Uscito in Germania per la Suhrkamp all’inizio del 2003, il libro di Stefan
Müller-Doohm rappresenta probabilmente il contributo più imponente
per il centenario della nascita di Theodor W. Adorno. Il testo, di quasi mille
pagine, è stato tradotto in italiano in tempi record dalla casa editrice
Carocci (trad. di Barbara Agnese). Nonostante l’enorme mole, la biografia
– il cui titolo originale è Adorno. Eine Biographie –
scorre piacevolmente, intrecciando i diversi piani della vita e dell’opera
di uno dei maggiori pensatori del Novecento.
Partendo dalla ricostruzione dell’albero genealogico, di cui l’autore
ha riportato anche lo schema, la figura di Adorno prende forma attraverso il
racconto delle sue origini, dal nonno corso bonapartista e maestro di scherma,
da cui deriva il cognome, alla famiglia paterna dotata di una forte tradizione
commerciale e borghese, da cui Adorno riceve l’eredità ebraica.
Già in questo incontro di culture diverse Müller-Doohm intravede
le fortunate cause del carattere poliedrico di Adorno: se da un lato le principali
artefici della sua educazione sono state la madre cantante e la zia, amante
della musica e della letteratura, tuttavia, dall’altro, l’influenza
del ramo paterno era presente sotto forma di una propensione alla stabilità
e alla sicurezza, che effettivamente Adorno ha avuto per tutta la vita. L’eco
di questa sua formazione, incline ad un tempo ai valori della borghesia commerciale
e a quelli del mondo artistico e intellettuale, si avverte, talvolta, anche
nell’analisi che Adorno ha condotto intorno ad alcune tematiche sociologiche,
quali ad esempio la famiglia: nonostante egli abbia in più luoghi definito
irrazionale il nucleo familiare borghese, tuttavia ha ritenuto di centrale importanza
il ruolo che questo ha rivestito in periodi storici – come quello in cui
si trovava a vivere – segnati dalla precarietà.
La maggiore vicinanza allo spirito artistico e intellettuale materno, piuttosto
che a quello imprenditoriale del padre, è evidente. La stessa scelta
di rinunciare al cognome ebreo Wiesengrund scritto per esteso, quando Adorno
era in California, dimostra un chiaro allontanamento dalla tradizione commerciale
paterna (questa decisione ha fatto scaturire molte critiche verso il filosofo,
soprattutto da parte di alcuni esponenti del mondo ebraico). Fin da subito egli
si è occupato di musica e composizione. Nel 1921, infatti, si iscrive
al conservatorio, e nello stesso anno conosce Siegfried Kracauer. Attraverso
questa amicizia, Adorno si avvicina sempre di più alla filosofia: insieme
leggono Kant e discutono sul rapporto tra cultura di massa e opera d’arte
autentica. Da allora in poi il coinvolgimento per la musica e la filosofia sarà
tale da non permettere una scelta tra le due discipline. In una lettera del
1948 a Thomas Mann, Adorno ammetterà: «ho studiato filosofia e
musica. Invece di decidermi per l’una o per l’altra, per tutta la
vita ho avuto la sensazione di perseguire lo stesso scopo in ciascuno di quei
due campi divergenti» [p. 661]. Queste due strade apparentemente parallele,
musica e filosofia, sono diventate in realtà il campo di azione di un
pensiero teso in ogni caso a «illustrare concretamente la dialettica tra
il particolare e il generale» [p. 370]. Nella gran parte degli scritti
adorniani, su cui Müller-Doohm si sofferma mettendo in evidenza il nucleo
teorico fondamentale, emerge l’urgenza di recuperare e salvaguardare ciò
che il mondo, governato dal dominio della totalità sociale, ha messo
al margine. Nell’epoca che Adorno stesso definisce di «tendenze
distruttive», anche la filosofia e la musica diventano strumenti di controllo
di un ordine che vuole spacciarsi tale, ma che in realtà altro «non
è se non il velo che maschera il caos» [T. W. Adorno, Filosofia
della musica moderna, Einaudi, Torino 1959, pp. 4-5]; così la musica
assume un carattere feticista e la filosofia si rivela speculare ad una società
escludente e chiusa verso le diversità. Questo caos non è soltanto
la conseguenza della seconda guerra mondiale e dei totalitarismi, piuttosto
è per Adorno il sintomo di una lotta più radicata e profonda che
l’umanità sembra aver ingaggiato contro se stessa: dal progresso
scientifico ed economico alle svariate forme dell’industria culturale,
tutto viene attuato sulla base di un capovolgimento del rapporto mezzo-fine.
Il tratto che rende il pensiero di Adorno assolutamente attuale, rilevato anche
in questa biografia, sta proprio nell’analisi critica della società
sotto ogni suo aspetto, anche laddove questa sembra voler migliorare la vita
dell’uomo; il risultato di tale analisi – peraltro immutato, se,
a distanza di più di quarant’anni, si guarda la società
odierna dalla stessa prospettiva di Adorno – mette in evidenza un degrado
della condizione umana, in cui ogni singolo aspetto della vita viene utilizzato
per il raggiungimento di scopi altri, sotto l’egida di un progresso soltanto
quantitativo, «in conformità alla reclamizzata ricetta del sempre-e-sempre-meglio»
[T. W. Adorno, Progresso, in id. Parole chiave. Modelli critici,
Sugarco, Milano 1974, p. 40.]. Così il lavoro di Adorno, attraverso la
musica, la filosofia e anche le ricerche sociologiche, è tutto teso a
smascherare le contraddizioni e i limiti di quelli che egli considera sistemi
chiusi, dai casi più evidenti, come i totalitarismi e il capitalismo,
a quelli che ormai sono entrati a far parte del vivere quotidiano: il sistema
cinematografico hollywoodiano, i media e l’ascolto indotto di musica sono
diventati modalità di controllo più subdole e sottili, ma ugualmente
efficaci per il mantenimento di una società totalizzante, il cui intento
è di uniformare tutto, anche il tempo libero. A tenere in piedi questo
potere è, secondo Adorno, la falsità della dialettica che muove
il rapporto tra particolare e universale. La creazione di un sistema, filosofico
politico o musicale, prevede necessariamente la supremazia del tutto sulle parti;
garante della totalità e della chiusura sistematica è, secondo
Adorno, la dialettica, il cui metodo coglie il non-identico solo come momento
del principio di identità.
La possibilità che questo non-identico venga recuperato può esserci
soltanto a partire da un nuovo uso della dialettica; perciò Adorno scrive
di voler «illustrare concretamente la dialettica tra il particolare e
l’universale». La sua intenzione è di rileggere il rapporto
tra identico e non-identico eliminando la supremazia dell’uno sull’altro.
Le ricerche di Adorno su questi campi divergenti, musica e filosofia, come anche
i suoi studi sociologici, perseguono questo stesso scopo, come egli aveva confessato
a Thomas Mann: la necessità di dare espressione a quella parte non concettuale
che non è allineata con il sistema.
Tale necessità ha accompagnato Adorno fin dall’inizio dei suoi
studi musicali: già dalla fine degli anni Venti, egli passa dall’attività
di critico a quella di teorico musicale. L’interesse per la tecnica dodecafonica
lo porta a stringere relazioni con alcuni dei compositori dell’epoca:
Arnold Schönberg, iniziatore della nuova musica, al quale anni dopo dedicherà
il saggio “Il compositore dialettico”, Alban Berg, che
Adorno considerava il suo maestro e, tra gli altri, il compositore viennese
Krenek. Con quest’ultimo Adorno ha intrattenuto un carteggio, a partire
dal 1929, proprio sulla questione dell’attualità della composizione
musicale. Nell’idea che Adorno ha della tecnica dodecafonica, messa in
pratica anche nelle sue composizioni, sono da subito presenti considerazioni
di carattere filosofico-musicale: la fissità delle regole della struttura
dodecafonica deve entrare in un rapporto dialettico con la libertà dell’atonalità.
Usare la dodecafonia in maniera ortodossa, come facevano alcuni compositori,
equivale a un modo reazionario di fare musica, che blocca l’innovazione
e resta legato all’irrazionalità, a quell’obbligo mitico
che pretende la ripetizione ciclica dei suoni nella composizione. Questa sua
teoria sul metodo dodecafonico mette perfettamente in evidenza la volontà
di dar voce al materiale musicale ogni volta diverso, che altrimenti verrebbe
appiattito dalle regole fisse della dodecafonia. A tale proposito Adorno pensa
al concetto di progresso musicale partendo dalla convinzione che la novità,
l’elemento del nuovo, sia già presente nel materiale musicale;
è infatti questo il luogo in cui si articolano le innovazioni e i cambiamenti
storici. Da questo tipo di analisi è possibile, afferma Adorno, individuare
anche un lato sociale del materiale musicale, proprio perché la sua interpretazione
non può prescindere dalle condizioni storiche e sociali. Una tale apertura
del materiale musicale non può verificarsi attraverso le forme fisse
della dodecafonia usata in maniera metodica. Il rapporto dialettico tra materiale
musicale e dodecafonia pensato da Adorno non è un rapporto di sudditanza
del particolare all’universale, poiché, usando le parole di Müller-Doohm,
«il materiale, per una composizione che sia radicalmente indipendente,
libera, non esige necessariamente ed esclusivamente musica dodecafonica. La
tecnica dodecafonica non è un canone vincolante del comporre» [p.
159]. Dunque la dodecafonia non deve essere metodo, perché se lo fosse
imprigionerebbe il nuovo del materiale musicale nella rigidità delle
sue regole.
Questa volontà di lasciare svincolato il materiale musicale corrisponde
al tentativo filosofico di liberare la specificità del particolare dalla
struttura dell’universale; di Adorno si può dunque affermare ciò
che egli diceva del grande maestro d’orchestra Scherchen: «il suo
modo di lavorare con la musica penetrava al centro della problematica storico-filosofica
delle opere» [p. 139]. Del resto, come fa notare anche Müller-Doohm,
gli anni in cui Adorno inizia a tematizzare la sua teoria sul metodo dodecafonico
sono gli stessi in cui si concretizza maggiormente il suo cammino filosofico.
Le relazioni sempre più strette, non solo con Max Horkheimer e con l’Istituto
per la ricerca sociale, ma anche con Walter Benjamin, portano Adorno a pensare
che i suoi studi di teoria musicale e filosofia non si escludano l’un
l’altro, ma, anzi, possano convergere. Così, fin dai suoi primi
scritti filosofici, come il Kierkegaard, che gli vale l’abilitazione
all’insegnamento, Adorno pone l’attenzione sull’uso «dello
strumento della formulazione dialettica dei concetti» [p. 170.]. Del resto,
non è certamente un caso se due delle sue maggiori opere di filosofia
e teoria musicale, Dialettica dell’illuminismo, scritta insieme
a Horkheimer, e Filosofia della musica moderna, siano state concepite
come parti di un unico progetto. Adorno pensava infatti al suo lavoro di filosofia
della musica «come un excursus preliminare a quel progetto comune»
[p. 369] che sarebbe stata la Dialettica dell’illuminismo. Il
nucleo teorico fondamentale dei due scritti è il medesimo e si articola
sui due piani diversi della musica e della filosofia; tale nucleo consiste nel
tentativo di liberare il lato naturale, il non-identico, dal dominio di una
struttura fissa, individuata tanto nelle regole del metodo dodecafonico, quanto
in quelle del sistema sociale e filosofico. Musica e filosofia sono mosse entrambe
da una dialettica interna: se da un lato esse si emancipano dal momento puramente
naturale, mitico, dall’altro regrediscono nell’irrazionalità
chiudendosi in forme di dominio fisse e metodiche, che solo apparentemente amministrano
il momento naturale. L’uscita da questa ciclicità è possibile
solo se il rapporto con il momento naturale cessa di essere dominio; filosofia
e musica imprimono la violenza dei loro concetti sulla non-identità naturale
perché diventano metodo, le cui regole pretendono di essere universali.
L’intenzione di Adorno è di abbandonare l’idea di metodo,
filosofico-dialettico e musicale, per sottrarre la non-identità alla
coazione del metodo; le sue «meditazioni filosofiche […] erano sempre
meno teorie nel senso abituale, bensì gesti composti di concetti. A tal
fine, però, era necessario l’intero lavoro del concetto»
[p. 373].
Successivamente, nella sua opera filosofica più sistematica, Dialettica
negativa, Adorno affermerà con forza che la dialettica, per far
parlare il particolare, il nuovo, non deve più essere metodo ma modello,
poiché «il modello centra lo specifico e più che lo specifico,
senza sublimarlo nel suo concetto superiore più universale. Pensare filosoficamente
equivale a pensare per modelli» [T. W. Adorno, Dialettica negativa,
Einaudi, Torino 2004, p. 28.]. Possiamo dire che questo cogliere lo specifico
senza la coazione della totalità raccoglie il pensiero adorniano nella
sua forma filosofica, ma anche musicale e sociale.
Il libro di Müller-Doohm racconta la nascita e l’articolarsi di questo
pensiero sotto tutte le sue forme, senza la pretesa di prediligerne una tra
le altre. L’andamento cronologico garantisce l’obiettività
della sua visione, lasciando spazio al dispiegarsi di tutti i momenti della
vita di Adorno, dalle sensazioni private alle relazioni, affidandosi all’idea
dello stesso Adorno che «anche la persona singola nella sua biografia
è una categoria sociale, determinata solo nella correlazione vitale con
altre persone, che costituisce appunto il suo carattere sociale; solo in questa
correlazione la sua vita, in condizioni sociali date, acquista un senso»
[p. 14]. Leggere la biografia scritta da Müller-Doohm significa dunque
scoprire come i diversi piani della vita di Adorno, privata e pubblica, siano
confluiti nel tentativo di ridare voce a quello che egli chiamava, pensando
all’eredità lasciatagli dal suo amico Walter Benjamin, «ciò
che è rimasto per via» [T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni
della vita offesa, Einaudi, Torino 1979, p. 178]. |