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H.G. Gadamer, Linguaggio.
a cura di D. Di Cesare, Laterza, 2005

di Lorenzo Fabbri

La pubblicazione per i tipi di Laterza Linguaggio, volume che raccoglie dodici saggi scritti da Hans-Georg Gadamer tra il 1968 e 1998, non costituisce solo un’occasione per riflettere sulle prospettive della filosofia dopo quella che si chiama – non senza una certa imprecisione – la svolta linguistica del Novecento, ma offre anche l’opportunità per chiarire come l’ermeneutica gadameriana si caratterizzi come pensiero che si interroga sulle condizioni di possibilità del nostro abitare insieme il mondo. Se infatti Heidegger aveva indicato come scena ideale della comprensione l’abissale radura della Foresta Nera che, lontana dal chiacchiericcio della città, permette di ascoltare in solitudine la forza di alcune parole fondamentali della cultura greco-tedesca, per Gadamer si tratta di pensare il comprendere in quanto evento essenzialmente sociale, dunque come comprendersi. Si può affermare che l’allievo “urbanizzi” il pensiero del maestro, di appena undici anni più vecchio, non perché lo renda più civile e garbato (è questa la tesi proposta da Habermas in un articolo del 1981), ma poiché ne riterritorializza il gesto legandolo esplicitamente alla dimensione della polis.

È in questo orizzonte di riflessione che all’inizio de I limiti del linguaggio, sicuramente uno dei saggi cruciali per l’architettura del volume, Gadamer ritorna sul celebre passo della Politica dove Aristotele descrive l’uomo come unico animale cui la natura ha donato la capacità discorsiva. Riproponendo la tesi dell’alogicità del mondo animale, Gadamer individua nella discorsività la caratteristica che distingue e separa l’uomo dagli altri viventi: gli animali possono scambiarsi segnali indicanti la presenza di cibo o di pericolo, l’uomo, invece, è l’essere in grado, attraverso il discorso, di rappresentarsi cose anche non presenti. È grazie a tale potenzialità linguistica che si può deliberare su cosa sia conveniente e giusto poiché possiamo decidere cosa sia meglio per noi solo in quanto capaci di immaginare quali saranno le conseguenze delle nostre azioni. Non solo ci confrontiamo con il mondo quale esso è ora, ma anche riusciamo a confrontarci con la sua realtà futura. È importante sottolineare che il confronto con il mondo, perché non rimanga vittima dell’arbitrarietà della speranza e dell’illusorietà del desiderio, deve aver luogo nella reciprocità del dialogo, nello scambio intersoggettivo: la natura ci ha dotato della capacità di aprirci, attraverso la linguisticità, ad un’esistenza esposta al futuro e non schiacciata nella presenza, ma, affinché l’essere esposti non sia dominato dal “principio di piacere”, serve che l’apertura sia radicata in una cultura comune. La struttura fondamentale della linguisticità e della comprensione appare allora il convenire, il procedere insieme che ha consentito l’edificazione di un orizzonte di senso obiettivo e condiviso. Parlare una lingua non può non significare, per Gadamer, che aver imparato, durante un lungo e complesso processo di allenamento e affiatamento, a limitare il piacere di inventare dei giochi linguistici “privati” per armonizzarsi alla realtà delle regole vigenti nella comunità a cui si partecipa.

Come nota Donatella Di Cesare nella sua introduzione al volume, non è difficile scorgere in tale tematizzazione un’inaspettata affinità tra le posizioni espresse da Gadamer e le considerazioni circa giochi linguistici e impossibilità del linguaggio privato che troviamo nelle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein. Per entrambi il prezzo da pagare perché ci possa essere comunicazione, e dunque una realtà e un linguaggio pubblico a cui prendere parte, è la limitazione della creativa produttività dell’immaginazione: uno scambio discorsivo è felice quando l’io e il tu coinvolti riescono a mettere in gioco la propria individualità in vista della sintonia di una partitura con-sentita. Usando una metafora di Celan, nei passaggi conclusivi di Ritorno dall’esilio. Sulla lingua materna Gadamer afferma che la lingua è come una grata la quale se, da una parte, limita la possibilità di una libera produzione di significati, dall’altra, accomunandoci in delle regole, permette la partecipazione ad un insieme di giochi condivisi. Bisogna però aggiungere che questo campo comune di gioco è anche, e soprattutto, un luogo di scontro: il dissidio tra la creatività produttiva del singolo parlante e le regole dell’uso non può mai arrivare ad una conciliazione. Le due tensioni opposte, l’una che va verso l’innovazione e la trasformazione, l’altra verso l’invarianza e la conservazione, striano con la loro presenza il campo di battaglia che è la lingua. È per questo che Gadamer ritiene che siano solamente marginali ed eccezionali i casi in cui la prassi linguistica subisce un processo di irrigidimento tale da non lasciare ai parlanti nessuno spazio di agibilità. In tali casi, identificati con le pratiche rituali, i nostri corpi finiscono per essere totalmente assoggettati dalla fissazione consuetudinaria e sono liberi solamente di adempiere al ruolo che la cultura li obbliga a giocare. La normalità della prassi discorsiva è invece tutt’altra. La condizione del nostro convivere, il linguaggio, non si può sottrarre al movimento del divenire: l’apriori linguistico è storico, dunque modificabile e trasformabile. Accade infatti che nella realtà del mondo della vita ogni ripetizione non solo conserva l’orizzonte semantico del passato ma lo modifica anche in modo da rispondere alle esigenze dell’attualità. L’appartenenza ad una comunità linguistica per Gadamer coincide con la potenzialità di rimodellarne il carattere, di produrre delle nuove applicazioni paradigmatiche in grado di rinnovare le regole dei giochi linguistici usuali. Non solo abitiamo una lingua, ma la lingua che abitiamo è anche il contesto in cui modificare l’identità ereditata dalla tradizione. Forse è proprio in queste considerazioni che appare più netta la differenza di tono che smarca il discorso gadameriano da quello di Heidegger.

Jacques Derrida, concludendo il saggio La différance, segnala che il movimento heideggeriano si caratterizza come pensiero del ritorno poiché è mosso dal desiderio di riconquistare una lingua puramente propria e appropriata che soddisfi l’esigenza nostalgica di riapprodare nella patria perduta del pensiero. Niente di tutto ciò in Gadamer. Ribadendo con forza l’intuizione fondamentale di Verità e metodo, gli scritti compresi in Linguaggio mostrano come comprendere significhi attivare un poter-essere diversamente da come abitualmente si è. Nella comprensione si tratta di accedere ad un altrimenti piuttosto che di riattivare un’autenticità da cui ci siamo colpevolmente allontanati.

Bisogna però sottolineare che questo altrimenti – ed ecco che si ripresenta il carattere “urbano” dell’interrogazione gadameriana – non è qualcosa che si possa assaporare nell’estasi privata di una camminata in mezzo a solitari boschi di provincia; può essere prodotto e giocato solamente se si decide di continuare il sentiero fino a quando, nell’incontro dialogico con altri, potremmo costruire nuove forme di abitare il mondo, invenzioni di senso che non pretendano di essere dimore finali ma solamente città rifugio nel procedere dell’esistenza. La vera essenza del dialogo consiste nel trasformare coloro che decidono di rimettersi ad esso: nel conflitto tra legalità della tradizione e produttività dell’immaginazione, comprendersi significa riuscire, in un certo senso, a ricordare il futuro.

PUBBLICATO IL : 23-09-2005
@ SCRIVI A Lorenzo Fabbri
 

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