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Angela Taraborrelli, Cosmopolitismo. Saggio su Kant. Dal cittadino del mondo al mondo dei cittadini.
Asterios, 2005

di Fausto Fraisopi

Pensare il cosmopolitismo, si sa, non è facile. Non è facile perché il suo concepimento risulta posto in una netta – ed apparentemente ineludibile – alternativa: pensare, da un lato, un diritto internazionale con forza assolutamente cogente, affermare, dall’altro, l’impossibilità di un diritto internazionale se non in termini filantropici. Secondo l’espressione di Mario Reale, autore della Prefazione al libro in questione [p. 11], “il pensoso pacifismo” di Kant “ed il suo complesso pacifismo” non si lascia ridurre a quell’alternativa bensì entro la sospensione di quest’alternativa pensa la complessità del problema cosmopolitico.

Per la sua intrinseca ed attenta complessità il tentativo kantiano di fissare concettualmente il cosmopolitismo rivela, all’interprete, una difficoltà ulteriore, quella di fissare in uno studio equilibrato le molteplici direzioni in cui si orienta il pensiero politico di Kant, “la ricchezza di piani di cui si compone” [M. Reale, p. 13]. Pensare a fondo il complesso tentativo kantiano implica allora sviluppare l’analisi di un tema teorico ben definito – il cosmopolitismo – secondo una molteplicità organica ed equilibrata di orientamenti e direzioni d’interrogazione. Il libro in questione dimostra senz’altro equilibrio, cioè la coscienza della difficoltà del problema e della profondità con cui Kant tratta il cosmopolitismo, quei fattori che, ormai un secolo fa, portarono il F. Meinecke di Weltbürgertum und Nationalstaat a stendere un cosciente silenzio sulla posizione kantiana. A differenza di quest’accortezza, dettata dalla “vera” frequentazione di concetti filosofico-politici, voci più stridule, e per nulla avvicinabili a quella di Kant, vi hanno scorto, con vanaglorioso astio e assenza di autocontrollo critico, la fonte perniciosa del pacifismo contemporaneo. Oriana fallaci, nel libro “La forza della ragione”, tanto lontana da essa quanto se ne vorrebbe dimostrare depositaria, definisce il pensiero politico di Zum Ewigen Frieden “pacifismo a senso unico” [Rizzoli International, New York, 2003, p. 21]. Più attenta ad equivocare il suo male fisico con il male morale dell’occidente, ciò che ritiene erroneamente la forza del suo odio con la forza della ragione, la Fallaci non si avvede viceversa della problematicità con cui Kant pensa l’estensione analogica dello schema giuridico-politico ad un preteso (possibile?) ius cosmopoliticum.

A questo tema – alla problematicità del concepimento di un “weltbürgerliches Ganze”, un tutto cosmopolitico secondo lo schema del diritto statuale – è dedicato il terzo capitolo del libro della Taraborelli. L’Autrice riconosce (meritoriamente) come, «alla luce della filosofia di Kant», il «fine ultimo del diritto kantiano non possa consistere nell’istituzione di un unico Stato mondiale» e come, invece, «quest’ultimo debba restare solo un’idea regolativa dell’agire politico» [p. 24]. L’istituzione di un “superstato” – vale a dire la risoluzione dell’alternativa nel senso di un’estensione univoca dello schema giuridico – «implicherebbe», per Kant, «l’erosione totale della sovranità dei singoli stati». Il problema sta, infatti, nel concepire lo status dello ius nel plesso ius cosmopoliticum come ius gentium. Se «la costituzione cosmopolitica corrisponde […] alla costituzione giuridica perfetta» – che supera il livello elementare del “diritto di visita” – una costituzione in cui «il diritto è perentorio e il potere non è negli uomini ma nelle leggi» [p.120]; se, inoltre, questa costituzione è assimilata da Kant alla cosa in sé, se cioè da un punto di vista giuridico ha lo statuto di un’idea che è anche principio regolativo, si capisce in che senso il valore regolativo di quella costituzione prefiguri una terza possibilità al di là dell’alternativa. In questo senso il pensamento “giuridico” del problema cosmopolitico non può non integrarsi ad un orientamento d’interrogazione che ne concepisca lo statuto diacronico-teleologico.

Non a caso, sapientemente, l’Autrice sviluppa la compiuta analisi di quest’orientamento a monte del problema giuridico tout court, cioè nel primo capitolo del suo lavoro, in cui viene preso in considerazione il testo dell’‘84, le “Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico”, il terminus a quo critico della riflessione sul cosmopolitismo. Il progresso del genere umano, quel progresso che riconosce come focus imaginarius proprio quella costituzione cosmopolitica – e che la riconosce, allo stesso tempo, come concretamente inattingibile nella sua integralità – non può che sollevare il problema dell’intrinseca specularità tra quella costituzione e la Bestimmung der Menschen (come Menschengattung). La weltbürgerliche Absicht a partire dalla quale si guarda alla storia universale del genere umano è appunto quella prospettiva, quell’esperire prospettico il problema della storia come convergente verso il focus imaginarius come Ganz cosmopolitico. Nel senso di una storia il cui orientamento non può essere determinato ma solo pensato teleologicamente, interviene il problema di quella modalità del giudizio, quell’atteggiamento della Urteilskraft che permette di pensare quella ben definita convergenza. Sarà allora la reflektierende Urteilkraft a dettare quella teleologia che non può non fare da sfondo al pensiero del cosmopolitismo, quella teleologia che non può prefigurare l’attingimento asintotico della Bestimmung se non al genere umano nella sua interezza (come Endzweck) e non alla singolarità.

Il diritto diviene, allora, «il filo conduttore per interpretare e giudicare la storia», come un metro per giudicare il progresso civile dell’uomo. L’approssimarsi teleologico del genere umano al fine può essere interpretato misurando la reciproca approssimazione tra legalità giuridica e moralità, cioè la progressiva negazione (compito dell’uomo) di quella distanza – fondamentale e costitutiva per Kant – tra legalità e moralità. Quell’approssimazione teleologica inizia a manifestarsi come un disegno ben definito, cioè può sviluppare quei “Keime”, quei germi celati nella stessa costituzione teleologica della razionalità umana, solo nel momento in cui la stessa ragione “progetti” attivamente e coscientemente la sua teleologia pratica. L’elaborazione di un “progetto per la pace perpetua”, in quanto atto filosofico-razionale, definisce quella manifestazione: «il piano nascosto della natura che, nell’Idea, veniva solo presupposto, diventa un progetto politico da realizzarsi e, frutto di una riflessione che […] ha impegnato il filosofo già a partire dagli anni ’70, viene pubblicato nel ‘95» [p. 69]. Nel quadro che si definisce, almeno geneticamente, in Zum ewigen Frieden (come terminus ad quem), possono venir letti tutti quei problemi di filosofia politica – tra i quali l’equivocità concettuale tra Volkerbund e Volkerstaat, approfondita dall’Autrice – che ineriscono ad un progetto filosofico aperto come il concepimento del cosmopolitismo. Solo nella cosciente e difficile articolazione di questi problemi, può emergere quell’aspetto umanistico celato nelle trame del discorso cosmopolitico, come co-implicazione di un tema teleologico, di uno giuridico e di un tema etico fondamentale. Il problema del diritto di visita – che andrebbe più approfondito, soprattutto nella chiassosa discussione della/sulla contemporaneità – e la connessione essenziale che questo rivela con un tema antropologico fondamentale come quello del sensus communis, mostra come al di là delle trame del cosmopolitismo giaccia una necessità di pensiero ulteriore. Questa consiste nel pensare a fondo – nel pensamento del cosmopolitismo – la necessità dello sviluppo di un sentimento di compartecipazione (di un Teilnehmungs-gefühl) alla vicenda umana.
Il sentimento di compartecipazione umana, quello con cui si chiude la Critica della facoltà estetica di giudizio, non può infatti non giacere a fondamento della progressiva erosione della distanza tra legalità e moralità che, pensata, in senso comunitario, rimanda per molti aspetti alla comunità etica della Religione entro i limiti della sola ragione. Così proprio il male radicale, come opacità della Gesinnung, come inattingibilità del fondamento soggettivo delle massime, inscritto nel quadro teleologico, non rappresenta un impedimento a, non «esclude» ma piuttosto «esige il divenire morale dell’uomo» [p. 26].

Il libro di A. Taraborelli organizza in modo compiuto il complesso materiale del problema cosmopolitico in Kant, sapendosi (kantianamente e goethianamente) limitare [cfr. Reale, p. 12], cioè non volendosi sporgere al di là del già complesso quadro problematico. Sembra tuttavia necessario chiedersi se la delimitazione eccessiva non precluda, in fondo, alla comprensione – o semplicemente all’esplicitazione – di quell’orizzonte in cui il problema si radica (e non può non radicarsi). Si allude con ciò alla marcata, radicale – seppur non sempre percettibile – connessione del tema politico (e cosmopolitico!) con i caratteri fondamentali del pensiero trascendentale di Kant, alla connessione radicale tra il processo di scardinamento del mondo metafisico e la possibilità di sintetizzare nel problema cosmopolitico uno dei tratti essenziali del pensiero dell’Aufklärung. Interrogarsi sul cosmopolitismo, interrogarsi sulla possibilità di un pensiero o di un progetto razionale cosmopolitico, non sembra possibile al di là della posizione della domanda su quale concetto di kosmos inquadri il problema cosmo-politico. Perché, ad esempio, Kant può parlare di storia universale dal punto di vista cosmopolitico quando neppure un secolo prima Leibniz s’interrogava ancora sull’unità confessionale della Chiesa? Tutto ciò dipenderebbe solo dalla contingenza storica in cui quei due titani del pensiero recepiscono, filtrano e rendono i contesti ideologici in cui si trovano a dialogare? Dipende solo da questo oppure dipende piuttosto dalla svolta quanto mai radicale che si sintetizza localmente in quel crollo del mondo metafisico che è la Dialettica trascendentale? Non sembra plausibile la tesi secondo cui il problema cosmopolitico trovi una siffatta trattazione in Kant solo perché problema attuale (e lo stesso vale per l’interrogazione leibniziana). L’interrogazione radicale della soggettività posta in atto nella Critica della ragion pura rende possibile il pensiero “critico” del cosmopolitismo proprio perché, definendo un integralmente nuovo senso dell’esperire del soggetto, definisce anche quel kosmos in cui pensare una politeia come ius cosmopoliticum.

Il senso dell’esperire, come esperienza di un orizzonte sempre ampliabile, sempre ulteriormente espansibile e comprensibile e, in ogni caso, il senso stesso di quell’apertura all’orizzonte, non è affatto, non è più, non può costitutivamente essere la chiusura ontologica della monade. Sono tutte queste delle banalità? Non propriamente, se si considera che nella definizione dell’esperienza come esperienza di un orizzonte, al di là della sua consistenza teoretica ultima, si declinerà sensu practico, come auto-oggettivazione di un soggetto libero nell’orizzonte degli uomini, intuito nella Tipica (come test di universalizzazione) e scoperto successivamente come sensus communis, dimensione intersoggettiva, nella Critica della facoltà di giudizio. Entrare in questioni teoretiche come quella di un assolutamente nuovo paradigma dell’esperienza, che poi si declina nei vari modi di relazionarsi del soggetto al proprio esperito, non sembra allora superfluo, ma essenziale. E’ tanto essenziale nella misura in cui per pensare uno stato cosmopolitico di uomini (e non di stati) è necessario pensare prima un concetto interamente nuovo di uomo, quello il cui sapere non può attingere all’incondizionato e quello, soprattutto, il cui fare razionale, il cui auto-oggettivarsi al di là di un sistema onto-teo-logico detta la possibilità del pensiero stesso di una diacronia teleologica umana. Nello scritto Il conflitto delle facoltà, uno scritto fortemente in linea con l’assunto illuministico di auto-oggettivazione del sapere, Kant mostra in che modo quel processo svolto dalla Kritik der reinen Vernunft sia solo in modo derivato inerente alla pura teoresi e come, invece, sia essenzialmente un’interrogazione antropologica fondamentale: «ho imparato dalla Critica della ragion pura che la filosofia non è una scienza delle rappresentazioni, dei concetti e delle idee, o una scienza di tutte le scienze, o qualcos’altro di simile; ma è una scienza dell’uomo, del suo rappresentare, pensare e agire. Essa deve presentare l’uomo in tutte le sue componenti, come egli è e come deve essere, cioè tanto secondo le sue determinazioni naturali quanto anche secondo la condizione della sua moralità e della sua libertà. Ora, qui la vecchia filosofia [scil. la prospettiva monadologica onto-teo-logica] assegnò all’uomo un posto completamente errato nel mondo, facendone una macchina in esso che, in quanto tale, doveva essere completamente dipendente dal mondo o dalle cose esteriori e dalla circostanze; essa quindi rendeva l’uomo una parte quasi solo passiva del mondo” [Appendice alla Prima Parte de Il conflitto delle facoltà, in I. Kant, Scritti di filosofia della religione, p. 277].

A conferma del fatto che, per comprendere il problema cosmopolitico, si debba necessariamente penetrare negli anfratti teoretici più angusti del pensiero trascendentale, possiamo citare due esempi, due casi illuminanti: l’analogia della terrà sferica, solo ripresa in Zum ewigen Frieden e l’incipit dell’Idea, coeva alla Fondazione della metafisica dei costumi. Proprio perché il senso del concetto cosmopolitico può essere attinto solo codificando (per quanto possibile) quell’atto radicale di ri-definizione del senso dell’esperienza (come orizzonte) che è la K.r.V., l’immagine della terra sferica non è solo un mot d’esprit della Pace perpetua, ma una ripresa estremamente meditata del passo della Critica della ragion pura in cui si parla proprio di orizzonte [K.r.V. B 787 – A 759]. La coscienza della natura sferica della superficie terrestre implica che l’osservatore, e la riflessione teorica, si siano via via elevati dal punto di vista naturale e che abbiano elevato il loro punto di considerazione rispetto alla semplice esperienza. Solo da questo punto di vista, da questa Absicht si può comprendere in che modo la natura stessa dell’esperire come orizzonte via via ampliabile incontra sempre un incremento spaziale di fronte a quelli che di volta in volta sono i suoi limiti. Questa non è solo una metafora, un immagine ad hoc, perché risulta verificata anche nella sua declinazione pratica, laddove il Privaturteil dell’appetente venga trasposto nell’universale pretesa dell’agente morale, cioè laddove vengano sospesi i limiti contingenti dell’autooggettivazione dell’uomo nell’agire. Lo stesso vale dal punto di vista cosmo-politico: il rendersi conto della terra sferica significa, dal punto di vista teorico, aver elevato il proprio punto di considerazione rispetto alla limitatezza del quid facti, della contingenza politica immanente. Ma sospendere le limitazioni parziali, inerenti a situazioni politico-sociali del tutto localizzate, si rende possibile solo nel momento in cui l’auto-oggettivarsi della ragione umana nel sapere si sia resa essa stessa agente: l’Aufklärung. In questo senso Kant pensa in modo fortissimo il parallelismo tra l’auto-oggettivarsi dell’uomo nell’agire pratico e, in senso storico-comunitario, l’auto-oggettivarsi della ragione come illuminismo, come Aufklärung.
In questo punto teoretico densissimo si può capire in che senso il pensiero critico non possa non sposare problema cosmopolitico come orizzonte di auto-oggettivazione della sua stessa prassi filosofica, come toglimento di quelle differenze locali, contingenti, storico-cultuali che costituiscono la fonte del fanatismo. L’Aufklärung, come massima da trasmettere da una generazione all’altra, diviene l’anello di connessione teoretica tra il pensiero critico e il concepimento del problema cosmopolitico, non restando solo un clima culturale da cui Kant filia passivamente il problema in questione. Ma alla base di questa giace proprio quel crollo del mondo metafisico, quella definizione dell’esperienza come orizzonte che rende possibile pensare l’auto-oggettivazione dell’uomo (e della ragione critica) nella libertà (e nella libertà del pensare): sarà proprio la libertà, infatti, a dettare l’incipit, l’orientamento complessivo dell’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico. Solo perché gli uomini esperiscono in un orizzonte, solo perché in esso ampliano i limiti contingenti del loro sapere, del loro esperire sociale e del loro agire pratico, solo perché l’uomo in sé è libero come auto-posizione, Selbstsetzung, l’umanità può (solo perché deve) pensare sé stessa in termini cosmopolitici.

In questo senso il chiasma – assai eloquente – posto a sottotitolo del testo, “dal cittadino del mondo al mondo dei cittadini”, seppur non sufficientemente esplicitato, lascia pensare, in senso retrospettivo e prospettico: in senso retrospettivo la rivoluzione antropologica fondamentale che, nella Critica della ragion pura, rende il sostantivo Weltbürger un aggettivo, cioè una qualità essenziale da pensare in relazione al soggetto (e, in grande, all’umanità); in senso prospettico, quella riflessione che non può non riconoscere nel concetto di mondo degli uomini un orizzonte di auto-emancipazione dell’uomo attraverso la ragione.
Proprio per questo testi che iniziano a pensare in modo compiuto (anche dal punto di vista filologico) il problema cosmopolitico con Kant non possono non essere graditi.


PUBBLICATO IL : 26-03-2005
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