehlen, costituisce un vero e proprio topos storiografico, tanto consolidato quanto, per molti versi, scontato. Un topos che rischia di rivelarsi troppo generico e astratto, mano a mano che si mettono a fuoco i profili filosofici specifici dei singoli autori e ci si accorge delle distanze che separano la loro peculiari modalità di intendere e praticare il progetto di un’antropologia filosofica.
E’ a partire da questa osservazione che si sviluppa il percorso storiografico incrociato sui tre autori tracciato da Vallore Rasini in L’essere umano. Percorsi dell’antropologia filosofica contemporanea. (Carocci 2008). Come afferma l’autrice nell’introduzione, se non si vuole abbandonare la consuetudine storiografica che identifica in Scheler, Plessner e Geheln i fondatori di un comune e peculiare indirizzo di pensiero, è necessario individuare motivazioni valide che, «al di là del generale e diffuso interesse variamente perseguito dai tre autori per l’essere umano», «possano mostrare come essi abbiano tracciato un percorso per buona parte comune, tale da legittimare un loro reciproco e convincente collegamento.» (p.9)
Raccogliendo questa sfida teorica e storiografica Rasini tenta di mostrare nel corso del suo volume come, anche se in modo ogni volta irriducibile e originale, i tre autori abbiano espresso una convergenza di fondo attorno a sei aree tematiche, che si lasciano isolare pertanto come la fonte di legittimità del loro accostamento e come il nucleo di posizioni specifiche della cosiddetta antropologia filosofica contemporanea.    
Il sorgere dell’antropologia filosofica ha luogo in Germania, negli anni venti, nel quadro di un contesto storico e politico ad altissima instabilità, culturalmente esplosivo, e segnato da una diffusa condizione esistenziale di crisi: tutte condizioni particolarmente propizie per favorire sul piano del pensiero una “svolta verso l’uomo”, una ridefinizione globale della sua “posizione nel mondo” in grado di mettere in discussione certezze e acquisizioni ritenute fino a quel punto assodate e insuperabili. E tuttavia, per Rasini, se si intende precisare ciò che rende peculiare questa corrente di pensiero, il riferimento a questo quadro storico non è sufficiente: occorre piuttosto prendere in esame i molteplici fattori culturali che hanno contribuito a definire l’ambito e gli scopi di questa esperienza di pensiero.
Due sono i fattori culturali che hanno lavorato come detonatori di tutte e tre le traiettorie di riflessione: da un lato il confronto con l’universo delle scienze contemporanee e dall’altro il profilarsi, anche e soprattutto come reazione all’influsso sempre più pervasivo del meccanicismo e del positivismo, della Lebensphilosophie. E’ quindi nel corso di un elaborato processo di appropriazione e di riconfigurazione degli stimoli più fecondi provenienti dalla filosofia della vita – da Nietzsche a Dilthey, da Simmel a Misch, da Spengler a Klages – che tutti e tre gli autori giungono a rinvenire la missione specifica dell’antropologia filosofica come approccio filosofico innovativo e specifico: individuare un principio intorno al quale ridefinire una nuova immagine unitaria dell’uomo.
La seconda area tematica comune dei tre autori è quindi il modo in cui viene declinata questa missione dell’antropologia filosofica. La convinzione comune ai tre autori è che se un’immagine unitaria dell’uomo deve essere riguadagnata, ciò può essere compiuto solo sottoponendo a critica radicale l’impostazione dualistica che a partire da Cartesio ha dominato la rappresentazione moderna dell’uomo. E’ questa l’impostazione che ha spaccato l’uomo in due differenti componenti sostanziali: la materia estesa e il pensiero, l’esteriorità e l’interiorità; con il linguaggio dei nostri giorni possiamo dire il corpo e la mente. Rasini sottolinea come su questo punto un’importanza difficilmente sottovalutabile ha avuto la fondazione da parte di Scheler della categoria di “indifferenza psicofisica”: è questa categoria infatti che, rideclinata in modi anche molto diversi tra loro da Plessner e da Gehlen, ha rappresentato il presupposto di una nuova considerazione dell’essere vivente, che non distingue più tra momento esteriore e momento interiore, tra psichico e corporeo, ma mostra come entrambi gli aspetti, quello interno e quello esterno, concorrono a determinare il comportamento dell’essere vivente come referente primario della considerazione antropologico-filosofica. (p. 49)
Nei capitoli 3 e 4 Rasini sottolinea come a partire da questa nuova impostazione tutti e tre gli autori si vedono condannati a lavorare dentro una tensione peculiare: il superamento di una considerazione dualistica dell’uomo se da una parte obbliga a sviluppare una nuova sensibilità nei confronti dell’appartenenza dell’uomo al regno naturale e all’ambiente che lo circonda, d’altra parte e nello stesso tempo obbliga ancora più radicalmente a dare conto dell’appartenenza dell’uomo alla complessa dimensione culturale.
Sullo sfondo di questa tensione si rendono visibili la terza e la quarta tematica attorno a cui si consuma la convergenza tra i tre autori: la centralità della tematica dell’organismo e quella del rapporto tra ambiente animale e mondo umano.    
In riferimento a queste due questioni, nota Rasini, sono più le differenze che le convergenze.
In Plessner, per esempio, la nuova sensibilità verso il regno naturale si traduce nello sforzo di isolare le caratteristiche dell’ente organico in quanto tale, prima ancora di indagare le peculiarità dell’essere umano: quest’ultimo deriva la sua irriducibilità dalla modalità eccentrica del suo carattere posizionale, carattere che definisce il principio basilare di qualsiasi corpo organico nella sua relazione dinamica e autonoma nei confronti dell’ambiente. A differenza del concetto di posizionalità, il concetto di azione di Gehlen è invece ritagliato sulla specificità dell’essere umano. In Gehlen, “l’azione denota lo specifico comportamento che un ente carente, privato da madre natura di quei mezzi di difesa e di sostentamento da cui sono invece fornite le specie animali, si trova costretto ad adottare”. (p. 55)
Rasini pone quindi l’accento sul fatto che, in riferimento alla questione dell’origine e dei fondamenti della culturalità specifica dell’uomo, il pensiero di tutti e tre gli autori si rivela segnato in maniera indelebile dai lavori pubblicati all’inizio del secolo XX dal biologo estone Jacob von Uexküll. La determinazione del carattere culturale e tecnico dell’uomo coincide infatti con la definizione  della nozione di “apertura al mondo”: diversamente dall’organismo animale, “chiuso” nello stretto rapporto con il proprio ambiente, l’uomo è caratterizzato da una precisa “apertura”. «Per lui non è più possibile parlare di una Umwelt, di una “zona circostante” che lo accerchia (proteggendolo e insieme delimitandolo). Data l’assenza di un sistema relazionale fisso con un proprio ambiente, l’uomo ha a che fare con una Welt, con un intero mondo, cioè con la disponibilità di una dimensione tutta da definire”. (p. 103).
Il concetto di apertura al mondo è un concetto chiave in tutte e tre i rappresentanti dell’antropologia filosofica, ma anche qui in modalità ogni volta diverse: in Scheler, il primo a utilizzare questa nozione ne La posizione dell’uomo nel cosmo, questa nozione indica la presenza di una facoltà spirituale nel’essere umano che determina il suo distacco dalle necessità puramente biologiche e lo innalza come essere libero, che sa comportarsi moralmente e sa avere uno speciale rapporto con il divino. Nel pensiero di Gehlen, l’apertura al mondo dipende invece dalle caratteristiche biologiche dell’essere umano, dal suo svantaggio costitutivo e dalla necessità di affidarsi all’azione, fermo restando che anche per il filosofo questa condizione sta alla base della sua cesura con il resto del vivente, e costituisce il fondamento della sua apertura alla variabilità infinita delle possibilità e delle condizioni che la sua esistenza può incontrare. In Plessner, diversamente, non si può attribuire all’uomo un’apertura verso il mondo senza alcuna limitazione. Questo perché non c’è realtà culturale senza natura, e perché l’aspetto naturale entra necessariamente in gioco nella determinazione della realtà culturale. “Parlare di apertura totale al mondo è fuorviante, in quanto non consente la giusta valutazione del carattere frammentario e condizionato della relazione con il mondo effettivamente possibile all’uomo e ne disconosce il fondamentale meccanismo dialettico di regolamentazione.” (109)
Nel capitolo 5 Rasini mostra come il nuovo movimento di pensiero ha saputo conferire una nuova importanza al corpo come centro imprescindibile dell’esistenza singola, con un gesto che ha avuto significative ripercussioni e sviluppi in tutto il pensiero novecentesco. Siamo così giunti alla quinta tematica comune ai tre autori, che rimanda immediatamente ad un’altra tematica, quella con cui si chiude il percorso del libro.
Alla luce della nuova centralità assegnata alla tematica del corpo, sottolinea Rasini, i tre autori operano una rivisitazione radicale dei concetti con cui la filosofia tradizionale si è sforzata di pensare i temi della libertà e dell’autonomia del soggetto, isolandoli e sovraordiandoli dalle condizioni naturali e dai limiti della loro effettiva realizzazione. Il nuovo concetto di libertà che si delinea sulla base dei presupposti antropologico-filosofici finora richiamati non potrà non essere affetto da uno statuto eminentemente paradossale.    
Libertà e autonomia, da contrassegni di una comoda e superiore condizione dell’uomo, diventano contrassegni di un essere che solo nel paradosso più estremo può e deve condurre la propria esistenza. Ma anche qui, sullo sfondo delle convergenze di fondo, riemergono le differenze.
In Scheler, proprio in virtù del suo essere vitale, l’uomo è in grado di pronunciare «un energico “no” alla vita» e anzi finisce per distinguersi dalla massa dei viventi per essere colui che sa rinunciare agli impulsi vitali qualificandosi come “l’asceta della vita”. (p. 169) In Gehlen, per vivere, «l’uomo deve “naturalmente” porsi contro la natura, deve ricorrere all’artificio e allontanarsi quanto più possibile dalle condizioni originarie del suo esistere», rinnegando le proprie stesse radici. Infine in Plessner, la paradossalità diventa la condizione stessa dell’uomo. «La sua libertà in nessun caso si scioglie dalla necessità, (..) l’uomo rimane vincolato alla sua naturalità e così si vede consegnato ad un conflitto ineliminabile. (..) Nella frattura esistenziale che lo caratterizza, la libertà è il frutto di una condizione posizionale che contemporaneamente implica e concilia gli opposti. (..) L’uomo si scopre l’essere che solo nel paradosso più estremo può (e deve) condurre la propria esistenza. L’inquietudine ne è infine la cifra.» (p. 169-170)

PUBBLICATO IL : 21-06-2010
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