La pubblicazione per i tipi di Laterza Linguaggio, volume che raccoglie
dodici saggi scritti da Hans-Georg Gadamer tra il 1968 e 1998, non costituisce
solo un’occasione per riflettere sulle prospettive della filosofia dopo
quella che si chiama – non senza una certa imprecisione – la svolta
linguistica del Novecento, ma offre anche l’opportunità per chiarire
come l’ermeneutica gadameriana si caratterizzi come pensiero che si interroga
sulle condizioni di possibilità del nostro abitare insieme il
mondo. Se infatti Heidegger aveva indicato come scena ideale della comprensione
l’abissale radura della Foresta Nera che, lontana dal chiacchiericcio
della città, permette di ascoltare in solitudine la forza di alcune parole
fondamentali della cultura greco-tedesca, per Gadamer si tratta di pensare il
comprendere in quanto evento essenzialmente sociale, dunque come comprendersi.
Si può affermare che l’allievo “urbanizzi” il pensiero
del maestro, di appena undici anni più vecchio, non perché lo
renda più civile e garbato (è questa la tesi proposta da Habermas
in un articolo del 1981), ma poiché ne riterritorializza il gesto legandolo
esplicitamente alla dimensione della polis.
È in questo orizzonte di riflessione che all’inizio de I
limiti del linguaggio, sicuramente uno dei saggi cruciali per l’architettura
del volume, Gadamer ritorna sul celebre passo della Politica dove Aristotele
descrive l’uomo come unico animale cui la natura ha donato la capacità
discorsiva. Riproponendo la tesi dell’alogicità del mondo animale,
Gadamer individua nella discorsività la caratteristica che distingue
e separa l’uomo dagli altri viventi: gli animali possono scambiarsi segnali
indicanti la presenza di cibo o di pericolo, l’uomo, invece, è
l’essere in grado, attraverso il discorso, di rappresentarsi cose anche
non presenti. È grazie a tale potenzialità linguistica che si
può deliberare su cosa sia conveniente e giusto poiché possiamo
decidere cosa sia meglio per noi solo in quanto capaci di immaginare quali saranno
le conseguenze delle nostre azioni. Non solo ci confrontiamo con il mondo quale
esso è ora, ma anche riusciamo a confrontarci con la sua realtà
futura. È importante sottolineare che il confronto con il mondo, perché
non rimanga vittima dell’arbitrarietà della speranza e dell’illusorietà
del desiderio, deve aver luogo nella reciprocità del dialogo, nello scambio
intersoggettivo: la natura ci ha dotato della capacità di aprirci, attraverso
la linguisticità, ad un’esistenza esposta al futuro e non schiacciata
nella presenza, ma, affinché l’essere esposti non sia dominato
dal “principio di piacere”, serve che l’apertura sia radicata
in una cultura comune. La struttura fondamentale della linguisticità
e della comprensione appare allora il convenire, il procedere insieme che ha
consentito l’edificazione di un orizzonte di senso obiettivo e condiviso.
Parlare una lingua non può non significare, per Gadamer, che aver imparato,
durante un lungo e complesso processo di allenamento e affiatamento, a limitare
il piacere di inventare dei giochi linguistici “privati” per armonizzarsi
alla realtà delle regole vigenti nella comunità a cui si partecipa.
Come nota Donatella Di Cesare nella sua introduzione al volume, non è
difficile scorgere in tale tematizzazione un’inaspettata affinità
tra le posizioni espresse da Gadamer e le considerazioni circa giochi linguistici
e impossibilità del linguaggio privato che troviamo nelle Ricerche
filosofiche di Ludwig Wittgenstein. Per entrambi il prezzo da pagare perché
ci possa essere comunicazione, e dunque una realtà e un linguaggio pubblico
a cui prendere parte, è la limitazione della creativa produttività
dell’immaginazione: uno scambio discorsivo è felice quando l’io
e il tu coinvolti riescono a mettere in gioco la propria individualità
in vista della sintonia di una partitura con-sentita. Usando una metafora di
Celan, nei passaggi conclusivi di Ritorno dall’esilio. Sulla lingua
materna Gadamer afferma che la lingua è come una grata la quale
se, da una parte, limita la possibilità di una libera produzione di significati,
dall’altra, accomunandoci in delle regole, permette la partecipazione
ad un insieme di giochi condivisi. Bisogna però aggiungere che questo
campo comune di gioco è anche, e soprattutto, un luogo di scontro: il
dissidio tra la creatività produttiva del singolo parlante e le regole
dell’uso non può mai arrivare ad una conciliazione. Le due tensioni
opposte, l’una che va verso l’innovazione e la trasformazione, l’altra
verso l’invarianza e la conservazione, striano con la loro presenza il
campo di battaglia che è la lingua. È per questo che Gadamer ritiene
che siano solamente marginali ed eccezionali i casi in cui la prassi linguistica
subisce un processo di irrigidimento tale da non lasciare ai parlanti nessuno
spazio di agibilità. In tali casi, identificati con le pratiche rituali,
i nostri corpi finiscono per essere totalmente assoggettati dalla fissazione
consuetudinaria e sono liberi solamente di adempiere al ruolo che la cultura
li obbliga a giocare. La normalità della prassi discorsiva è invece
tutt’altra. La condizione del nostro convivere, il linguaggio, non si
può sottrarre al movimento del divenire: l’apriori linguistico
è storico, dunque modificabile e trasformabile. Accade infatti che nella
realtà del mondo della vita ogni ripetizione non solo conserva l’orizzonte
semantico del passato ma lo modifica anche in modo da rispondere alle esigenze
dell’attualità. L’appartenenza ad una comunità linguistica
per Gadamer coincide con la potenzialità di rimodellarne il carattere,
di produrre delle nuove applicazioni paradigmatiche in grado di rinnovare le
regole dei giochi linguistici usuali. Non solo abitiamo una lingua, ma la lingua
che abitiamo è anche il contesto in cui modificare l’identità
ereditata dalla tradizione. Forse è proprio in queste considerazioni
che appare più netta la differenza di tono che smarca il discorso gadameriano
da quello di Heidegger.
Jacques Derrida, concludendo il saggio La différance, segnala
che il movimento heideggeriano si caratterizza come pensiero del ritorno poiché
è mosso dal desiderio di riconquistare una lingua puramente propria e
appropriata che soddisfi l’esigenza nostalgica di riapprodare nella patria
perduta del pensiero. Niente di tutto ciò in Gadamer. Ribadendo con forza
l’intuizione fondamentale di Verità e metodo, gli scritti
compresi in Linguaggio mostrano come comprendere significhi attivare
un poter-essere diversamente da come abitualmente si è. Nella comprensione
si tratta di accedere ad un altrimenti piuttosto che di riattivare
un’autenticità da cui ci siamo colpevolmente allontanati.
Bisogna però sottolineare che questo altrimenti – ed
ecco che si ripresenta il carattere “urbano” dell’interrogazione
gadameriana – non è qualcosa che si possa assaporare nell’estasi
privata di una camminata in mezzo a solitari boschi di provincia; può
essere prodotto e giocato solamente se si decide di continuare il sentiero fino
a quando, nell’incontro dialogico con altri, potremmo costruire nuove
forme di abitare il mondo, invenzioni di senso che non pretendano di essere
dimore finali ma solamente città rifugio nel procedere dell’esistenza.
La vera essenza del dialogo consiste nel trasformare coloro che decidono di
rimettersi ad esso: nel conflitto tra legalità della tradizione e produttività
dell’immaginazione, comprendersi significa riuscire, in un certo senso,
a ricordare il futuro.
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