Il libro, edito da Donzelli nella collana Saggine, riporta la breve ma densa
intervista a Remo Bodei, professore ordinario di Storia della filosofia all'Università
di Pisa, realizzata dall'analista Cecilia Albarella, membro ordinario della
Società psicoanalitica italiana. L'intervista affronta temi quali: l'attualità
della psicoanalisi, il suo "statuto gnoseologico", ed i rapporti di
questa disciplina con la filosofia. Il motivo di fondo cha anima il testo è,
come dice nell'introduzione C.A, lo stato di disagio in cui si trova attualmente
la disciplina dell'inconscio. Oggi, infatti, a cento anni dalla sua nascita,
la psicologia è attaccata e denigrata da più parti e da vari livelli
della società, con un astio che ricorda quello che accompagnò
i suoi esordi. Attacchi, che "concernono questioni di fondo e globali che
riguardano l'inefficacia terapeutica, una confutazione degli assunti teorici,
che non sarebbero in grado di offrire contributi significativi alla conoscenza
dell'uomo, ed in fine dubbi sull'onestà scientifica di Freud" (p.
7). Ed è proprio questa richiesta di onestà scientifica il problema:
quale idea di scienza è il termine di paragone? Nel momento in cui il
criterio di verità e di validità di qualunque cosa viene ricercato
e valutato con gli occhi delle scienze "oggettive" si perdono, in
una scivolata neo-positivistica, il senso della psicoanalisi come "scienza"
storica ed ermeneutica ed i suoi rapporti con la filosofia. Perdite che si possono
recuperare, secondo Bodei, riportando la psicoanalisi nel suo ruolo, difficile
ma produttivo, di "ponte tra ermeneutica e scienza".
Nel primo capitolo, intitolato Psicoanalisi e società, le considerazioni
dell'A. prendono le mosse dalle riflessioni sui rapporti tra psiche individuale
e psiche collettiva, svolte da Freud nel periodo tra il 1919 e il 1929, considerazioni
che culminano nello scritto Il disagio della civiltà (edito in Italia
da Boringhieri). Freud individuava il disagio psichico del singolo in un disagio
più originario intrinseco alla società stessa in cui gli uomini
nascono e vivono. Disagio che si sviluppa nella tensione tra l'essere naturale
dell'uomo (pulsioni, desideri, etc.) e la strategia sociale del suo essere comunitario.
Strategia strutturale alla sua sopravvivenza ed al suo imporsi come specie.
Questo disagio, anche se originario, si manifesta ed è delineabile solo
attraverso forme storiche determinate, per cui, se l'origine è sempre
la stessa, le sue manifestazioni sono sempre storicamente nuove e storicamente
determinabili. Lo stesso vale per le patologie psichiche individuali. La cultura
(Kultur) porta con sé un disagio psichico per gli individui, che consiste
in una forte riduzione della libido soggettiva che viene deviata e sublimata
per, e attraverso, la produzione materiale della civilizzazione (Zivilisation).
Freud, come evidenzia Cecilia Albarella, unisce così la storia del pensiero
alla produzione materiale (la tecnica) in un binomio, strutturale e necessario,
che si contrappone ai desideri delle libido individuali per far sì che
possano convivere insieme.
Attualmente il disagio della civiltà si manifesta storicamente, per
Bodei, prima di tutto nel dislivello, generato dalla struttura delle democrazie
capitalistiche, tra promesse di realizzazione di sé e risultati effettivamente
raggiunti. Il problema non è tanto la mancata realizzazione delle aspettative
individuali, ma è che queste grandi speranze naufragano spesso nella
banalità più che nella disperazione, sentimento questo che potrebbe
invece essere estremamente più utile per generare un atto risolutivo,
di emancipazione, rispetto a questa diffusa insoddisfazione. Banalità
dovuta, continua Bodei, dal dominio di una scarsa cultura, non tanto come quantità
di informazioni che anzi sono eccezionalmente abbondanti, ma quanto a cultura
di sé: "ci si interroga poco su noi stessi come portatori di possibilità
e malgrado l'immensa mole di informazioni, si tende ad avere una percezione
frammentaria e schematica del mondo" (p. 42).
Oggi, secondo l'A., nel binomio Kultur/Zivilisation, la tecnica ha preso il
sopravvento sul pensiero. Questo dominio si impone, andando a far leva sul sentimento
che soggiace a ogni intimo desiderio umano: l'inadeguatezza e l'insoddisfazione
verso il desiderio di essere felici. La scienza soddisfa, infatti, la gran parte
dei nostri desideri e bisogni materiali, con una spinta produttiva mai conosciuta
prima dalla società degli uomini. In questo orizzonte la tecnica si sostituisce,
di fatto, nelle democrazie moderne alle antiche strutture di senso (riti, religioni,
metafisica) ma nel suo essere rivolta al dominio e al soddisfacimento materiale
rivela una sostanziale inadeguatezza a questo scopo. Questa insufficienza innesca
una corsa spasmodica verso nuove mete tecnologiche che a loro volta si rivelano
costantemente inadeguate. In questo modo, ci mettiamo alla mercé "di
forze incontrollabili, perché non dipendono da noi, che sembrano garantirci
un certo grado di benessere e felicità, proprio mentre ci snervano e
ci debilitano in attese sempre riproposte" (p. 43). In tutto ciò
si finisce per perdere l'ubi consistam a cui il pensiero, però, può
costantemente riportarci. Il pensiero inteso non semplicemente come ratio, ma
come quell'essere presenti a sé nel domandare, nell'interrogare la visione
di noi stessi, e di ciò che ci circonda.
La felicità e la morte (come estremo confine della sofferenza), sono
quindi gli ambiti in cui si immette e prolifera la civiltà e il disagio
che questa comporta. Oggi, per Bodei, "con il tramonto di rituali a lungo
collaudati nell'esprimere in pubblico le proprie emozioni, ognuno finisce per
gestirle, certo con minori costrizioni esterne, secondo il criterio del "fai
da te", in maniera sostanzialmente dilettantesca. Per questo, spesso, fallisce
nel suo intento di oggettivarle" (p. 48). Nell'attuale società,
il singolo, sostanzialmente chiuso in se stesso, vive schiacciato nell'immanenza
senza una prospettiva forte di senso a cui relazionare la sua esistenza. L'irripetibilità
della vita, e di ogni singola occasione che in essa si presenta, sono la giustificazione
per mettere in cultura intensiva il presente, con l'intento di cogliere il prima
possibile, e il più possibile, occasioni che non si ripeteranno mai più.
La morte diviene, allora, l'evento estraneo e incomprensibile, che sostanzialmente
non ci appartiene, che ruba le nostre possibilità, invece di dischiuderle.
Si è perso di mira, come dice C. A., che la vita è costruzione,
lotta per esprimersi, e che solo in questa lotta acquista il suo senso. Dice
l'A.: "lo svantaggio di tale atteggiamento consiste nel privare l'esistenza
del singolo di ogni tensione, di lasciarlo in uno stato astenico, come se gli
fossero stati recisi i nervi dell'anima. Tolto lo slancio verso l'ulteriorità,
verso il futuro, la vita interamente immersa nel presente rischia di diventare
opportunistica e predatoria. La psicoanalisi, restituendo agli individui la
profondità del passato e la proiezione verso l'avvenire, costituisce
un antidoto a tale spossatezza psichica" (p. 66). Restituire la profondità
del passato e la proiezione verso l'avvenire significa sostanzialmente comprendere,
dispiegandolo, il presente. Significa ricomprendere il senso della sofferenza
come vissuto proprio del soggetto, come ciò in cui e rispetto a cui la
vita può avere, ed ha, in ogni vissuto attuale di coscienza, un senso.
L'assunzione della morte è assunzione della finitezza, è porsi
nell'aperto, è l'esser rivolti al possibile.
L'A. mette in evidenza, quindi, come la psicoanalisi sia molto di più
di una terapia del dolore, o di una "semplice" cura di un determinato
sintomo. Non bisogna infatti dimenticare che "la psicoanalisi si serve
del dolore anche ai fini della conoscenza emancipatrice. […] Costringe
ciascuno a frugare penosamente dentro se stesso con l'aiuto esterno dello psicanalista,
nell'attesa di essere tratti fuori dal gorgo della malattia. Il prezzo da pagare
è la riapertura delle ferite non completamente cicatrizzate, la rinuncia
ai vecchi meccanismi di difesa […]. Nel far soffrire essa riapre la strada
alla soluzione dei conflitti" (pp. 49-51). Il dolore è per la teoria
psicanalitica sia epifenomeno della malattia, sia il mezzo per giungere alla
soluzione dei conflitti psichici. Soluzione che è quindi ricomprensione,
pensiero. Allora è attraverso il pensiero che può avvenire quella
costante ricontrattazione del disagio che la civiltà ci impone. Il pensiero
è quindi non solo strumento di coercizione della libido ma è,
allo stesso tempo, anche mezzo di emancipazione. Emancipazione che avviene nell'atto
stesso di comprendere il proprio vissuto.
Freud, secondo Bodei, volendo restituire all'individuo le proprie possibilità
attraverso l'autoassunzione della sua finitezza, si colloca all'interno della
tradizione illuminista (dove per illuminismo Bodei intende evidentemente quello
kantiano). Il vero illuminismo, dice l'A., non grida ingenuamente "viva
la ragione!" ma definisce il campo delle possibilità di questa,
limitandola, per poterle poi praticare fino in fondo. Freud lega la soggettività
a tre "padroni": il mondo esterno, i propri istinti (l'Es), la società
(Il Super-Io), portando l'alterità in seno alla coscienza stessa. Lungi
dal voler riproporre un dualismo sostanziale all'interno della coscienza, l'intento
di Freud è quello di mettere a nudo i nervi dell'anima, i quali si rivelano
costitutivamente trasversali tra il biologico e lo storico-culturale. Il soggetto,
quindi, non è mai né storicamente né biologicamente determinato.
La padronanza di sé, allora, non può mai essere dominio ma soltanto
comprensione. Cade così, in Freud, l'idea dell'"Uomo", finisce
la possibilità stessa di una sua rappresentazione certa e definitiva.
Solo facendo i conti con i suoi tre "padroni" la coscienza può
recuperare il suo esser proprio ed attivarsi nei confronti di questa appartenenza
come ciò da cui si dirama il nuovo. "Freud per primo ha scoperto
il carattere dinamico dell'inconscio, la resistenza opposta da determinati contenuti
traumatici a oltrepassare la soglia della consapevolezza, vale a dire i meccanismi
mediante i quali - per sopravvivere a determinati traumi - ci procuriamo l'ignoranza,
il non voler sapere" (p.83, corsivo mio).
La filosofia, per l'A., non si è ancora completamente confrontata con
questo concetto di inconscio tematizzato da Freud e dai suoi successori. Ad
esempio: la definizione freudiana del senso di colpa come qualcosa che precede
l'agire, che è indipendente da una nozione di bene particolare, può
aprire la strada al pensiero di una prassi della responsabilità che è
indipendente dal fare. Una morale, quindi, dove tutti siamo responsabili perché
tutti originariamente "colpevoli". Dove però la colpa non è
in rapporto ad un bene assoluto o ad un peccato originale contro Dio ma è
l'inevitabile, intrinseco al nostro stesso stare in rapporto con altro da noi,
sia verso l'esterno che verso l'interno del sé. La redenzione è
allora l'essere consapevoli di questo nostro esser rimessi e della nostra responsabilità
verso ciò che è stato e verso ciò che è possibile
a partire da quel che già ci appartiene.
Lo stato attuale di disconoscimento della fecondità degli aspetti antropologici
e culturali del pensiero freudiano sono causati, secondo l'Autore, anche da
alcuni sviluppi della psicoanalisi che hanno teso a non considerare parte delle
riflessioni fin qui riassunte. "Da una parte, in molti casi, la psicoanalisi
è diventata una (cara) officina di riparazione dell'anima, tradendo così
l'essenza stessa del discorso e della metodologia freudiana" (p. 87). Da
un'altra parte ha teso a fare della teoria freudiana un organo dottrinale compiuto
alla stregua di una summa teologica. Bisognerebbe invece recuperare quell'atteggiamento
di onestà intellettuale, che lo stesso Freud aveva, di continua ridiscussione
dei principi della teoria, atteggiamento che aveva alla base una profonda attenzione
al vissuto individuale e collettivo della società in cui la psicoanalisi
ha la pretesa di operare. Ripristinando, quindi, quel circolo interpretativo,
che genera la stessa teoria psicoanalitica, che dall'evento va al sé
individuale, da questo va alla società (intesa come insieme dei legami
interpersonali diretti e indiretti), per tornare all'evento riuscendo a modificare
il disagio psichico che questo denunciava. "Sia in campo filosofico che
in campo psicanalitico, bisognerebbe sempre avanzare secondo un doppio movimento.
Il primo parte dalle esperienze individuali per giungere a concezioni di carattere
più universale. Il secondo è un movimento inverso, che fa fruttare
le idee generali ripiantandole sul terreno dell'individualità" (p.
91).
Molte esperienze della vita quotidiana, molte psicopatologie emerse di recente,
aspettano ancora che qualcuno ne fornisca spiegazioni plausibili. Spiegazioni
che guardino però con rinnovato "coraggio" alla teoria dell'inconscio.
Riuscendo a mantenere e a ripristinare quella caratteristica gnoseologica della
psicoanalisi, a cui abbiamo accennato, che la rende ponte tra ermeneutica e
scienza. Ma cosa significa che la psicoanalisi è e può essere
un ponte tra ermeneutica e scienza? Freud, pur avendo un fine "scientifico",
nella sua attenzione alla tradizione umanistica, riusciva a condurre tematiche
specifiche della letteratura dal piano ermeneutico al piano scientifico della
terapia, tematizzandole, così, in una teoria finalisticamente orientata
(scienza). Mostrando, come ciò che sembra inspiegabile alla scienza e
appartenente al mondo del mito (il sogno e i lapsus) riesca a trovare una spiegazione
"scientifica" solo nella comprensione ermeneutica, nel guardare. In
questo movimento Freud riusciva di fatto ad unire ermeneutica del vissuto con
la necessità di finalizzare la ricerca a fini terapeutici. Egli mostrava
come il mondo del quotidiano sia intrinseco alla riflessione "scientifica",
e come il determinato (oggetto della spiegazione) sia correlato al possibile
attraverso una conoscenza che comprenda invece di dominare. Capire (atteggiamento
dell'ermeneutica) e spiegare (atteggiamento della scienza) trovano così
nel pensiero freudiano una sostanziale unificazione.
Per la psicoanalisi porsi in questo orizzonte significa, in conclusione, uscire
dalla tendenza al determinismo psichico, intrinseca ad una visione meramente
biologica della teoria dell'inconscio, senza cadere né nel relativismo
scettico, né nello storicismo assolutizzante. Superare il determinismo
significa, più in generale, diventare consapevoli "[…] del
nostro essere necessitati, del fatto cioè che la nostra anima è,
appunto, come una barca a vela, allora il nostro maneggiare il timone in una
direzione o nell'altra non potrà ignorare l'intensità e la direzione
del vento" (p. 103). Rendersi conto, quindi, che possiamo essere liberi
pur muovendoci in un insieme già dato di forze e che per farlo è
necessario prima di tutto corrispondere a quel già dato che ci appartiene.
Preso atto di ciò diviene allora possibile tracciare la rotta verso gli
obbiettivi propri di ogni singolarità puntando ad aumentare quello che
Spinoza definisce la "sua vis existendi, l'intensità del suo potere
di esistere e della gioia che l'accompagna" (p. 103). Come cento anni fa,
la psicoanalisi è chiamata a dischiudere all'individuo, psichicamente
disagiato, questa possibilità, strappandolo all'incantesimo di una perversione
involontaria.
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