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C. Guarnieri, Il linguaggio allo specchio. Walter Benjamin e il primo romanticismo tedesco.
Mimesis, Milano, 2009

di Federico Lopiparo

 Nel libro Il linguaggio allo specchio. Walter Benjamin e il primo romanticismo tedesco Cristina Guarnieri, attraverso un raffinato «gioco di specchi» [p. 14], mette a confronto il pensiero di Friedrich Schlegel e di Novalis con la filosofia del linguaggio di Benjamin, indicando nel tema primoromantico della riflessione il cuore del loro intimo rapporto.
L’autrice rintraccia già nelle prime opere di Benjamin l’origine di questa relazione. In Metafisica della gioventù è presente una concezione del dialogo secondo cui chi parla non possiede il senso delle parole proferite. Il senso è garantito dall’ascolto silente dell’altro che, andando al di là della «fatua parvenza delle parole dette» [p. 19], rompe la prigionia del presente dischiudendo il futuro. Guarnieri sottolinea la forte carica utopica contenuta in questo pensiero del giovane Benjamin, il cui impegno politico era indirizzato in quegli anni a risvegliare una gioventù che avrebbe dovuto creare la cultura a venire.
Attraversando i diversi scritti di questo periodo Guarnieri mostra nel suo sorgere la critica benjaminiana alla sovranità del soggetto creatore, individuandone una prima elaborazione esplicita nel saggio del 1917 Sul programma della filosofia futura. Il riferimento polemico è alla gnoseologia kantiana: ad una teoria gnoseologica impoverita, costruita sul modello della conoscenza empirica, si deve sostituire una concezione in grado lasciare aperto l’accesso ad una dimensione esperienziale altra. Per questa critica al kantismo Benjamin è debitore nei confronti di quella filosofia del linguaggio tedesca che da Hamann ad Herder, fino ad Humboldt, aveva riconosciuto, contro la purezza della ragione kantiana, l’essenza linguistica della ragione.
Il rapporto tra il linguaggio e un’esperienza non soggettiva anima il saggio del 1916 Sul linguaggio in generale e sulla lingua dell’uomo. La critica al soggettivismo è qui portata avanti attraverso una espansione del concetto di linguaggio: tutte le cose si comunicano linguisticamente e l’uomo conosce nella misura in cui le nomina, ponendosi in ascolto dell’essenza spirituale che esse esprimono. L’uomo descritto da Benjamin è però un uomo storico, in cui alla lingua nominale si affianca una lingua segnica che con le cose ha perso ogni contatto. Quest’ultima non è che uno strumento convenzionale, attraverso cui l’uomo soggettivamente tenta di esercitare il proprio dominio sulle cose abbandonate ad un triste mutismo. In questa condizione storica non resta che «il compito di ricondurre la parola nel suo luogo di nascita, di riattingere al “segreto del nome” contro il ghigno della parola scheletrica ridotta a significato» [p. 50]. Impossibile rendere qui la ricchezza dell’argomentazione benjaminiana, che il testo di Guarnieri descrive nei dettagli sottolineando efficacemente con fulminanti citazioni la forte influenza che su di essa hanno avuto le opere primoromantiche. L’autrice, lasciando che nel discorso di Benjamin si riflettano le voci dei romantici, intende restituire il gesto profondo che agita il testo: il rinvio costante delle parole ad una «sfera inattingibile» [p. 35]. Il riavvicinamento al linguaggio nominale è infatti un compito infinito che indica, oltre ogni possibile conoscenza, un’espressività che si presenta in quanto si sottrae costantemente alla presa, fonte inesauribile di un senso che si dà solo là dove ci si pone in ascolto del silenzioso lamento delle cose.
Nel capitolo centrale del libro Guarnieri affronta il tema principale del suo testo: il rapporto tra la riflessione e il concetto di critica a cui Benjamin aveva dedicato rispettivamente la prima e la seconda parte della sua tesi di laurea del 1919. Secondo l’interpretazione benjaminiana della teoria romantica della riflessione da una parte ogni cosa pensa se stessa in un processo infinito attraverso cui immediatamente si autoconosce, dall’altra vi sarebbe una gradazione del reale per cui l’autoconoscenza della cosa può essere portata alla luce solo da una conoscenza di grado superiore. Nella conoscenza umana è dunque la cosa ad autoconoscersi: l’uomo, conoscendo la cosa, produce un progressivo potenziamento del germe di pensabilità che la cosa stessa custodisce. Questa teoria della riflessione costituisce il fondamento gnoseologico della concezione romantica della critica d’arte, concepita non come giudizio esteriore sull’opera, ma come «il suo potenziamento, la sua elevazione, nella misura in cui sarà in grado di dispiegare il germe di criticabilità custodito nell’opera stessa» [p. 76]. L’opera d’arte si autoconosce infinitamente attraverso il lavoro del critico, a cui è affidato il compito di rispondere all’esigenza di compimento che l’opera esprime.
Il terzo e ultimo capitolo mostra come l’interpretazione dei romantici contenuta nella tesi di laurea si ripercuota nella concezione benjaminiana della traduzione. Questa, come il concetto romantico di critica, è infatti fondata sul carattere riflessivo del reale. Nel saggio Il compito del traduttore, del 1921, Benjamin sostiene che la traduzione non debba essere imitazione dell’originale, una mera trasposizione del senso, ma un dispiegamento del germe di traducibilità che l’originale contiene a priori. A tale dispiegamento corrisponde un potenziamento gnoseologico dell’originale che esige d’essere infinitamente completato. È proprio l’infinità del completamento a fornire la chiave per comprendere l’interesse di Benjamin nei confronti della traduzione. Le ultime pagine del libro di Guarnieri sono indirizzate a lasciar emergere ancora una volta la tensione benjaminiana verso una dimensione altra rispetto ad una teoria della conoscenza rivolta a ciò che all’uomo si comunica. Nel rapportarsi del traduttore all’originale Benjamin non pone l’accento sul compimento, a cui la traduzione pure tende, ma sull’infinità del compito. Il traduttore «scruta tra le righe del detto, sonda tra gli spazi vuoti e silenziosi che avvolgono le parole» [p. 91] chiamando alla presenza, al di là di ogni comunicazione, un incomunicabile.
Indicando «l’impegno filosofico a disdire la parola» [p. 116] come la tensione di fondo che l’opera giovanile benjaminiana condivide con il primoromanticismo tedesco, Guarnieri non si limita a fornire un prezioso strumento per accedere a pagine della storia della filosofia tanto importanti quanto complesse, ma stimola il filosofo ad interrogarsi con Benjamin sulla responsabilità che il proprio agire nel linguaggio comporta.

PUBBLICATO IL : 20-06-2010
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