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Siegfried Landshut, Sulle tracce del politico: Su alcuni concetti fondamentali della politica (1925), Critica della sociologia (1929).
A cura di E. Fiorletta, Pensa MultiMedia, 2009

di Dario Gentili

     Si è spesso sostenuto, dai punti di vista più disparati, che l’epoca della Repubblica di Weimar, gli anni Venti-Trenta del Novecento, fino alla cesura del Nazismo e della Seconda Guerra mondiale, siano ancora da pensare, non alle nostre spalle ma davanti a noi; offrano cioè – per la varietà e la concentrazione di riflessioni che vi si produssero – se non le risposte, quantomeno la messa a fuoco più nitida di quei nodi problematici che ancora oggi sono ben lungi dall’essere sciolti. Tale costellazione di questioni può essere compresa in una formula: crisi del Moderno. È infatti alla crisi del Moderno che pensiero socialdemocratico, liberale, marxista e i pensatori della cosiddetta “rivoluzione conservatrice” hanno provato a proporre una soluzione. È ormai sterminata la letteratura filosofica (e non solo) che si è occupata degli autori e delle correnti di pensiero legati in modi diversi a quello che è stato definito “laboratorio Weimar”, e tutt’oggi quest’interesse non accenna a diminuire. La prima traduzione in italiano di due degli scritti più importanti di Siegfried Landshut, pienamente immersi nella temperie culturale weimariana, ne rappresenta un ulteriore e importante tassello. La figura di Landshut presenta – come evidenziato accuratamente dalla curatrice di Sulle tracce del politico, Elena Fiorletta – il profilo esemplare, condiviso da tanti altri ben più noti, dell’intellettuale dell’epoca: ebreo-tedesco, formatosi alla scuola fenomenologica di Husserl e Heidegger, studioso di Marx (è stato il primo curatore dei Frühschriften marxiani), costretto all’esilio in seguito alle prime leggi razziali del ’33, di ritorno in Germania dopo la guerra e finalmente accolto nell’Università tedesca. La domanda, allora, è d’obbligo: perché soltanto adesso la prima traduzione italiana delle sue opere? E non è affatto un caso che, a salutare e sottolineare con una Prefazione l’opportunità dell’operazione editoriale, sia uno dei più importanti studiosi italiani del periodo weimariano, Angelo Bolaffi, in un panorama filosofico come il nostro che comunque, fin dagli anni Sessanta-Settanta, ha sempre dedicato una straordinaria attenzione al “laboratorio Weimar”. La questione, tuttavia, andrebbe generalizzata e riformulata, dal momento che, nella stessa Germania, la prima biografia intellettuale di Landshut a opera di Rainer Nicolaysen risale appena al 1997 ed è sempre in questi ultimi anni che cominciano a essere pubblicati scritti dedicati specificatamente al suo pensiero. Perché, quindi, riscoprire proprio oggi Landshut? È, infatti, su questa appropriata – e ben più produttiva – conversione dell’orizzonte d’interrogazione che insiste il lungo e articolato Saggio introduttivo al volume di Fiorletta. E dunque, dal momento che Sulle tracce del politico non è e non vuole essere il mero riempimento di un tassello storiografico mancante, perché Landshut e perché proprio oggi?

     Una prima, sintetica risposta la fornisce lo stesso Bolaffi nella Prefazione: «La domanda da porsi è, piuttosto, se di fronte a una fase nuova dell’esperienza moderna sia ancora lecito continuare ad attingere al “laboratorio Weimar” per sciogliere i nodi del presente, se ora che siamo “dopo il Novecento” non dobbiamo per questo imparare a pensare “oltre il Novecento”. Landshut è tra quegli intellettuali che provarono a guardare oltre il loro tempo e che pagarono con l’oblio il prezzo di quella che oggi chiameremmo capacità di prefigurazione, che è sempre intempestiva: un invito, “dal Novecento”, a guardare oltre i paradigmi che ne hanno dominato l’orizzonte spirituale – spesso immobilizzandolo» [pp. 10-1]. È pertanto una sorta di “inattualità” rispetto al proprio tempo che permette al pensiero di Landshut, oggi, di poter accedere all’attualità. Bisogna allora comprendere quale nota dissonante rispetto al coro weimariano risuoni nella voce di Landshut; comprendere cioè in che modo egli analizzi e affronti la crisi del Moderno e, in particolare, la crisi del politico moderno. Ecco, come recita il titolo del volume, è “sulle tracce del politico” – e non in fuga da esso – che Landshut pensa la crisi del politico. Tale peculiarità rispetto alla maggior parte degli intellettuali weimariani è ben evidenziata da Fiorletta: «è al contrario proprio sulla politica, sulla sua tradizione bimillenaria, sulle aporie che per lei ha in serbo la modernità e sulla sua capacità di custodire ancora un’idea di libertà che si appunta l’interesse di Landshut. Vale a dire, ancora su quel nucleo aporetico che il moderno ha nutrito, che ancora custodisce e che costringe a una sempre nuova attualità la domanda su come abbia potuto lo sviluppo della soggettività obliare i principi di libertà e democrazia che erano iscritti nel suo atto di nascita e rovesciarli nel destino di una nuova schiavitù, sul perché abbia tradito quella promessa» [p. 23].

     È, pertanto, “sulle tracce del politico” che Landshut analizza il Miteinander (l’essere “gli uni con gli altri”), la concezione dominante di entrambi i saggi raccolti nel volume: Su alcuni concetti fondamentali della politica (1925) e Critica della sociologia (1929). Mentre Heidegger concepisce il Mitsein nell’ordine della inautenticità e come l’ambito proprio del man e della “chiacchiera”, Landshut, che pure ne condivide l’approccio fenomenologico, a differenza di quello che è uno dei suoi “maestri”, individua nel Miteinander il luogo peculiare della “crisi del politico” e, al contempo, il luogo in cui il conflitto, le contraddizioni e le aporie che lo caratterizzano possono essere convertite, senza “negarle” e “superarle”, in modo costruttivo e produttivo. Insomma, l’analisi di Landshut del Miteinander può avere esiti tutt’altro che impolitici. Lo studio della società, dove il campo di tensione del Miteinander trova piena espressione, non deve consistere allora nella ricerca di una sintesi uni-versale o di una legge fondamentale in grado di pacificare e superare la “crisi”: la sociologia non ha nella società il proprio “oggetto” o “concetto” specifico, tale da garantirle uno statuto scientifico, ma deve piuttosto evidenziare in essa un campo di connessioni concrete (concrezioni), relazioni, conflitti, azioni, che non possono non essere soggetti a una radicale storicità, e alla luce di questa compresi: «Dove si può parlare del Miteinander proprio degli uomini, lì la relazione reciproca che definisce l’essere l’uno per, con o contro l’altro è qualcosa di specificamente temporale e concreto che vive in specifiche connessioni di motivazioni e significati e né l’osservazione della formazione dei gruppi sociali e del loro spirito oggettivo, né il ricorso a uno schema generale delle azioni reciproche potranno mai fornirne una comprensione adeguata» [pp. 170-1].

     Leggendo Critica della sociologia, si verrà dunque a sapere che Karl Löwith non fu il primo a teorizzare un nesso profondo tra Marx e Weber in chiave di critica della società moderna. Tre anni prima, Landshut già aveva posto le basi per un confronto incentrato su un’affine concezione della società: «Si configura così in un certo senso un capovolgimento della concezione materialistica della storia, in quanto la struttura della realtà secondo sfere d’azione o – che è lo stesso – secondo “fattori”, è ripresa appieno da Marx, mentre se ne tralascia nel contempo l’obiettivo della ricerca, ovvero la trasformazione del mondo. Ma questa struttura si dà solo a patto di considerare la realtà nella prospettiva della sua trasformazione» [p. 225]. Ecco come, per Landshut, nel punto di maggior convergenza tra analisi marxiana e analisi weberiana della società moderna è possibile individuare anche la divaricazione delle prospettive che si aprono. È come se Weber non avesse completato coerentemente la famosa ultima tesi marxiana su Feuerbach: una corretta interpretazione del mondo moderno deve necessariamente portare alla possibilità di una sua trasformazione. Il segreto custodito nel cuore della modernità è la possibilità del suo superamento – ecco la nuova attualità di Marx, riscontrabile oggi in tanti e diversi contesti culturali nell’epoca della crisi della globalizzazione e del postmoderno, ed ecco pertanto l’attualità del pensiero di Landshut: il suo collocarsi “dentro e contro” il Moderno, come sottolinea Fiorletta. Weber, invece, pur in modo radicalmente diverso rispetto a tanta sociologia del suo tempo, è ricaduto infine nell’aspirazione al “positivismo scientifico”, come testimonia la sua teorizzazione dei “tipi ideali”: Weber, insomma, pur avendo il merito indiscutibile di aver portato all’evidenza più cruda la “gabbia d’acciaio” del Moderno, vi resta ancora tutto “dentro”. L’epoca di Weimar, dunque, ci ha lasciato in eredità un nodo tutt’altro che sciolto: «l’interrogativo – per dirla con Bolaffi – su quale fosse e se esistesse un nesso dialettico tra dinamica della razionalizzazione e realtà sociale della alienazione, tra disincanto del mondo e inesorabile destino segnato dall’avvento di quella che Weber definì la “gabbia d’acciaio della dipendenza”» [p. 11]. Seppur con agenti e soggetti diversi, la sfida teorica e pratica che pone una “critica della sociologia”, a Weimar come oggi, resta sempre attuale e aperta, se condotta sulla scorta dell’idea che Landshut ha della società: il campo della tensione, basata su una concezione radicale della storicità, tra uguaglianza e libertà.

PUBBLICATO IL : 13-05-2011
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