Pensare il cosmopolitismo, si sa, non è facile. Non è facile
perché il suo concepimento risulta posto in una netta – ed apparentemente
ineludibile – alternativa: pensare, da un lato, un diritto internazionale
con forza assolutamente cogente, affermare, dall’altro, l’impossibilità
di un diritto internazionale se non in termini filantropici. Secondo l’espressione
di Mario Reale, autore della Prefazione al libro in questione [p. 11],
“il pensoso pacifismo” di Kant “ed il suo complesso pacifismo”
non si lascia ridurre a quell’alternativa bensì entro la sospensione
di quest’alternativa pensa la complessità del problema cosmopolitico.
Per la sua intrinseca ed attenta complessità il tentativo kantiano di
fissare concettualmente il cosmopolitismo rivela, all’interprete, una
difficoltà ulteriore, quella di fissare in uno studio equilibrato le
molteplici direzioni in cui si orienta il pensiero politico di Kant, “la
ricchezza di piani di cui si compone” [M. Reale, p. 13]. Pensare a fondo
il complesso tentativo kantiano implica allora sviluppare l’analisi di
un tema teorico ben definito – il cosmopolitismo – secondo una molteplicità
organica ed equilibrata di orientamenti e direzioni d’interrogazione.
Il libro in questione dimostra senz’altro equilibrio, cioè la coscienza
della difficoltà del problema e della profondità con cui Kant
tratta il cosmopolitismo, quei fattori che, ormai un secolo fa, portarono il
F. Meinecke di Weltbürgertum und Nationalstaat a stendere un cosciente
silenzio sulla posizione kantiana. A differenza di quest’accortezza, dettata
dalla “vera” frequentazione di concetti filosofico-politici, voci
più stridule, e per nulla avvicinabili a quella di Kant, vi hanno scorto,
con vanaglorioso astio e assenza di autocontrollo critico, la fonte perniciosa
del pacifismo contemporaneo. Oriana fallaci, nel libro “La forza della
ragione”, tanto lontana da essa quanto se ne vorrebbe dimostrare
depositaria, definisce il pensiero politico di Zum Ewigen Frieden “pacifismo
a senso unico” [Rizzoli International, New York, 2003, p. 21]. Più
attenta ad equivocare il suo male fisico con il male morale dell’occidente,
ciò che ritiene erroneamente la forza del suo odio con la forza della
ragione, la Fallaci non si avvede viceversa della problematicità con
cui Kant pensa l’estensione analogica dello schema giuridico-politico
ad un preteso (possibile?) ius cosmopoliticum.
A questo tema – alla problematicità del concepimento di un “weltbürgerliches
Ganze”, un tutto cosmopolitico secondo lo schema del diritto statuale
– è dedicato il terzo capitolo del libro della Taraborelli. L’Autrice
riconosce (meritoriamente) come, «alla luce della filosofia di Kant»,
il «fine ultimo del diritto kantiano non possa consistere nell’istituzione
di un unico Stato mondiale» e come, invece, «quest’ultimo
debba restare solo un’idea regolativa dell’agire politico»
[p. 24]. L’istituzione di un “superstato” – vale a dire
la risoluzione dell’alternativa nel senso di un’estensione univoca
dello schema giuridico – «implicherebbe», per Kant, «l’erosione
totale della sovranità dei singoli stati». Il problema sta, infatti,
nel concepire lo status dello ius nel plesso ius cosmopoliticum
come ius gentium. Se «la costituzione cosmopolitica corrisponde
[…] alla costituzione giuridica perfetta» – che supera il
livello elementare del “diritto di visita” – una costituzione
in cui «il diritto è perentorio e il potere non è negli
uomini ma nelle leggi» [p.120]; se, inoltre, questa costituzione è
assimilata da Kant alla cosa in sé, se cioè da un punto di vista
giuridico ha lo statuto di un’idea che è anche principio regolativo,
si capisce in che senso il valore regolativo di quella costituzione prefiguri
una terza possibilità al di là dell’alternativa. In questo
senso il pensamento “giuridico” del problema cosmopolitico non può
non integrarsi ad un orientamento d’interrogazione che ne concepisca lo
statuto diacronico-teleologico.
Non a caso, sapientemente, l’Autrice sviluppa la compiuta analisi di
quest’orientamento a monte del problema giuridico tout court,
cioè nel primo capitolo del suo lavoro, in cui viene preso in considerazione
il testo dell’‘84, le “Idee di una storia universale dal
punto di vista cosmopolitico”, il terminus a quo critico
della riflessione sul cosmopolitismo. Il progresso del genere umano, quel progresso
che riconosce come focus imaginarius proprio quella costituzione cosmopolitica
– e che la riconosce, allo stesso tempo, come concretamente inattingibile
nella sua integralità – non può che sollevare il problema
dell’intrinseca specularità tra quella costituzione e la Bestimmung
der Menschen (come Menschengattung). La weltbürgerliche
Absicht a partire dalla quale si guarda alla storia universale del genere
umano è appunto quella prospettiva, quell’esperire prospettico
il problema della storia come convergente verso il focus imaginarius
come Ganz cosmopolitico. Nel senso di una storia il cui orientamento
non può essere determinato ma solo pensato teleologicamente, interviene
il problema di quella modalità del giudizio, quell’atteggiamento
della Urteilskraft che permette di pensare quella ben definita convergenza.
Sarà allora la reflektierende Urteilkraft a dettare quella teleologia
che non può non fare da sfondo al pensiero del cosmopolitismo, quella
teleologia che non può prefigurare l’attingimento asintotico della
Bestimmung se non al genere umano nella sua interezza (come Endzweck)
e non alla singolarità.
Il diritto diviene, allora, «il filo conduttore per interpretare e giudicare
la storia», come un metro per giudicare il progresso civile dell’uomo.
L’approssimarsi teleologico del genere umano al fine può essere
interpretato misurando la reciproca approssimazione tra legalità giuridica
e moralità, cioè la progressiva negazione (compito dell’uomo)
di quella distanza – fondamentale e costitutiva per Kant – tra legalità
e moralità. Quell’approssimazione teleologica inizia a manifestarsi
come un disegno ben definito, cioè può sviluppare quei “Keime”,
quei germi celati nella stessa costituzione teleologica della razionalità
umana, solo nel momento in cui la stessa ragione “progetti”
attivamente e coscientemente la sua teleologia pratica. L’elaborazione
di un “progetto per la pace perpetua”, in quanto atto filosofico-razionale,
definisce quella manifestazione: «il piano nascosto della natura che,
nell’Idea, veniva solo presupposto, diventa un progetto politico da realizzarsi
e, frutto di una riflessione che […] ha impegnato il filosofo già
a partire dagli anni ’70, viene pubblicato nel ‘95» [p. 69].
Nel quadro che si definisce, almeno geneticamente, in Zum ewigen Frieden
(come terminus ad quem), possono venir letti tutti quei problemi di
filosofia politica – tra i quali l’equivocità concettuale
tra Volkerbund e Volkerstaat, approfondita dall’Autrice
– che ineriscono ad un progetto filosofico aperto come il concepimento
del cosmopolitismo. Solo nella cosciente e difficile articolazione di questi
problemi, può emergere quell’aspetto umanistico celato nelle trame
del discorso cosmopolitico, come co-implicazione di un tema teleologico, di
uno giuridico e di un tema etico fondamentale. Il problema del diritto di visita
– che andrebbe più approfondito, soprattutto nella chiassosa discussione
della/sulla contemporaneità – e la connessione essenziale che questo
rivela con un tema antropologico fondamentale come quello del sensus communis,
mostra come al di là delle trame del cosmopolitismo giaccia una necessità
di pensiero ulteriore. Questa consiste nel pensare a fondo – nel pensamento
del cosmopolitismo – la necessità dello sviluppo di un sentimento
di compartecipazione (di un Teilnehmungs-gefühl) alla vicenda
umana.
Il sentimento di compartecipazione umana, quello con cui si chiude la Critica
della facoltà estetica di giudizio, non può infatti non giacere
a fondamento della progressiva erosione della distanza tra legalità e
moralità che, pensata, in senso comunitario, rimanda per molti aspetti
alla comunità etica della Religione entro i limiti della sola ragione.
Così proprio il male radicale, come opacità della Gesinnung,
come inattingibilità del fondamento soggettivo delle massime, inscritto
nel quadro teleologico, non rappresenta un impedimento a, non «esclude»
ma piuttosto «esige il divenire morale dell’uomo» [p. 26].
Il libro di A. Taraborelli organizza in modo compiuto il complesso materiale
del problema cosmopolitico in Kant, sapendosi (kantianamente e goethianamente)
limitare [cfr. Reale, p. 12], cioè non volendosi sporgere al di là
del già complesso quadro problematico. Sembra tuttavia necessario chiedersi
se la delimitazione eccessiva non precluda, in fondo, alla comprensione –
o semplicemente all’esplicitazione – di quell’orizzonte in
cui il problema si radica (e non può non radicarsi). Si allude con ciò
alla marcata, radicale – seppur non sempre percettibile – connessione
del tema politico (e cosmopolitico!) con i caratteri fondamentali del pensiero
trascendentale di Kant, alla connessione radicale tra il processo di scardinamento
del mondo metafisico e la possibilità di sintetizzare nel problema cosmopolitico
uno dei tratti essenziali del pensiero dell’Aufklärung.
Interrogarsi sul cosmopolitismo, interrogarsi sulla possibilità di un
pensiero o di un progetto razionale cosmopolitico, non sembra possibile al di
là della posizione della domanda su quale concetto di kosmos
inquadri il problema cosmo-politico. Perché, ad esempio, Kant può
parlare di storia universale dal punto di vista cosmopolitico quando
neppure un secolo prima Leibniz s’interrogava ancora sull’unità
confessionale della Chiesa? Tutto ciò dipenderebbe solo dalla
contingenza storica in cui quei due titani del pensiero recepiscono, filtrano
e rendono i contesti ideologici in cui si trovano a dialogare? Dipende solo
da questo oppure dipende piuttosto dalla svolta quanto mai radicale che si sintetizza
localmente in quel crollo del mondo metafisico che è la Dialettica
trascendentale? Non sembra plausibile la tesi secondo cui il problema cosmopolitico
trovi una siffatta trattazione in Kant solo perché problema attuale (e
lo stesso vale per l’interrogazione leibniziana). L’interrogazione
radicale della soggettività posta in atto nella Critica della ragion
pura rende possibile il pensiero “critico” del cosmopolitismo
proprio perché, definendo un integralmente nuovo senso dell’esperire
del soggetto, definisce anche quel kosmos in cui pensare una politeia
come ius cosmopoliticum.
Il senso dell’esperire, come esperienza di un orizzonte sempre ampliabile,
sempre ulteriormente espansibile e comprensibile e, in ogni caso, il senso stesso
di quell’apertura all’orizzonte, non è affatto, non è
più, non può costitutivamente essere la chiusura ontologica della
monade. Sono tutte queste delle banalità? Non propriamente, se si considera
che nella definizione dell’esperienza come esperienza di un orizzonte,
al di là della sua consistenza teoretica ultima, si declinerà
sensu practico, come auto-oggettivazione di un soggetto libero nell’orizzonte
degli uomini, intuito nella Tipica (come test di universalizzazione) e scoperto
successivamente come sensus communis, dimensione intersoggettiva, nella
Critica della facoltà di giudizio. Entrare in questioni teoretiche
come quella di un assolutamente nuovo paradigma dell’esperienza, che poi
si declina nei vari modi di relazionarsi del soggetto al proprio esperito,
non sembra allora superfluo, ma essenziale. E’ tanto essenziale nella
misura in cui per pensare uno stato cosmopolitico di uomini (e non di stati)
è necessario pensare prima un concetto interamente nuovo di uomo, quello
il cui sapere non può attingere all’incondizionato e quello, soprattutto,
il cui fare razionale, il cui auto-oggettivarsi al di là di un sistema
onto-teo-logico detta la possibilità del pensiero stesso di una diacronia
teleologica umana. Nello scritto Il conflitto delle facoltà,
uno scritto fortemente in linea con l’assunto illuministico di auto-oggettivazione
del sapere, Kant mostra in che modo quel processo svolto dalla Kritik der
reinen Vernunft sia solo in modo derivato inerente alla pura teoresi e
come, invece, sia essenzialmente un’interrogazione antropologica fondamentale:
«ho imparato dalla Critica della ragion pura che la filosofia
non è una scienza delle rappresentazioni, dei concetti e delle idee,
o una scienza di tutte le scienze, o qualcos’altro di simile; ma è
una scienza dell’uomo, del suo rappresentare, pensare e agire. Essa deve
presentare l’uomo in tutte le sue componenti, come egli è e come
deve essere, cioè tanto secondo le sue determinazioni naturali quanto
anche secondo la condizione della sua moralità e della sua libertà.
Ora, qui la vecchia filosofia [scil. la prospettiva monadologica onto-teo-logica]
assegnò all’uomo un posto completamente errato nel mondo, facendone
una macchina in esso che, in quanto tale, doveva essere completamente dipendente
dal mondo o dalle cose esteriori e dalla circostanze; essa quindi rendeva l’uomo
una parte quasi solo passiva del mondo” [Appendice alla Prima
Parte de Il conflitto delle facoltà, in I. Kant, Scritti
di filosofia della religione, p. 277].
A conferma del fatto che, per comprendere il problema cosmopolitico, si debba
necessariamente penetrare negli anfratti teoretici più angusti del pensiero
trascendentale, possiamo citare due esempi, due casi illuminanti: l’analogia
della terrà sferica, solo ripresa in Zum ewigen Frieden e l’incipit
dell’Idea, coeva alla Fondazione della metafisica dei costumi.
Proprio perché il senso del concetto cosmopolitico può essere
attinto solo codificando (per quanto possibile) quell’atto radicale di
ri-definizione del senso dell’esperienza (come orizzonte) che è
la K.r.V., l’immagine della terra sferica non è solo un
mot d’esprit della Pace perpetua, ma una ripresa estremamente
meditata del passo della Critica della ragion pura in cui si parla
proprio di orizzonte [K.r.V. B 787 – A 759]. La coscienza della
natura sferica della superficie terrestre implica che l’osservatore, e
la riflessione teorica, si siano via via elevati dal punto di vista naturale
e che abbiano elevato il loro punto di considerazione rispetto alla semplice
esperienza. Solo da questo punto di vista, da questa Absicht si può
comprendere in che modo la natura stessa dell’esperire come orizzonte
via via ampliabile incontra sempre un incremento spaziale di fronte a quelli
che di volta in volta sono i suoi limiti. Questa non è solo una metafora,
un immagine ad hoc, perché risulta verificata anche nella sua
declinazione pratica, laddove il Privaturteil dell’appetente
venga trasposto nell’universale pretesa dell’agente morale, cioè
laddove vengano sospesi i limiti contingenti dell’autooggettivazione dell’uomo
nell’agire. Lo stesso vale dal punto di vista cosmo-politico: il rendersi
conto della terra sferica significa, dal punto di vista teorico, aver elevato
il proprio punto di considerazione rispetto alla limitatezza del quid facti,
della contingenza politica immanente. Ma sospendere le limitazioni parziali,
inerenti a situazioni politico-sociali del tutto localizzate, si rende possibile
solo nel momento in cui l’auto-oggettivarsi della ragione umana nel sapere
si sia resa essa stessa agente: l’Aufklärung. In questo
senso Kant pensa in modo fortissimo il parallelismo tra l’auto-oggettivarsi
dell’uomo nell’agire pratico e, in senso storico-comunitario, l’auto-oggettivarsi
della ragione come illuminismo, come Aufklärung.
In questo punto teoretico densissimo si può capire in che senso il pensiero
critico non possa non sposare problema cosmopolitico come orizzonte di auto-oggettivazione
della sua stessa prassi filosofica, come toglimento di quelle differenze locali,
contingenti, storico-cultuali che costituiscono la fonte del fanatismo. L’Aufklärung,
come massima da trasmettere da una generazione all’altra, diviene l’anello
di connessione teoretica tra il pensiero critico e il concepimento del problema
cosmopolitico, non restando solo un clima culturale da cui Kant filia passivamente
il problema in questione. Ma alla base di questa giace proprio quel crollo del
mondo metafisico, quella definizione dell’esperienza come orizzonte che
rende possibile pensare l’auto-oggettivazione dell’uomo (e della
ragione critica) nella libertà (e nella libertà del pensare):
sarà proprio la libertà, infatti, a dettare l’incipit,
l’orientamento complessivo dell’Idea di una storia universale
dal punto di vista cosmopolitico. Solo perché gli uomini esperiscono
in un orizzonte, solo perché in esso ampliano i limiti contingenti del
loro sapere, del loro esperire sociale e del loro agire pratico, solo perché
l’uomo in sé è libero come auto-posizione, Selbstsetzung,
l’umanità può (solo perché deve) pensare sé
stessa in termini cosmopolitici.
In questo senso il chiasma – assai eloquente – posto a sottotitolo
del testo, “dal cittadino del mondo al mondo dei cittadini”, seppur
non sufficientemente esplicitato, lascia pensare, in senso retrospettivo e prospettico:
in senso retrospettivo la rivoluzione antropologica fondamentale che, nella
Critica della ragion pura, rende il sostantivo Weltbürger
un aggettivo, cioè una qualità essenziale da pensare in relazione
al soggetto (e, in grande, all’umanità); in senso prospettico,
quella riflessione che non può non riconoscere nel concetto di mondo
degli uomini un orizzonte di auto-emancipazione dell’uomo attraverso la
ragione.
Proprio per questo testi che iniziano a pensare in modo compiuto (anche dal
punto di vista filologico) il problema cosmopolitico con Kant non possono
non essere graditi.
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