Quando il bambino era bambino era l’epoca di queste domande: “Perché io sono io, e non sei tu? Perché sono qui e perché non sono lì? Quando comincia il tempo e dove finisce lo spazio? La vita sotto il sole è forse solo un sogno? Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo, quello che sento vedo e odoro? C’è veramente il male e gente veramente cattiva? Come può essere che io che sono io non c’ero prima di diventare? E che una volta io che sono io non sarò più quello che sono?” P.Handke, da Lied Vom Kindsein[1]
Anche il pensiero possiede una sua infanzia dotata di un proprio linguaggio. “Bambino” è quel pensiero che si affaccia su ciò che è nuovo, trasgredendo la consuetudine di ciò che è già noto: in tal caso l’intero sistema linguistico si serve di quei termini di cui già dispone per sporgersi sull’“oltre”. Allora l’analogia, la metafora, si fanno veicolo privilegiato nel traghettare una neonata scienza verso nuove frontiere dello scibile. Non deve quindi stupire che in tali frangenti arte, scienza, poetica e metodo, logica e analogia, si intreccino in modo inscindibile. Né sorprenderà che Empedocle agli albori delle scienze naturali definisca il mare “sudore della terra”, o che nel Corpus Hippocraticum la nascente scienza medica si nutra profusamente di metafore poetiche.
Eppure le scienze, la medicina, la filosofia, la psicologia, e persino l’arte, una volta giunte in possesso di un “vocabolario” specifico, spesso tendono a rimuovere tale origine poetica, un’infanzia metaforica, analogica, che solo da uno sguardo miope potrebbe essere relegata a una dimensione esclusivamente arcaica. A ben vedere infatti qualunque movimento di espansione epistemica dovrà intraprendere operazioni di tipo analogico.
Questa è una delle importanti premesse introdotte da Viviana Meschesi in “Sistema e Trasgressione. Logica e Analogia in F. Rosenzweig, W. Benjamin ed E. Levinas”, ed. Mimesis, 2010.
Posta dunque l’impossibilità per le scienze di prescindere dall’uso di metafore, l’autrice ci conduce attraverso il pensiero di questi tre filosofi ebrei accomunati dalla condizione di outsiders culturali, e da una tradizione linguistica avvezza a ribadire il proprio scarto ontologico rispetto al Vero, affacciandoci così sulla stimolante possibilità di una “metafora nomade”, ovvero un uso dell’analogia che sappia bilanciare la propria tensione veritativa con una viva consapevolezza di non essere che un’opera di allusione, di avvicinamento, a qualcosa che rimane irriducibilmente Oltre e al di là del detto.
Una simile impostazione filosofica riesce a riattivare le polarità di un pensiero “forte” (immanenza e trascendenza, pensiero ed essere, soggetto e oggetto, uomo e Dio), senza tuttavia permettere che tale recupero del trascendente dia luogo a sua volta alla cristallizzazione di rappresentazioni statiche, collocando piuttosto il linguaggio in un ambito dinamico ed evolutivo, senza risolverne i limiti nella metafisica.
Una volta operata l’ardita scelta di dimorare nel nomadismo di un pensiero che sa di non poter impugnare alcun ottenimento definitivo, la ricompensa epistemica risiederebbe nella costruzione di sistemi di pensiero in grado di riformularsi costantemente, capaci di accettare le richieste adattive avanzate dall’esperienza, accogliendone il contributo trasgressivo.
E’ interessante allora come l’approccio qui accennato, dopo aver affrancato l’analogia dal pregiudizio di essere mera modalità arcaica di approssimazione linguistica, sia in grado di scardinare anche un altro preconcetto, ovvero quello che la metafora sia statica “raffigurazione” di coordinate trascendenti.
A tale pregiudizio sarebbe forse imputabile l’odierna reticenza linguistica (e non solo) di molti critici d’arte, curatori e artisti contemporanei, a utilizzare il verbo “rappresentare”, adottando piuttosto la parola “presentare”, nel descrivere l’operazione artistica, tacendone così la natura metaforica. L’esigenza che si cela dietro tale scelta linguistica è in realtà quella di prendere le distanze non tanto dalla metafora e dall’analogia in toto, quanto piuttosto dal concetto classico di raffigurazione, e dalle coordinate filosofiche e religiose che per secoli hanno dato fondamento a un’opera di figurazione che spesso si è attenuta a una mimesis celebrativa del sistema, anziché esserne stimolo trasgressivo.
Eppure la rappresentazione, e quindi l’analogia, ha ben altre potenzialità. Senza scivolare nella provocazione fine a se stessa, la metafora nomade che non girovaga a vuoto, né smarrisce la propria tensione originaria perdendosi nel gioco, ci consegna a un significato forse più autentico e dinamico della parola trasgressione, che è quel “passare attraverso, e oltre” del verbo latino trans-gredior che ne è la radice etimologica. Parliamo quindi di un nomadismo che non è casuale ma vettorializzato, animato dall’urgenza costante di avvicinamento, e tuttavia inabitato dalla consapevolezza della lontananza di una meta che è incommensurabilmente ‘oltre’.
La centralità del problema affrontato in “Sistema e Trasgressione” trova pertanto applicazione e risonanza in campo non solo filosofico, ma estetico (inquadrando l’operazione artistica in un ambito analogico e interrogandola sul ruolo assegnato al significante), indicandoci una via che senza indugiare nel debolismo postmoderno, né ambire alla restaurazione di un pensiero forte, riesce a coniugare la trascendenza e il dinamismo evolutivo richiesto dalla contemporaneità, in un atteggiamento epistemico di inquieta tensione, e di fondamentale umiltà conoscitiva (l’accettazione dello scarto strutturale fra pensiero ed essere). Lo spazio accordato a tale scarto trasgressivo, è anche spazio di apertura alla sperimentazione, alla crescita, e all’alterità.
[1] Il Cielo sopra Berlino - W.Wenders (1987)
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