Dio senza essere, a ventitré anni dalla prima edizione francese,
appare un testo centrale nella produzione filosofica di Marion, e quindi ancora
molto interessante da considerare (purtroppo oggi la versione italiana è
fuori catalogo!). L’Autore vi riprende, per un verso, le analisi sull’idolo
e l’icona sviluppate nel precedente L’idole et la distance
(1977), per un altro vi anticipa molti temi che saranno oggetto di successivi
approfondimenti “filosofici”, attraverso una “fenomenologia
profondamente rinnovata”, nel trittico Réduction et donation
(1989), Étant donné (1997) e De surcroît. Études
sur les phénomenès saturés (2001).
Nonostante il testo riproponga, per la gran parte, saggi già pubblicati
su varie riviste tra il 1976 e il 1980 (eccezion fatta per i capitoli IV e V),
la proposta centrale dell’Autore è chiara ed espressa coerentemente:
liberare Dio dall’essere della metafisica onto-teo-logica (quella metafisica,
cioè, che, secondo la lettura heideggeriana, pensa Dio dimenticando la
differenza ontologica a favore dell’ente, privilegiando la modalità
della presenza) per recuperarlo come dono, amore.
Nel primo capitolo dell’opera Marion riprende ed approfondisce l’analisi
fenomenologica dell’idolo “estetico” (sviluppata già
ne L’idolo e la distanza), per poi mostrarne il parallelo nell’idolo
concettuale. L’idolo indica, etimologicamente, il visibile e si manifesta
come un oggetto che pretende di esaurirsi nel guardabile. Cosa rappresenta?
Nulla, poiché non rinvia a qualcosa di altro da sé, ma solo restituisce
di riflesso, come uno specchio invisibile, lo sguardo invadente, che vuol ridurre
il divino ad oggetto visibile: «L’idolo quindi consegna il divino
commisurandolo alla misura dello sguardo umano» (p. 28). E’ lo sguardo
idolatrico, spiega Marion, a costituire l’idolo, rapprendendosi su un
visibile e lasciandosi colmare da esso, non tanto in conseguenza di una scelta
etica, ma piuttosto della fatica essenziale di mantenere «l’alzo
di una mira senza tregua, riposo né fine» (p. 27).
Quando la metafisica cerca di risolvere “Dio” in un concetto, essa
crea un idolo concettuale con le stesse valenze dell’idolo estetico: il
concetto, infatti, non si commisura tanto al divino, quanto piuttosto alla portata
della capacità che lo ha appreso e che vi si rapprende, si lascia colmare
da esso. Perciò Marion crede si possa leggere la storia onto-teo-logica
della metafisica, da Platone a Nietzsche (ma anche Heidegger cade nelle stesse
difficoltà, cercherà di mostrare l’Autore) come percorso
sostanzialmente “idolatrico”.
Nel secondo e nel terzo capitolo (rispettivamente intitolati La doppia idolatria
e L’in-crocio dell’essere) Marion approfondisce, soprattutto
da un punto di vista storico, la pars destruens del suo lavoro per
approdare infine al nome inessenziale (e quindi primo) di Dio, quello
di agape.
L’idolatria concettuale trova un suo doppio speculare, argomenta l’Autore
nel secondo capitolo, nel pensiero nietzscheano della “morte di Dio”,
in realtà semplice “crepuscolo degli idoli” e sconfessione
del “Dio morale” kantiano. Ultimo ed estremo raddoppiamento viene
rintracciato nel tentativo heideggeriano di pensare l’Essere in quanto
Essere al di fuori della metafisica onto-teo-logica: «Anche in questo
caso, e di là dall’idolatria propria della metafisica, è
all’opera un’altra idolatria, propria del pensiero dell’Essere
in quanto Essere. Quest’affermazione, per brutale che possa sembrare,
discende però direttamente dall’anteriorità, indiscutibile
ed essenziale, della questione ontologica rispetto alla questione ontica di
“Dio”. Quest’anteriorità è sufficiente a stabilire
l’idolatria» (pp. 62-63).
Ma è possibile pensare Dio al di fuori della differenza ontologica e
dalla questione dell’Essere, liberarlo dalla comprensione ontologica (idolatrica)
del Dasein, secondo la quale esso è innanzitutto un ente, che
come tale “ha da essere”?
Proprio l’impensabilità di Dio, afferma Marion, il fatto che Dio
«entra nel campo del nostro pensiero solo rendendovisi impensabile, per
eccesso, cioè criticandolo» (p. 68) è il correttivo necessario
alla tentazione idolatrica. L’unico nome ancora praticabile, a questo
punto, si rivela quello giovanneo di agape: l’amore, infatti,
donandosi (qui, come in altri passi, l’Autore abbozza un’analisi
del dono che svilupperà in Dato che) trasgredisce qualsiasi
condizione o comprensione che ne possa limitare l’iniziativa, l’estasi.
Nel terzo capitolo Marion ripercorre ancora, con maggiore profondità
di analisi, alcune tappe fondamentali della speculazione metafisica (Heidegger,
Tommaso d’Aquino) mostrando come, da una parte, il nome di Essere abbia
scalzato storicamente quello del Bene al vertice della gerarchia dei nomi divini
e, dall’altra, come l’istanza dell’agape incroci
quella dell’Essere/ente, capovolgendola ed inverandola (l’Autore
mostra questo incrocio attraverso una analisi molto suggestiva di alcuni passi
neotestamentari, tra cui la parabola del “figliol prodigo”).
La pars destruens si chiude, nel quarto capitolo, con un’analisi
fenomenologica dei vissuti della noia e della melanconia, attraverso i quali
si rivela la vanità di tutte le cose (Qoèlet 1, 2-3),
vissuti propri di quella condizione in cui, abbandonato l’Essere, l’agape
è stata ancora solo intravista.
I tre capitoli finali di Dio senza essere, dove Marion tenta di sviluppare la
pars costruens del suo discorso, presentano una struttura poco organica
e appaiono meno maturi anche dal punto di vista teoretico (dobbiamo considerare
che gli ultimi due capitoli sono stati scritti negli anni 1976-77), nonostante
la presenza di numerose intuizioni interessanti, che verranno in gran parte
riprese nei lavori successivi. L’Autore vi sviluppa una riflessione sull’agape
principalmente a partire dall’eucarestia, intesa come dono. La presenza
eucaristica di Cristo non può essere interpretata correttamente (in modo
non idolatrico) che a partire da una temporalità cristica, in cui il
presente del sacramento, temporalizzato a partire dal passato del memoriale
e dal futuro della tensione escatologica (epektasis), viene incontro
come dono. L’eucarestia si presenta, dunque, come il luogo più
proprio dell’ermeneutica teologica, poiché in essa il Verbo interpreta
se stesso, nel momento in cui spezza il pane (Lc, 24,30).
Attraverso una scrittura densa ma al contempo estremamente precisa, ci sembra
che Marion prosegua l’impresa levinasiana di pensare Dio “altrimenti”,
al di fuori del linguaggio dell’essere. Prendendo le mosse da Heidegger
e dalla sua critica della metafisica onto-teo-logica, L’Autore si spinge
oltre Heidegger stesso, nella ricerca di un pensiero non idolatrico. Ad una
prima parte critica assai suggestiva e ricca di riferimenti succede una pars
costruens che, a detta di Marion stesso, mancava ancora di un metodo filosofico
non metafisico e faceva ricorso piuttosto ad argomenti teologici che filosofici.
Possiamo leggere, dunque, Dio senza essere, saggio al confine tra teologia
e filosofia, teoresi filosofica e ricerca storica, come uno dei più interessanti
tentativi recenti di pensare Dio “altrimenti”.
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