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Jean-Luc Marion, Dio senza essere.
Jaca Book, 1984

di Paolo Zordan

Dio senza essere, a ventitré anni dalla prima edizione francese, appare un testo centrale nella produzione filosofica di Marion, e quindi ancora molto interessante da considerare (purtroppo oggi la versione italiana è fuori catalogo!). L’Autore vi riprende, per un verso, le analisi sull’idolo e l’icona sviluppate nel precedente L’idole et la distance (1977), per un altro vi anticipa molti temi che saranno oggetto di successivi approfondimenti “filosofici”, attraverso una “fenomenologia profondamente rinnovata”, nel trittico Réduction et donation (1989), Étant donné (1997) e De surcroît. Études sur les phénomenès saturés (2001).
Nonostante il testo riproponga, per la gran parte, saggi già pubblicati su varie riviste tra il 1976 e il 1980 (eccezion fatta per i capitoli IV e V), la proposta centrale dell’Autore è chiara ed espressa coerentemente: liberare Dio dall’essere della metafisica onto-teo-logica (quella metafisica, cioè, che, secondo la lettura heideggeriana, pensa Dio dimenticando la differenza ontologica a favore dell’ente, privilegiando la modalità della presenza) per recuperarlo come dono, amore.
Nel primo capitolo dell’opera Marion riprende ed approfondisce l’analisi fenomenologica dell’idolo “estetico” (sviluppata già ne L’idolo e la distanza), per poi mostrarne il parallelo nell’idolo concettuale. L’idolo indica, etimologicamente, il visibile e si manifesta come un oggetto che pretende di esaurirsi nel guardabile. Cosa rappresenta? Nulla, poiché non rinvia a qualcosa di altro da sé, ma solo restituisce di riflesso, come uno specchio invisibile, lo sguardo invadente, che vuol ridurre il divino ad oggetto visibile: «L’idolo quindi consegna il divino commisurandolo alla misura dello sguardo umano» (p. 28). E’ lo sguardo idolatrico, spiega Marion, a costituire l’idolo, rapprendendosi su un visibile e lasciandosi colmare da esso, non tanto in conseguenza di una scelta etica, ma piuttosto della fatica essenziale di mantenere «l’alzo di una mira senza tregua, riposo né fine» (p. 27).
Quando la metafisica cerca di risolvere “Dio” in un concetto, essa crea un idolo concettuale con le stesse valenze dell’idolo estetico: il concetto, infatti, non si commisura tanto al divino, quanto piuttosto alla portata della capacità che lo ha appreso e che vi si rapprende, si lascia colmare da esso. Perciò Marion crede si possa leggere la storia onto-teo-logica della metafisica, da Platone a Nietzsche (ma anche Heidegger cade nelle stesse difficoltà, cercherà di mostrare l’Autore) come percorso sostanzialmente “idolatrico”.
Nel secondo e nel terzo capitolo (rispettivamente intitolati La doppia idolatria e L’in-crocio dell’essere) Marion approfondisce, soprattutto da un punto di vista storico, la pars destruens del suo lavoro per approdare infine al nome inessenziale (e quindi primo) di Dio, quello di agape.
L’idolatria concettuale trova un suo doppio speculare, argomenta l’Autore nel secondo capitolo, nel pensiero nietzscheano della “morte di Dio”, in realtà semplice “crepuscolo degli idoli” e sconfessione del “Dio morale” kantiano. Ultimo ed estremo raddoppiamento viene rintracciato nel tentativo heideggeriano di pensare l’Essere in quanto Essere al di fuori della metafisica onto-teo-logica: «Anche in questo caso, e di là dall’idolatria propria della metafisica, è all’opera un’altra idolatria, propria del pensiero dell’Essere in quanto Essere. Quest’affermazione, per brutale che possa sembrare, discende però direttamente dall’anteriorità, indiscutibile ed essenziale, della questione ontologica rispetto alla questione ontica di “Dio”. Quest’anteriorità è sufficiente a stabilire l’idolatria» (pp. 62-63).
Ma è possibile pensare Dio al di fuori della differenza ontologica e dalla questione dell’Essere, liberarlo dalla comprensione ontologica (idolatrica) del Dasein, secondo la quale esso è innanzitutto un ente, che come tale “ha da essere”?
Proprio l’impensabilità di Dio, afferma Marion, il fatto che Dio «entra nel campo del nostro pensiero solo rendendovisi impensabile, per eccesso, cioè criticandolo» (p. 68) è il correttivo necessario alla tentazione idolatrica. L’unico nome ancora praticabile, a questo punto, si rivela quello giovanneo di agape: l’amore, infatti, donandosi (qui, come in altri passi, l’Autore abbozza un’analisi del dono che svilupperà in Dato che) trasgredisce qualsiasi condizione o comprensione che ne possa limitare l’iniziativa, l’estasi.
Nel terzo capitolo Marion ripercorre ancora, con maggiore profondità di analisi, alcune tappe fondamentali della speculazione metafisica (Heidegger, Tommaso d’Aquino) mostrando come, da una parte, il nome di Essere abbia scalzato storicamente quello del Bene al vertice della gerarchia dei nomi divini e, dall’altra, come l’istanza dell’agape incroci quella dell’Essere/ente, capovolgendola ed inverandola (l’Autore mostra questo incrocio attraverso una analisi molto suggestiva di alcuni passi neotestamentari, tra cui la parabola del “figliol prodigo”).
La pars destruens si chiude, nel quarto capitolo, con un’analisi fenomenologica dei vissuti della noia e della melanconia, attraverso i quali si rivela la vanità di tutte le cose (Qoèlet 1, 2-3), vissuti propri di quella condizione in cui, abbandonato l’Essere, l’agape è stata ancora solo intravista.
I tre capitoli finali di Dio senza essere, dove Marion tenta di sviluppare la pars costruens del suo discorso, presentano una struttura poco organica e appaiono meno maturi anche dal punto di vista teoretico (dobbiamo considerare che gli ultimi due capitoli sono stati scritti negli anni 1976-77), nonostante la presenza di numerose intuizioni interessanti, che verranno in gran parte riprese nei lavori successivi. L’Autore vi sviluppa una riflessione sull’agape principalmente a partire dall’eucarestia, intesa come dono. La presenza eucaristica di Cristo non può essere interpretata correttamente (in modo non idolatrico) che a partire da una temporalità cristica, in cui il presente del sacramento, temporalizzato a partire dal passato del memoriale e dal futuro della tensione escatologica (epektasis), viene incontro come dono. L’eucarestia si presenta, dunque, come il luogo più proprio dell’ermeneutica teologica, poiché in essa il Verbo interpreta se stesso, nel momento in cui spezza il pane (Lc, 24,30).
Attraverso una scrittura densa ma al contempo estremamente precisa, ci sembra che Marion prosegua l’impresa levinasiana di pensare Dio “altrimenti”, al di fuori del linguaggio dell’essere. Prendendo le mosse da Heidegger e dalla sua critica della metafisica onto-teo-logica, L’Autore si spinge oltre Heidegger stesso, nella ricerca di un pensiero non idolatrico. Ad una prima parte critica assai suggestiva e ricca di riferimenti succede una pars costruens che, a detta di Marion stesso, mancava ancora di un metodo filosofico non metafisico e faceva ricorso piuttosto ad argomenti teologici che filosofici.
Possiamo leggere, dunque, Dio senza essere, saggio al confine tra teologia e filosofia, teoresi filosofica e ricerca storica, come uno dei più interessanti tentativi recenti di pensare Dio “altrimenti”.

PUBBLICATO IL : 23-06-2005
@ SCRIVI A Paolo Zordan
 

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