Se l'estetica è un evento storico,
visto che la sua teorizzazione avviene in un momento storico determinato,
ciò «vuol dire, molto semplicemente, che c'è
stato un prima dell'estetica in cui le cose si vedevano in modo
diverso, e che ci sarà un poi in cui il modo di vedere
le cose che ha portato all'estetica potrebbe venir meno»
(introd., p. VII).
Ora, due sono le domande di cui si occupa il libro di Guastini:
1) In che consiste questo prima dell'estetica, ossia qual è
il principio della poetica antica?
2) Nello sviluppo di quali concetti e nel venir meno di quali
altri è possibile scorgere gli antefatti che hanno reso
possibile la formazione dell'estetica moderna?
Quanto alla prima domanda, Guastini parte dal fatto che parlare
di "estetica antica", come molti hanno fatto, sia storicamente
anacronistico in quanto significa trasporre nell'antichità
dei concetti che non le appartengono, come per esempio quelli
tipicamente moderni dell'autonomia dell'arte rispetto alle altre
discipline, di quella del soggetto conoscente rispetto all'oggetto
conosciuto o dell'immagine rispetto a ciò che essa raffigura.
Non esiste, dunque, un'estetica antica, perché questa presuppone
il cammino che ha portato alla soggettività moderna, riassumibile
nelle celebri parole della Ragion pura kantiana in base a cui
non è la nostra conoscenza a potersi regolare sugli oggetti,
ma gli oggetti a doversi regolare sulla nostra conoscenza. Per
i greci, al contrario, la verità non è dal lato
del soggetto conoscente, ma da quello delle cose. La verità
non è cioè in noi, ma fuori, in enti che si trovano
già formati a prescindere da noi: la verità è
calibrata sulle cose prima che sul nostro sguardo. Sottolineare
il carattere estatico di quest'atteggiamento conoscitivo non significa
per Guastini seguire l'interpretazione che Heidegger dà
della grecità ma, al contrario, criticarla. Fondamentale
per i greci non è, infatti, il carattere trascendente dell'essere,
che porta alla cesura tra verità e realtà sensibile,
ma la parousia ossia la presenza dell'essere negli enti, l'immanenza
del fondamento nelle cose: il significato di queste sta, dunque,
in ciò che di esse si vede e si manifesta. Per questo il
poietes deve "semplicemente" ripeterne l'immagine senza
apportarvi nulla di soggettivo ma anzi non facendo altro che lasciar
parlare le cose stesse. La bellezza è infatti qualcosa
che si manifesta oggettivamente negli enti: «è la
cosa più manifesta», dice Platone nel Fedro (Plat.
Phaidr., 250 d).
Quanto alla seconda questione, è chiaro che questa rivoluzione
copernicana si preparava nel campo delle arti in realtà
già da secoli: l'ipotesi di Guastini è, infatti,
che «i prodromi della formazione dell'estetica siano da
rintracciare nel progressivo abbandono dell'orientamento mimetico
eletto nella Grecia classica a principio di individuazione delle
arti poetiche» (p. 34). La mimesis, che implica la centralità
del valore della somiglianza tra raffigurazione e raffigurato,
per l'arte e la riflessione estetica moderne non è più
di tale importanza fondamentale: centrale per esse diviene, infatti,
l'autonomia e non la dipendenza della rappresentazione dal rappresentato.
Proprio quest'abbandono consente la formazione dei concetti propri
dell'estetica moderna, come quelli di autonomia, di creatività
e di genio artistico, tutti accomunati dallo spostamento di interesse
da ciò che è fuori di noi a ciò che è
in noi: si passa cioè dal poietes la cui attività
consiste nel saper vedere le forme di ciò che è
fuori di lui all'artista moderno la cui capacità consiste
nel creare forme a partire da sé.
Ma cerchiamo di capire che cosa si debba intendere per mimesis.
Questa somiglianza non consiste in una mera riproduzione della
realtà sensibile ma nell'"idealizzazione" di
essa, cioè nel trarre prototipi da essa. Il che non significa
che l'arte (la techne) renda il raffigurato più bello di
quello che è in realtà, ma che essa è in
grado di coglierne e raffigurarne l'essenza. Per questo, spiega
Aristotele, si gode e si prova piacere anche nel vedere raffigurato
ciò che è doloroso e brutto, perché il piacere
che si prova non è infatti vista nel senso di un piacere
fine a se stesso ma è d'ordine conoscitivo: «le immagini
di ciò che ci dà fastidio vedere, come per esempio
le figure degli animali più spregevoli e dei cadaveri,
ci procurano piacere allo sguardo… vedendo le immagini si
prova piacere perché accade che guardando si impari e si
consideri che cosa sia ogni cosa, come per esempio che questo
è quello» (Arist., Poet., 48b10-17). Imitare bene,
che è il compito proprio del poietes, significa dunque
saper dedurre che cos'è ciò che si vuole raffigurare,
cioè la sua forma immanente: non si tratta di un'attività
creativa ma euristica, in quanto riproduce, illuminandola, l'essenza
presente negli enti.
Il valore conoscitivo della poetica costituisce una delle caratteristiche
più importanti del modo in cui si "faceva arte"
nella Grecia antica. Essa costituiva una forma di conoscenza della
realtà e di educazione etico-politica: il progetto paideutico
classico ha, infatti, il suo centro vitale nella polis, al di
fuori della quale la poiesis si tramuta in un fatto di cultura
e di erudizione, come avviene dall'età ellenistica in poi.
All'interno dei capitoli sulla poetica antica è da segnalare
l'analisi che Guastini fa della Poetica aristotelica, mettendo
giustamente in risalto la centralità del concetto di hamartia,
fondamentale non solo per capire cosa Aristotele intenda per katarsis
delle passioni, ma soprattutto per capire il valore etico di quella
particolare forma di mimesis che è la tragedia classica.
Ora, se il "prima dell'estetica", cioè la poetica
antica, trova nella mimesis il suo principio di possibilità,
gli antefatti che concorrono alla formazione dell'estetica vanno
rintracciati nel progressivo abbandono dell'orientamento mimetico
a favore di quello allegorico. Storicamente, questo percorso si
snoda in quattro momenti:
1) Antichità classica: principio della poetica è
la mimesis.
2) Ellenismo pagano: principio diviene l'allegorismo "fisico"
in base a cui le immagini poietiche sono razionalizzate in quanto
legittimate solo dal loro stare per altro, ossia per dati di carattere
fisico o storico.
3) Avvento del cristianesimo: principio iconico diviene il simbolo,
tramite cui le immagini, smaterializzate, acquistano senso in
quanto rimandano ad una realtà trascendente.
4) Secolarizzazione: porta a termine il processo che conduce alla
soggettività moderna e all'estetica in senso proprio.
Come mostra Guastini, tale percorso è, dunque, caratterizzato
da un progressivo distacco tra verità e realtà sensibile:
le immagini divengono sempre più antinaturalistiche e antimimetiche
perché le cose sensibili perdono il loro senso intrinseco
e rimandano ad altro. Non a caso per i greci non era pensabile
il concetto di "creazione dal nulla": l'indifferenza
che caratterizza l'atteggiamento dei loro dei si deve proprio
al fatto che questi non hanno creato il mondo, come fa il dio
delle religioni ebraica e cristiana. Il mondo sensibile, essendo
sempre esistito, è perciò di per sé dotato
di senso.
Il dio ebraico e cristiano è, invece, questo Soggetto da
cui tutto dipende; si tratta di un ruolo che con la secolarizzazione
passa infine all'uomo.
Ora, rispetto alla tradizionale aniconicità ebraica, il
cristianesimo recupera l’immagine ed il suo valore, ma la
smaterializza: la potenza iconica del cristianesimo sta cioè
nella sua debolezza, in quanto manifesta non la presenza ma la
trascendenza del divino nel suo rapporto con l’ente. In
questo senso il lato sensibile e corporeo delle cose «non
va raffigurato, ma trasfigurato» (p. 155). Il valore dell’immagine
è tutto nella sua capacità simbolica e non più
in quella mimetica: andare al divino non significa, infatti, più
indagare le cose né imitarle, ma trascenderle. L’uomo
spirituale cristiano sta quindi agli antipodi dell’uomo
formato dalla paideia greca: «quest’ultimo, ritenendo
di poter conoscere il divino mediante le cose, e non, come penserà
Agostino, le cose mediante il divino, andava a formarsi tale conoscenza
nei miti poetici» (p. 162-3). Questa antica religione dei
teatri ha, agli occhi di Agostino, la colpa di aver attuato un’umanizzazione
di dio che va nella direzione opposta rispetto a quella cristiana:
mentre Cristo si fa uomo per salvare gli uomini dal peccato della
carne, gli uomini greci si fanno dei, «proiettando sul divino
tutte le caratteristiche carnali proprie dell’umano e immortalando
così l’immagine della loro stessa mortalità»
(p. 163). Rispetto a questa interpretazione del mondo sensibile,
nulla può esservi di più lontano della poiesis antica
e del suo modo di avere a che fare con esso: quel modo che nell'XI
canto dell'Odissea, faceva rappresentare l'Ade come una mera imitazione
insensata ed esangue della vita terrena, l'unica «dolce
come il miele», e che faceva rispondere ad Achille, che
primeggia tra i morti:
<«Non lodarmi la morte splendido
Ulisse.
Vorrei essere bifolco, servire un padrone,
un diseredato che non avesse ricchezze, piuttosto che dominare
su tutte le ombre consunte». |