Nel 1986 usciva, pubblicato a Oxford, Relevance: Communication and Cognition
[Blackwell, Oxford], tradotto in italiano La pertinenza [Anabasi,
Milano 1993], scritto a quattro mani dall’antropologo cognitivo francese
Dan Sperber insieme alla linguista inglese Deirdre Wilson. Il volume conteneva
una teoria della comunicazione che, partendo dalla prospettiva pragmatica di
Paul Grice, la superava, elevando il principio di pertinenza, inteso come una
naturale tendenza degli interlocutori umani a massimizzare, tramite previsioni
e aspettative, l’efficacia dei processi comunicativi, a «regola
che determina la comprensione e l’andamento degli scambi conversazionali»
(p. 205). A distanza di vent’anni, e in seguito alla seconda edizione
di Relevance [1995, 2ª ed., Blackwell, Oxford], che integra teoria
della comunicazione dominata dalla pertinenza e concezione modulare della mente,
riprende vita il dibattito sulla comunicazione all’interno della scienza
cognitiva, ed esce in Italia, edito da Laterza, il volume intitolato Comunicazione
e scienza cognitiva, curato da Francesco Ferretti e Daniele Gambarara.
Nel volume diversi studiosi italiani affrontano la teoria della pertinenza,
ciascuno approfondendone differenti aspetti. L’esito è la delineazione
di un modello di comunicazione ostensivo-inferenziale alternativo al vetusto
e insoddisfacente modello del codice, derivato dalla teoria informazionale di
Shannon e Weaver e adottato dalla linguistica chomskiana. Dibattito sulla comunicazione
che riprende vita in un momento cruciale della discussione interna ed esterna
alle scienze cognitive, criticate per aver tralasciato troppo a lungo alcuni
aspetti fondamentali dell’umana natura: tra questi, la comunicazione e,
con essa, l’intrinseca natura sociale e corporea della mente. Il programma
di ricerca interdisciplinare nato negli anni Cinquanta negli Stati Uniti sulla
scorta di un diffuso atteggiamento critico nei confronti del dominante comportamentismo,
infatti, si concentra per lungo tempo sulle caratteristiche della mente individuale,
teorizzando in qualche caso posizioni solipsistiche e individualistiche, e naturalmente
in tal modo attirando le critiche di coloro che non ritengono possibile scindere
lo studio del comportamento individuale dal contesto sociale in cui è
immerso e in cui vanno rintracciate in parte le sue ragioni e i suoi fondamenti.
La questione investe il rapporto tra diverse coppie oppositive: cognizione e
comunicazione, decodifica e interpretazione, mente individuale e mente sociale.
Il libro è animato dalla consapevolezza della necessità di superare
gli sterili dualismi, per fondare un modello di comunicazione in cui si tenga
conto sia delle precondizioni cognitive per lo sviluppo di qualsiasi forma comunicativa
(cosa bisogna concedere alla mente fin dalla nascita, e in questo senso gli
autori accordano alla mente un’architettura modulare moderatamente
massiva), sia delle specificità comunicative umane e degli effetti
di ritorno dello sviluppo delle diverse forme comunicative sul sistema cognitivo.
Comune agli autori è la volontà di mescolare produttivamente analisi
concettuale filosofica e indagine empirica. E lo si vede bene dalle pagine colme
di riferimenti a dati sperimentali provenienti dalla psicologia dello sviluppo
e dalla neuropsicologia. Gli autori attribuiscono al volume una funzione primariamente
didattica e ciò caratterizza i contributi per la loro estrema chiarezza
esplicativa, che tuttavia nulla toglie alla portata teorica del libro stesso.
Inoltre, il volume rappresenta un’esposizione volutamente orientata, che
non pretende in alcun modo di essere esaustiva rispetto ai temi affrontati,
denunciando anzi la «(pretesa) esaustività» come un falso
mito e rivendicando il valore formativo aggiunto della presentazione di un’opzione
teorica nei dettagli, dando conto delle sue articolazioni interne e della sua
struttura teorica (p. VI). La prospettiva adottata è «l’analisi
della natura e delle funzioni del linguaggio e della comunicazione […]
dal punto di vista della scienza cognitiva» (p. V).
Il volume si divide in tre sezioni: la prima, rappresentata dai primi tre capitoli,
è dedicata alla discussione teorica di alcune questioni fondanti quali
le funzioni del linguaggio (cognitiva e comunicativa) e le concezioni che ne
derivano, i due modelli di comunicazione a confronto, quello del codice e quello
ostensivo-inferenziale proposto dalla teoria della pertinenza, un approfondimento
dei meccanismi inferenziali che sottendono la comprensione linguistica. La seconda
sezione, capitoli quattro e cinque, si occupa di confrontare le opzioni teoriche
sostenute con i dati empirici disponibili, nel rispetto dell’assunto fatto
proprio dagli autori secondo cui l’analisi filosofico-concettuale, almeno
su temi quali il linguaggio e la comunicazione, non può prescindere dal
confronto con la realtà empirica. In questo caso il confronto è
con le effettive modalità di comprensione e produzione linguistica, compromesse
in alcune patologie quali l’autismo e la sindrome di Williams. La terza
sezione, il sesto capitolo, rappresenta un momento di raccordo tra le tematiche
affrontate nel resto del libro e la riflessione linguistica e semiotica del
Novecento, in cui viene dedicata particolare attenzione allo stretto legame
tra comunicazione, cognizione e socialità nei vari tipi di mente che
vengono analizzati.
Il primo saggio, di Ferretti, introduce una distinzione molto generale tra
funzione cognitiva e funzione comunicativa del linguaggio. La scienza cognitiva
classica, rappresentata principalmente da Chomsky e Fodor, si concentra prevalentemente
sul ruolo del linguaggio come espressione del pensiero, considerando i due sistemi
come relativamente indipendenti l’uno dall’altro, in forza della
sottoscrizione della prospettiva modulare sull’architettura della mente
e dell’adozione del modello del codice sulla comunicazione. La seconda
generazione cognitiva, e in particolare Andy Clark e Daniel Dennett, riprendendo
temi vygotskijani, insistono sul fondamentale ruolo del linguaggio nel potenziamento
delle capacità cognitive. Ferretti cerca di delineare un modello in cui
convivano le due istanze presenti nel linguaggio, cognitiva e comunicativa.
Lo fa con l’aiuto di recenti studi a proposito del modello di comunicazione
basato sulla teoria della pertinenza, che a sua volta affonda le proprie radici
nella pragmatica griceana. Nella facoltà di mentalizzazione, vale a dire
di leggere le menti altrui e interpretare così in termini mentalistici
il loro comportamento, risiederebbe una precondizione cognitiva per lo sviluppo
del linguaggio verbale. Il modello pragmatico di comunicazione verbale è
centrato sulla capacità di cogliere, da parte dell’ascoltatore,
le intenzioni comunicative e referenziali del locutore, e questa previsione
risulta possibile solo se si è in possesso della capacità, garantita
appunto dalla facoltà di mentalizzazione, di leggere la mente degli altri
interlocutori. La comunicazione emerge allora essenzialmente come «questione
di inferenza [cui] il linguaggio si aggiunge come fenomeno aggiuntivo»
(p. 52). Prova ne sia il fatto che forme di comunicazione (ad esempio animale)
sono possibili anche in assenza del linguaggio verbale (vedi cap. 6).
Gola, nel suo capitolo, mostra come la teoria comunicativa basata sulla pertinenza
riesca a rendere conto, meglio di altre teorie della comunicazione linguistica,
del diffuso fenomeno della metafora, considerato in questa visione non come
semplice ornamento o virtuosismo stilistico, ma, da una parte come emergenza
linguistica di un meccanismo radicato nelle modalità cognitive umane
[Lakoff G., Johnson M., 1980, Metaphors we live by, The University
of Chicago Press, Chicago], e dall’altra come strumento comunicativo particolarmente
efficace in alcuni contesti. La metafora rappresenta un banco di prova per quelle
teorie del linguaggio che tendono a vedere nella comprensione un processo essenzialmente
sintattico, fondato sull’analisi della forma logica dell’enunciato,
che, com’è noto, fornisce informazioni sulle dipendenze strutturali
interne alla frase, tralasciando il fondamentale contributo del contesto e dell’intenzione
comunicativa del parlante. Persino la pragmatica di Grice non riesce a fornire
un resoconto della metafora che non la consideri un fenomeno anomalo. Essa comporta
infatti, nel quadro delle massime griceane, una violazione di esse, non costituendo
un comportamento linguistico del tutto cooperativo. Il fatto che la metafora
non possa essere considerata un’anomalia o un fenomeno marginale è
testimoniato dalle statistiche linguistiche, che rivelano un uso metaforico,
ad esempio, del verbo “vedere” al 58%, rispetto al 42% dell’uso
letterale. Contro le teorie che relegano il meccanismo metaforico ai margini
della grammaticalità linguistica e che lo considerano un fenomeno eccezionale
e marginale, Gola propone di conciliare da una parte Lakoff e Johnson, che hanno
elevato la metafora a processo di comprensione basato su un ragionamento analogico
che trova il suo fondamento già nell’articolazione del nostro sistema
concettuale, dall’altra Sperber e Wilson, che descrivono il processo di
comprensione degli enunciati metaforici come processo in cui non interviene
alcun meccanismo aggiuntivo rispetto alla comprensione degli enunciati letterali.
Se la comunicazione, come vuole la teoria della pertinenza, dev’essere
prevalentemente costruzione inferenziale di ipotesi finalizzate alla ricostruzione
dell’intenzione comunicativa del parlante a partire dalla forma fonologica
dell’enunciato, ci si dovrà interrogare a proposito di quali tipi
di ragionamento vengano utilizzati nei processi inferenziali alla base della
comprensione. Di questo nodo teorico si occupa Giannoli. Il capitolo contiene
dunque una disamina dei modelli sviluppati nel Novecento per la descrizione
del ragionamento ordinario, ritenuto, sulla base di prove empiriche cogenti,
non equivalente al ragionamento logico-deduttivo. L’autore dimostra ancora
una volta quanto sia fondamentale l’aspetto contestuale di condivisione
di conoscenze nel processo comunicativo (la condivisione del medesimo «ambiente
cognitivo», per dirla con Sperber e Wilson), facendo appello al carattere
referenzialmente opaco degli enunciati che esprimono credenze. La possibilità
di trarre inferenze operando sostituzioni di termini logicamente equivalenti
è in questi casi vincolata al bagaglio di conoscenze condivise dagli
interlocutori.
Il contributo di Marraffa parte dalla rivendicazione, basata su successi esplicativi,
dell’ipotesi modulare della mente contro l’idea piagettiana di intelligenza
generale. Coniugando riflessioni epistemologiche sul modello di spiegazione
adottato in scienza cognitiva con la discussione di dati psicologici sperimentali,
l’autore esplora in dettaglio le ipotesi formulate sui meccanismi cognitivi
che sottendono la facoltà di mentalizzazione, nonché la pragmatica
inferenziale, presentando le varie versioni che sono state fornite a proposito
del funzionamento e dello sviluppo della teoria della mente. In questo capitolo
si materializza, specificandosi meglio, cosa si intenda con architettura modulare
moderatamente massiva, facendo diretto riferimento agli studi condotti
da Alan Leslie sullo sviluppo della capacità metarappresentazionale e
da Simon Baron-Cohen sui pazienti affetti dalla sindrome autistica, entrambi
volti alle formulazioni di ipotesi circa l’architettura mentale.
Gli stessi meccanismi presentati da Marraffa negli individui normali vengono
analizzati nel caso di individui patologici (sindrome autistica e sindrome di
Williams) nel capitolo che segue. Questo a dimostrazione di come le teorie debbano
trovare conferma dal confronto con l’indagine empirica. Nel contributo
di Russo e Zalla viene analizzata in dettaglio la facoltà di mentalizzazione,
posta alla base della teoria della comunicazione proposta. Si presenta, sulla
base dello studio neuropsicologico delle sindromi autistica e di Williams, una
concezione componenziale della suddetta facoltà, distinguendo una componente
percettivo-affettiva (legata ad esempio alla capacità di interpretare
le emozioni che caratterizzano un volto) e una di stampo più cognitivo
(costituita dall’abilità di compiere inferenze a proposito degli
stati mentali altrui). Anche questi risultati tendono ad avvalorare la tesi
di un’architettura mentale modulare, in cui diversi meccanismi alla base
della generale capacità di mentalizzare presentano uno specifico sviluppo
ontogenetico e un funzionamento autonomo.
L’ultimo capitolo costituisce una riflessione conclusiva che inserisce
e collega l’intero impianto teorico del libro, dichiaratamente limitato
e circostanziato, nel quadro della speculazione teorica linguistica e semiotica
del Novecento. Non a caso il riferimento va a Peirce e alla classificazione
dei segni in indici, icone e simboli. Sulla base della distinzione perceana,
Gambarara individua diversi tipi di mente (indicale, iconica e simbolica), cui
si accompagnano diverse forme di comunicazione e di socialità. Le specificità
della comunicazione verbale umana sono quindi introdotte a partire dalla presentazione
dei sistemi comunicativi animali, in una linea che tende a evidenziare le specificità
senza tuttavia voler affermare alcuna specialità dell’essere umano
(«Se domani si accertasse che la comunicazione dei delfini risponde ai
caratteri della comunicazione verbale, collocheremmo da questo punto di vista
i delfini insieme agli uomini», p. 193). È il passaggio da linguaggio
a lingua, il passaggio dunque da un mero sistema comunicativo a una dimensione
pubblica e istituzionalizzata (o, più semplicemente, esterna) a dare
l’avvio agli effetti retroattivi del linguaggio sul pensiero e sul sistema
cognitivo. Nel capitolo si mostra «come la comunicazione umana si differenzi
da quella non verbale degli animali per la sua natura di pratica istituzionalizzata,
assunta come esterna, che retroagisce sulle forme di cognizione dell’uomo»
(p. 234).
Si tratta, in conclusione, di un libro che cerca di svelare, nel modo più
lucido ed empiricamente fondato possibile, il complesso intreccio delle relazioni
tra pensiero e linguaggio, tra cognizione e comunicazione, inseguendo le linee
generali del circolo virtuoso in atto tra lingua e pensiero. Questo compito
è portato avanti facendo riferimento a ben precisi ambiti di influenza
tra linguaggio e pensiero, nello sviluppo normale come nello sviluppo patologico,
prendendo in considerazione l’intero spettro delle caratteristiche del
linguaggio, dalla sintassi, privilegiata negli studi generativi, alla pragmatica,
considerata come la base di qualsivoglia processo comunicativo.
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