L’“altro” Marx presente nel titolo del libro di Guido Carandini
è certamente il geniale analista dell’“anatomia” e
della interna dinamica della formazione economica e sociale dominata dal Capitale.
E’ un Marx diverso dal Marx definito “utopista”, nel senso
che questa parola ha in quanto viene utilizzata ad indicare esattamente il “non
luogo” di un ordine economico e sociale opposto al capitalismo e al predominio
della proprietà privata dei mezzi di produzione. Il “comunismo”
è il contenuto “utopico”, anzi addirittura “mitico”,
di un sovvertimento radicale del modo di produzione e di scambio basato sul
capitale la cui ineluttabile necessità di “movimento reale”
sovvertitore del presente (si tratta di una famosa espressione di Marx, praticamente
insostituibile per la fulminea icasticità che la connota) consegna alla
storia futura un felice destino sociale segnato dalla fine delle conflittualità
tra le classi, dalla ingiustizia che le si connette in forma di “sfruttamento”del
lavoro salariato, e del degrado (definito “alienazione” nelle opere
giovanili) di tutti gli esseri umani, degli sfruttati come dei loro sfruttatori.
Guido Carandini osserva opportunamente che Marx tende a modulare in termini
di una futurologia essenzialmente disomogenea, nella indicazione del momento
e del modo della frattura, il tempo del crollo politico del sistema del capitale,
un crollo rivoluzionario che dipende dalla sua implosione o esplosione sistemica,
e indica una delle differenza tra quello che chiama il Marx “riformista”
e il Marx rivoluzionario e utopista proprio nella differente prospettiva temporale
del cambiamento radicale su cui volta a volta Marx insiste. Il Marx rivoluzionario
‘sente’ e prevede, anzi “messianicamente” profetizza
l’imminenza del rovesciamento destinato a spazzare il sistema del capitale.
Per il Marx del Manifesto del partito comunista del 1848 l’ora
della fine dal capitale è ormai giunta. Lo “spettro” del
comunismo spaventa le sue vittime perché il loro tempo è finito:
l’ora dello spettro è l’ora della fine. La morte che lo spettro
evoca è la morte del capitale. In questo Marx trova espressione, secondo
Carandini, la tradizione del profetismo ebraico e la sua previsione della conclusione
“escatologica” di una storia attraversata dalla sofferenza del popolo
dei lavoratori di fabbrica catene. Nel Marx “riformista”, invece,
è proprio l’ammissione di un tempo lungo della maturazione delle
condizioni materiali del crollo (la massima espansione delle forze produttive,
via via più limitate, costrette, impedite da rapporti di produzione che
ne soffocano la crescita) quel che consente l’analisi scientifica del
capitalismo, un’analisi non ossessionata dall’ansia profetica di
chi vede e vuole il comunismo qui ed ora, pronto a far affiorare la sua figura
come nella Fenomenologia dello spirito di Hegel dalla fragile scorza
di un presente ormai ‘scaduto’. Ma il tempo lungo di un futuro non
“previsto”, non pienamente necessitato, consente anche di restituite
Marx ad un uso politico “riformistico” che è possibile essenzialmente
a condizione che il profeta della rivoluzione e del comunismo venga separato
dall’analista spietato dell’“antagonismo” e delle contraddizioni
del sistema del capitale.
Il grande interesse, e l’indubbia novità della lettura che Carandini
offre di Marx si colloca esattamente in questo punto. Dopo aver separato il
profeta dallo scienziato, con un un’operazione che suscita qualche perplessità
di cui darò conto, ma che non insidia affatto la compattezza, la serietà
e l’efficacia del progetto di restituire il pensiero di Marx alla politica
di un “riformismo” non liquidatorio di questo stesso pensiero (di
un riformismo assai diverso dalla lettura che mira a deformare il pensiero di
Marx allo scopo di esorcizzarlo e di liberarsene per dar vita ad una prospettiva
teorica e a un progetto politico di gestione del capitalismo del tutto svuotati
della criticità marxiana), Carandini propone di tener ferma una volontà
di approccio al sistema del capitale che presupponga tutta la radicalità
della diagnosi marxiana dell’“antagonismo” basata, come è
noto, sul rilievo della finalità unica dell’accumulazione del profitto,
su questa unica “causa finale” della dinamica produttiva. Da tale
mossa ermeneutica non viene ricavata affatto, tuttavia, anzi viene respinta,
quella che per Marx è la presunta necessità di un esito rivoluzionario
della crisi e dell’instaurazione del comunismo. Carandini è giustamente
convinto che il sistema del capitale vada riconosciuto nella fisionomia conflittuale,
classista ed anarchica che Marx per primo, e insuperabilmente, gli ha attribuito.
Il rilievo della non naturalità, dunque della storica disarmonicità
del sistema del capitale, costituisce la premessa di un “riformismo”
che non intende presentarsi come il mezzo per occultare la realtà del
capitalismo, allo scopo conclamato di non mettere mano a interventi correttivi
radicali. Il riformismo attribuito a Marx da Carandini e gli interventi di politica
economica che ne conseguono, non mirano all’abolizione del capitalismo,
ma al tempo stesso non ne accettano gli squilibri strutturali, come accadrebbe
considerandoli eterni, inevitabili, nel linguaggio marxiano “naturali”.
Così, la parola “riformismo” torna ad acquistare il suo autentico
significato etimologico. Lo spazio concettuale e pratico che gli si apre davanti
è stretto ed impervio. Come si può essere al tempo stesso riformisti
e radicali nel mettere in luce antagonismo e anarchia? Come si convive, governandolo
criticamente, in un sistema che presenta ai nostri occhi costantemente la sua
potenza espansiva apparentemente inesauribile e la fragilità di linee
di frattura e di crisi sempre nuove che proprio l’espansività del
capitale è destinata a far emergere? Il rischio di illusioni e di cadute
è forte, ma, di nuovo con Marx , dobbiamo dire a noi stessi hic Rhodus
et hic salta. La grande illusione semplificatrice della rivoluzione è
vietata ad una analista dal capitale allievo di Marx – nonostante l’“altro”
Marx. L’esercizio della ragione critica e la solidità della istanza
etica che sotteraneamente ci nutre si alleano per sconsigliarci ogni attretramento.
Osserviamo tuttavia che il Marx di Carandini non è solo l’altro
di quel se stesso, duplice, complesso e intimamente incoerente, in cui insieme
al Marx analista sociale ed economista scientifico è compresente anche
il suo volto messianico e rivoluzionario. Questo è certamente il Marx
letteralmente “analizzato”, ossia scomposto da Carandini nelle due
componenti, delle quali – secondo uno schema storiografico ben noto e
assi spesso utilizzato nello studio dell’evoluzione dei pensatori –
soltanto una parte è ancora autenticamente “viva” e ci invita
a pensare, a servirci di quel che sa offrire. Si ricorderà che la distinzione
tra quel che è vivo e quel che non lo è nella filosofia di Hegel
appartiene al rapporto di Benedetto Croce con il suo grande ispiratore tedesco.
Ma si ricorderà soprattutto che è stato lo stesso Marx ad applicare
alla propria evoluzione intellettuale lo schema che distingue quel che doveva
essere messo da parte e abbandonato alla “critica roditrice dei topi”,
da ciò che propriamente atteneva alla sua matura e piena consapevolezza
di materialista della storia, finalmente convinto della essenzialità
dello studio della produzione e della riproduzione economica della società
capitalistica (della sua “struttura”, da cui la “sovrastruttura”
spirituale, giuridica e politica dipendeva integralmente). E, sebbene qui Marx
autorizzasse piuttosto la divisione diacronica del suo pensiero in una fase
giovanile ancora idealistica e permeata di illusioni “politiche”
e nella fase matura, dove, dopo quella che Louis Althusser in anni vicini che
sembrano lontanissimi chiamava “coupure epistémologique”
si apriva lo spazio della “scienza” del Capitale, non c’è
dubbio che la convinzione che in Marx fosse obbligatorio distinguere, magari
nel diverso senso – sincronico piuttosto che diacronico, orizzontale piuttosto
che evolutivo – ossia nel modo del rifiuto dell’utopista profetico
a favore del freddo analista, è rimasta e rimane viva. Il diverso modo
del distinguere ‘due’ Marx nell’unico Marx configura, naturalmente,
in modo a sua volta diverso la fisionomia ideale e la posizione ideologica degli
interpreti. Lo schema della “rottura epistemologica” è stata
fatta propria, fin in anni recenti ed anche da studiosi di fede marxista preoccupati
di salvare la scientificità del Capitale come opera capace di
‘svelare’ la verità del capitalismo e dunque di difendere
la verità non soltanto empirica, non soltanto storico-sociale, dell’analisi
di Marx. Ciò è avvenuto in non pochi casi allo scopo trasparente
che sarebbe legittimo definire ‘soggettivo’, se non psicologico,
di salvaguardare la propria opzione marxista, la propria fede nel comunismo
da ogni sfida teorica e soprattutto storica. Solo il crollo del muro di Berlino
e quel che ne è seguito sembra aver imposto l’insorgere di dubbi
sul comunismo storico che prima del collasso non si presentavano certo con la
stessa cogenza. Allora, lo si ricorderà, l’“etica della convinzione”,
sorda ad ogni appello dell’“etica della responsabilità”
ha trovato in molti marxisti l’agevole via di uscita secondo cui sarebbe
morto il comunismo reale, ma non l’idea stessa del comunismo. E’
facile misurare la distanza che separa questo modo di rapportarsi a Marx dal
procedimento ben altrimenti ‘distintivo’ seguito da Carandini, che
ha fra i suoi principali obiettivi proprio quello di sottrarre alla storia del
capitalismo la necessità dello sbocco in un comunismo colpevolmente (ma
anche inevitabilmente) lasciato da Marx del tutto privo di una qualche connotazione
politico-sociale positiva, che si spingesse a dipingere quel che può
essere edificato oltre la fine della proprietà privata.
Qui si vede bene che il semplice riferirsi alla scientificità del pensiero
Marx non identifica affatto né una unica ed unitaria relazione ad esso,
né un percorso in qualche modo omogeneo della sua possibile riattualizzazione.
Il possibile uso “riformistico” di un Marx del quale si enfatizza
opportunamente – in parte almeno sulla scorta di Normatività
e storia. Marx in discussione, pubblicato da chi scrive nel 2000 presso
Franco Angeli – la scoperta della potenza unificante dell’”astrazione”
propria della modernità capitalistica, e all’opera nella nozione
della potenza autovalorizzantesi del lavoro astratto immanentemente guidato
dal solo fine di cumulare profitto, così come nella nozione (da Marx
respinta come sovrastrutturale ed ingannevole, ma niente affatto sottovalutata)
di un diritto astratto ed universale, depurato da ogni determinazione storica
e perciò capace di far intervenire la legge a difesa del cittadino come
tale – rinvia ad una valorizzazione del capitalismo che si esprime nella
espansione potenzialmente infinita, mondializzata, delle forze produttive e
realizza una unificazione dinamica del mondo che non trova riscontro in altre
epoche e dalla quale sarebbe letteralmente ‘reazionario’ pensare
di poter recedere. In questa prospettiva, il ‘valore di verità’
delle scoperte marxiane viene da un lato sottratta allo sguardo che le coglie
nella prospettiva della fine del capitalismo nel comunismo e, dall’altro,
tale valore di verità viene concepito come un valore scientifico nel
senso specifico che, pur essendo basato (come credo il non filosofo Carandini
ammetterebbe) su alcuni forti assunti filosofici propri sia della ragione dialettica,
sia della ragione ‘economico-critica’, si presenta tuttavia come
volta per volta rivedibile, modificabile. Ossia come adattabile, secondo il
modello che definirei popperiano del procedimento scientifico, ad un uso trasformativo
dell’esistente antagonistico, disarmonico, squilibrato, ma non al suo
seppellimento rivoluzionario. Una analoga differenza distingue, per motivi diversi,
la posizione di Carandini dalle tesi esposte in Italia da Lucio Colletti e più
volte riprese dai suoi epigoni. Ritengo (l’ho già accennato) di
poter proporre una immagine unitaria del pensiero di Marx – o meglio un’immagine
che, mentre impone di svalorizzare la contrapposizione dualistica di utopista
e scienziato – articola la fisionomia unitaria di quel pensiero secondo
la dinamica essenzialmente divergente di una normatività etico-politica
originaria che continua a permanere anche dopo l’affermarsi in Marx della
nozione dell’autosvolgimento di una storia già carica del suo senso
futuro, ossia della nozione che fornisce la struttura concettuale di base della
sua “critica dell’economia politica” e della scomposizione
critica del sistema del capitale. L’istanza normativa permane bensì,
ma risulta tuttavia nettamente obliata, nascosta, “rimossa” secondo
la felice espressione usata da Sheila Benhabib. Etica e storia, normatività
e dinamicità storico-vitale semmai, non o non esattamente, utopia e scienza
sono dunque le due forze, portanti ma divaricate, del pensiero di Marx, secondo
chi scrive. Non sarebbe difficile mostrare la totale assenza dell’utopismo
in un pensiero come quello di Marx che nasce dalla critica filosofica del “non
luogo” nel futuro di una storia escatologica, dato che essa è in
tutti i sensi un capitolo della storia pensiero hegeliano dopo Hegel.
Mi interessa piuttosto tornare a segnalare l’irriducibilità della
posizione di Carandini alle tesi collettiane e postcollettiane. Osserverò
anzitutto che non accade per caso che il libro che Carandini cita in esergo
sia Spectres de Marx di Jacques Derrida del 1993, uno dei tentativi
più geniali di riaprire un dialogo non ideologico con il grande pensatore
di Treviri. Carandini trova con grande acutezza in questo libro – che
per molti aspetti non potrebbe essere più estraneo al suo modo di far
rivivere Marx dopo le convulsioni di un’ideologia dura a morire –
non soltanto, e quasi in apertura, quella immagine del mondo delle merci entro
la struttura dinamica del capitale, come “sensibilmente soprasensibile”
la quale legittima al tempo stesso la centralità della nozione di “astrazione”
e la funzione costruttiva della “spettralità” di Marx, ma
anzitutto la tesi di fondo che anima il suo lavoro. Si tratta della tesi che
Derrida espone scrivendo che il problema non è se sia possibile interrogare
un fantasma, ma se non si debba presupporre in generale un ritorno del fantasma,
affinché gli si possa e debba rivolgere la parola. Che il fantasma sia
tornato e sia ben presente tra noi, non può essere revocato in dubbio
– ferma restando la eventuale decisione nostra di non vederlo. La distanza
dalle letture che abbiamo chiamato “esorcistiche” di Marx è
già tutta qui. Marx deve essere appellato, con lui si deve parlare e
a lui si devono rivolgere le domande che ci concernono, perché il fantasma
torna, come nell’Amleto, ad interloquire con noi nella posizione
asimmetrica e per lui vantaggiosa di chi vede senza essere visto. Questa è
l’immagine della “astrazione”: il sistema del capitale ci
guarda, si rapporta a noi, senza che noi possiamo propriamente identificarne
la struttura concreta. E’ doveroso dialogare con il fantasma di Marx nel
senso derridiano dell’“intrattenersi con lui”, del “lasciargli
o …rendergli la parola” , perché “se come minimo ama
la giustizia, lo scienziato dell’avvenire, l’intellettuale di domani
dovrà impararlo, e da lui”. E con lui dovrà essere compreso
il senso dell’espressione che definisce il movimento delle merci e le
merci stesse come “sensibilmente sovrasensibile”. Nulla di ossimorico,
come anche nulla di retorico è nascosto in queste parole, ma anche niente
di meno che il senso dell’astrazione capitalistica del lavoro in quanto
tale che genera astratto valore di scambio misurato dal tempo di lavoro uniforme,
uguale, indifferenziato, che viene speso nella produzione delle merci. Carandini
ha ben intuito questo punto. Il fantasma che la società del capitale
deve temere, non è quel che ritorna a noi di un morto, né (solo
e soprattutto) quello che minaccia di sottrarre ai possessori la loro proprietà,
ma quella astrazione costitutiva del mondo delle merci, che è tra noi,
quella che fa ballare il tavolino sulle sue gambe e lo trasforma grazie allo
scambio in merci concrete del tutto diverse da quella che esso è. La
potenza dell’astrazione (del lavoro, del consumo, della vita intera, strutturale
e sovrstrutturale) che unifica in senso capitalistico il genere umano ha tuttavia
bisogno di un corpo concreto su cui appoggiarsi. L’astratto è astratto
di un concreto (lavoro, merce, bisogno). E questo concreto è lì
a ricordare la necessaria controparte sensibile del soprasensibile: a ricordarla,
nel doppio senso di evocare una condizione produttiva diversa, capace di mantenersi
al servizio del concreto senza perdere nulla della potenza dell’astratto
moderno, unificante, autosvolgentesi, che “dissolve nell’aria tutto
ciò che è solido” e rivoluziona costantemente se stesso
nell’atto stesso di alludere ad una ricomposizione dei poli separati della
dialettica (astratto e concreto) nella necessità, divenuta essenzialmente
filosofica, del comunismo postcapitalista. Questo è l’altro senso,
il senso dialettico dell’astrazione, quello che conduce alla inevitabile
“conciliazione”, realizzantesi ad un livello superiore a quello
in cui poli sono lasciati separati e irrelati. L’astrazione del capitale
è segno della sua potenza, ma al tempo stesso segno della sua crisi.
L’astratto non può esser lasciato sussistere nella sua pretesa
di restare categoria unica, figura assoluta, potenza creatrice priva di limiti.
Su questo crinale teorico si deve decidere che cosa fare, come procedere, come
‘maneggiare’ il pensiero di Marx.
Qui è possibile, anzi doveroso, fermare il volo del pensiero marxiano,
a costo di dimenticare che esso di dialettica si nutre, fino al punto di esserne
seriamente impedito, se non del tutto soffocato. E’ su questo punto che
Carandini ‘blocca’ il pensiero di Marx e ne ritesse la trama attraverso
il dialogo da scienziato dell’economia e della società della seconda
metà dell’Ottocento, a scienziato dell’economia e della società
odierno che sa anche di quella che una economia che si vorrebbe ‘buona’
e ‘solidale’ chiama la “responsabilità sociale dell’impresa”,
e non la disprezza, né la respinge, ma ne diffida quanto a capacità
di far obliare, dietro l’afflato etico, la struttura antagonista, spesso
violenta, inevitabilmente ingiusta del capitale. E’ uno scienziato che,
con Derrida, “ama la giustizia”, quello che si oppone alla liquidazione
di Marx propria del marxismo antimarxista italiano collettiano e postcollettiano:
di un Marx che appare a questi studiosi mortalmente soffocato dalla dialettica,
a tal punto che anche la sua scienza ne riceve un danno irreparabile. Un danno
che induce a far dimenticare, a respingere insieme alle analisi marxiane, anche
l’ingiustizia reale, oggettiva, che le sottende e che sorregge vivifica
e impone di rendere omaggio alla loro verità storica. Lo scenario cambia,
ma l’assenza dell’anelito di giustizia dello scienziato che con
Marx torna a chiedersi come possa proseguire la corsa mondiale del capitale
all’aumento della ricchezza, se antagonistica è la sua struttura,
se sfruttamento è quel che esso legittimamente opera del lavoro comandato,
manca anche nelle posizioni opposte di quell’altro lato del marxismo italiano,
quello ispirato da Louis Althusser. Astrazione e dialettica dal romanticismo
al capitalismo è il titolo del saggio dedicato a Marx nel 1987 dal
più coerente degli althusseriani italiani Roberto Finelli. Non meravigli
il rilievo che in questa lettura di Marx, non la sintesi di volontà di
comprensione scientifica del sistema del capitale, da un lato, e di volontà
di giustizia mirante a mostrare i limiti di una correzione che pure deve esserne
costantemente e duramente tentata, sia il motivo ispiratore, quanto piuttosto
il bisogno di cogliere nel Capitale il luogo in cui si deposita una
“verita” di natura metafisica, e di trovarsi per così dire
‘rassicurati’ dalla presenza di un pensiero radicalmente ‘altro’
rispetto alle miserie sociali e individuali che affliggono gli ‘uomini
del capitalismo’. Nessuno più di un filosofo può comprendere
la spinta a leggere filosoficamente Marx. Ma questa strada, che molto più
di quel che sembra a primo acchito risponde ad esigenze psicologiche soggettive,
non produce risultati durevoli, come non li produce mai in generale l’effetto
rassicurativo dell’aggrapparsi ad una metafisica. Se di filosofia si deve
parlare per Marx, è la categoria dell’etica che deve essere declinata,
insieme alla categoria dell’analisi della struttura economica e sociale
del capitale, capace di resistere ala fascino sempre incombente di uno storicismo
futurologico che sa come le cose andranno a finire. Il fatto che si sia potuto
mettere all’inizio e alla conclusione dell’evoluzione di Marx una
nozione di storia dello spirito e delle cultura (il romanticismo) e una categoria
economica e sociale come quella di capitalismo, indica bene lo slittamento semantico
che viene imposto al secondo e che lo porta a significare il contenuto di verità
di un’epoca storica pensata in chiave di filosofia della storia. Anche
su questo punto cade molto opportuna l’avvertenza di Carandini: non il
“capitalismo” ha indagato Marx (lo hanno fatto molto dopo di lui
Ferdinand Braudel e Immannuel Wallerstein, utilizzando lo strumento della ricerca
storica), ma il “capitale”, ricostruito nella “dinamica strutturale”
del suo “idealtipo” weberiano. Questa, e solo questa è la
“verità” con cui ci si misura ancora oggi leggendo il Capitale.
Il resto (esorcismo di Marx o, all’opposto, sua elevazione a verità
filosofica ) è ideologia.
Si ricava da qualche s’è detto la convinzione che non sia possibile
una riflessione su Marx come quella che lo studio di Carandini sollecita, anzi
impone, senza gettare uno sguardo all’orizzonte non solo culturale e scientifico
delle interpretazioni italiane di Marx, allo scopo di cogliere se, entro l’orizzonte
del confronto, qualcosa è cambiato, se la fisionomia di un assetto culturale
e della sua storia possa subire un forte e salutare scossone. Carandini sceglie
opportunamente di non autocollocarsi, se non per rapidi, inevitabili accenni,
nella storia del marxismo teorico in particolare italiano. Non persegue fini
polemici, perché è solidamente e giustificatamene convinto (anche
se non lo dice in modo esplicito) che una gran parte della storia del marxismo
teorico sia costituita da rovine anche molto recenti, come quelle che l’angelo
di Walzer Benjamin si lascia dietro di sé nel suo volo. Ma risulta evidente
a un cero punto della lettura, almeno per chi abbia vissuto la vicenda non esaltante
del marxismo italiano, che il libro di Carandini realizza, forse anche indipendentemente
dalla sua intenzione, una svolta importante. Esso segna infatti a tutti gli
effetti la fine del “marxismo” e l’inizio dello studio di
Marx entro l’ambito della problematica della sua utilizzabilità,
al cospetto di un sistema del capitale su cui non incombe più la dissoluzione
necessaria nel comunismo, ma a cui è difficile accreditare il risultato
del mantenimento, dell’ulteriore sviluppo e della potenziale valorizzazione
dell’uomo ricavabili dalla potenza mondiale che ha già conquistato
– almeno dal punto di vista dei risultati ottenuti in termini di dignità,
giustizia, rispetto di tutti gli esseri umani. Non sfugge affatto a nessuno
quanto sia difficile disfarsi dell’ambiguo fascino dell’ideologia,
quando si tornano ad aprire le pagine del Capitale. Ma un passo rilevante
in questa direzione è stato finalmente compiuto nel plumbeo panorama
della marxologia italiana – e tutti gli scienziati “dell’avvenire”
dovrebbero gioirne.
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