Ogni esilio, nella sua densa carica d’ insensatezza, dirige verso la
propria intimità. Camus diceva: «L’infelicità più
grande dell’ esiliato, consiste nell’avere una memoria inutile»;
dopotutto, riflettendoci, non è proprio così. La cifra destrutturalizzante
di un confino si amalgama di necessità con la vita, giungendo ad esecrarla
o celebrarla. Toccare con mano la “potenza del nulla” connota una
nuova morfologia delle passioni, priorità, certezze; lo spirito entra
in lotta, il buio esistenziale cerca radici, ma talvolta una materia ancor più
magmatica – che lo si chiami pathos, Dio, verità, è questione
ben poco importante – estroflette le membra, per donare bellezza.
Ogni bellezza sarebbe irriconoscibile senza il brutto, l’informe,
il dionisiaco.
Così, Dall’esilio di Franco Rella presenta un vasto raggio
di nomi noti, dai moderni Proust e Kafka ai postmoderni Coppola e Morrison,
che hanno scandagliato l’orrore. Il laccio che avvince il pensiero estetico,
omogeneo pur nella sua forma semi-aforistica, è la nudità.
Ma quale nudità? Quella violata, d’elezione, sbandierata, combattuta,
mortificata? No, di certo. E’ la nudità del soggetto, dell’uomo,
nella sua spoliazione, impaurito di sé, disgregato nell’individuatio,
abbandonato ad ogni illusione totalizzante – Ich denke, Geist, Dasein.
“Solo sul cuore della terra”, come un elemento di contingenza alla
stregua della pietra immota, con l’unicità di essere “trafitto”
dalla variabilità di circostanze.
In ciò, la veglia di Proust all’inizio della Recherche
è un passo in avanti verso lo Jetztsein (“essere-ora”),
che unisce passato e presente. L’inquietante Albertine, annichilita da
ubbie, è lo scarto dal nudo dimesso, al nudo-nulla; mentre la bellezza,
vera protagonista della Recherche, dà unità alla scissione,
creando i presupposti per accettare il terribile.
In Baudelaire, Rella seleziona le istanze che lo vogliono «colui che più
nettamente ha posto il concetto di modernità, non come categoria storica,
ma come categoria filosofica ed ermeneutica, con una chiarezza superiore a quella
di Marx e Nietzsche», grazie agli scritti preparatori della sua opera
mai compiuta, Mio cuore messo a nudo, che «è anche una
confessione, ma è soprattutto testimonianza e pensiero, anzi uno di quei
picchi del pensiero umano, che spingono la riflessione a deviare dal suo corso
abituale per spingersi su nuove vie».
Le vie, però, conducono talvolta in luoghi sinistri che spaesano
(giusta la rettifica che si trova all’interno del volume sul concetto
di Unheimlich elaborato da Freud, tradotto fino a questo momento “perturbante”,
significato troppo psichico rispetto al significato letterale “non di
casa”) ed incanalano l’energia creativa. L’esperienza dei
campi di concentramento di Kertesz ripropone il tema della responsabilità
della scrittura, non come atto purificatorio e politico che declassa il narratore
in scrivano (Schreiber), ma come negazione senza requie, che risveglia
dall’Hystorismus nietzscheano, dall’ «ipertrofia
della memoria che caratterizza la nostra epoca». Con Auschwitz, è
stata messa a nudo la gratuità della violenza, la pornografia
delle perversioni.
Dal dogma massificatorio, che risveglia animalità di rimando, il sesso
riacquista una bestialità incosciente, e Simenon in En cas de malheur
la ghermisce a piene mani, in qualità di thànatos da disvelare,
«scia dell’immondizia che lo occupa e lo interessa. La terribile
normalità di un mondo spaventoso».
La deriva della ragione stanca (Kafka) e sciocca (Flaubert di Bouvard
e Pecuchet), nelle suggestive pagine lirico-saggistiche di Rella, cerca
traduzione con uno sforzo conciliante con le grandi correnti degli ultimi anni:
«Di fronte a questo spaesamento, il pensiero debole, o l’ ermeneutica
infinita di Derrida e dei post -derridiani che provoca uno scivolamento verso
l’ infinito “oltre”, verso un indeterminato altrove-, non
è che una rassicurante retorica, che nega ogni “attrito”,
che nega soprattutto il rischio implicito in ogni pensiero che accetti la dimensione
dell’espatrio. Forse il pensiero dell’esilio non abita più
la filosofia che, da troppo tempo si è lasciata alle spalle ciò
che l’ha generata, ma cerca le sue parole, le sue forme e le sue figure
in altri linguaggi».
Dichiarando, infine:
«[…] la narrazione dà una forma a ciò che non ha
espressione, all’indescrivibile stesso».
Analizzando questi due passi, sembra una contraddizione affiancare una critica
derridiana (a mio avviso, condivisibile), con un rifiuto del pensiero debole.
Ci chiediamo come un andare “oltre l’ interpretazione”, fuori
cioè dall’istituito, possa mancare al compito di favorire “l’atopia”
che enuncia Rella, legandosi con tanta evidenza ad un Lebensgedanke
di matrice estetica. Circoscrivere la filosofia a tecnhe del rimorso
sul suo nostalgico esiliato di dorata clausura, forse è più retorico
di un continuo rinnovarsi ermeneutico o sospensivo.
Dando bando, comunque, ai dissapori scolastici, Dall’esilio capitalizza
le risorse di autori così vari, in una speculazione piacevole e attenta;
carpendo le affinità, si riscopre nella letteratura una filosofia che
“ritorna” alla filosofia; un pensiero che si fa principio e ricade
su di sé; causa iacta causa est. Noi protagonisti di questa
dinamica. Tutti “testimoni” dell’impossbilità di redimere
il non-senso della natura umana. Qualsiasi fisica o metafisica immiserisce col
non intenzionale, le contraddizioni, gli “atti mancati”, se scorge
in essi l’apocalisse (come “rivelazione”).
Nel “processo” alla vita, l’ unico verdetto è il silenzio
colpevole, dell’esilio in una terra straniera.
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