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P. Montani, M. Carboni (a cura di), Lo stato dell'arte. L'esperienza estetica nell'era della tecnica.
Laterza, 2005

di Lorenzo Marras

All’inizio del nuovo millennio George Steiner, interpretando e riassumendo gli ultimi decenni di riflessione estetica,  scrisse che «i cambiamenti attuali nell’esperienza della comunicazione, dell’informazione, della conoscenza, della generazione del significato e della forma sono probabilmente i più vasti e ricchi dei conseguenze da quando si sviluppò il linguaggio dell’homo sapiens (…) c’è un nuovo ambiente per l’uomo dopo von Neumann o Turing. Senza un riferimento, per quanto provvisorio, a queste travolgenti alterazioni nell’ambiente e nei mezzi della coscienza articolata, della concettualizzazione e della rappresentazione, qualsiasi studio della creazione e dell’invenzione, oggi, sarebbe antiquato». Il volume che qui presentiamo, Lo stato dell’arte. L’esperienza estetica nell’era della tecnica, a cura di Pietro Montani e Massimo Carboni, sembra voler offrire una prima risposta a tale sollecitazione. Strutturato in due parti ben distinte, ma, come sottolineano i curatori, da leggere come un progetto unitario (p. V), il testo vuole dare una prima summa della riflessione contemporanea intorno al rapporto tra esperienza estetica e la cosiddetta questione della «tecnica»; rapporto che parte dalla  problematizzazione della separazione moderna dell’arte dalla tecnica e arriva a mostrare come questo rapporto si sia andato, nella tarda modernità (o postmodernità che dir si voglia),  rimediando in un ben più complesso double bind, cioè in un rapporto di indisgiungibile distinzione. In un periodo di riflessione che possiamo definire postheideggeriano, nel senso di un periodo che ha avuto inizio soprattutto per l’eco e la diffusione ricevute dalle riflessioni heideggeriane appunto sulla tecnica, si è giunti ad una situazione di ipertrofica sovraesposizione della stessa locuzione «tecnica», che diventa sempre più equivoca, generando così, spesso e volentieri, più confusione che chiarezza. Il primo merito del testo in esame è perciò quello di offrire, attraverso la raccolta selezionata di alcune pagine degli autori che maggiormente hanno interrogato l’intreccio tra estetica, arte e tecnica, un ottimo strumento che dà al lettore, digiuno della discussione sulla questione della tecnica, un orientamento terminologico (le pp. 19-25 in particolare) tanto preciso quanto sintetico.  In un’epoca in cui parlare di «tecnica» o di destino della Tecnica – e il maiuscolo è qui intenzionale – è per molti versi glamour, assumendo quasi i toni della fascinazione «erotica» (pensiamo alle varie ontologie e/o metafisiche che proliferano sui più disparati oggetti tecnologici), mettere ordine in un campo semantico forse confuso offre al lettore la possibilità  di non venirsi a trovare nella spiacevole situazione di utilizzare termini che nel loro contesto semantico preciso sono con tutta probabilità chiari e appropriati, mentre in contesti altri rispetto alla loro collocazione originaria risulterebbero non solo equivoci, ma soprattutto inopportuni. È così, infatti, che alla fine degli anni novanta, all’epoca dell’intervento tecnico-militare della NATO in Kossovo, non era raro imbattersi in politici della regione balcanica che utilizzavano, interpretandole certo più ideologicamente che filologicamente, citazioni heideggeriane sulla questione della tecnica, allo scopo  fin troppo esplicito di lanciare strali contro il declino dell’occidente. Si evidenziava quindi un’equivocità alla quale il termine era soggetto, tale da fargli arrivare a significare argomentazioni talvolta contraddittorie rispetto alla provenienza della locuzione stessa: infatti le riflessioni heideggeriane, almeno nella speculazione successiva al 1945, difficilmente assumevano i toni di un giudizio di valore. Una sempre maggiore delimitazione semantica dei termini in questione risulta quindi essere più che opportuna. 

La connotazione politica della questione che abbiamo suggerito è però lungi dall’essere inopportuna, come potrebbe sembrare, per un lavoro dal taglio prettamente estetico come Lo stato dell’arte. Infatti, il secondo pregio del volume, che subito salta agli occhi, è proprio quello di non slegare la riflessione estetica da quella politica. Di tale legame se ne vede, invece, l’urgente necessità proprio nell’investigazione della messa in discussione che la tecnica costringeva di un linguaggio estetico forse non più adatto a rendere ragione di un fenomeno tanto complesso quanto oramai dilagante (p. 16 e p. 65 e ss.). Tutto ciò è evidente anche nella rimediazione dello statuto ontologico a cui il fenomeno tecnico costringe ciò che siamo soliti definire «opera d’arte» (pp. 117-123) .  Non è un caso infatti che la tecnica sia da sempre stretta a doppio legame ultimo con l’economia e la politica – militare in primis, e Heidegger stesso lo sapeva bene quando nel giugno del 1940 dichiarava «la motorizzazione della Wehrmacht» essere non tanto una questione meramente tecnica, quanto addirittura un «atto metafisico». 
Il volume, dicevamo, e diviso in due parti, divise a loro volta in due sezioni: la prima,  curata da Pietro Montani, ha un taglio certamente più teorico e generale o, meglio ancora, estetico nel senso più estensivo che tale disciplina può assumere, e cioè quello di una comprensione dell’arte come poetica che dà luogo ad un piacere pregno di riflessione; la seconda, curata da Massimo Carboni, si concentra su una riflessione, per dir così, pratica e specifica: le varie estetiche «regionali». Potremmo dire che le due parti assumono una strutturazione classica dell’argomentazione metafisica e critica. Ciò significa che un’estetica generalis deve precedere un’estetica specialis, quasi a ricalcare la strutturazione storica della metafisica per come si è data a partire da Duns Scoto: prima metafisica generalis e poi metafisica specialis, strutturazione nella quale devono precedere quelle scienze che forniscono i princìpi alle altre, seguendo, così, la subordinazione tipica che avviene tra genere e specie. È interessante rilevare la scelta di strutturare il testo secondo canoni rigorosi, canoni che sebbene possano sembrare arcaici fanno invece guadagnare al lavoro quel rigore che molto, troppo spesso in un’epoca cosiddetta postmoderna, viene messo da parte a favore del dominio dell’opinione, se non  addirittura di quell’azzardo che contraddistingue autori anche rinomati e fin troppo ammirati ad avventurarsi in campi specialistici – spesso tecnico-scientifici – che non gli competono, con risultati purtroppo il più delle volte imbarazzanti. Tale strutturazione classica permette in qualche modo agli autori, oltre a non scivolare nel dominio dell’opinione, anche di non cadere nel rischio di far pensare ad una minore importanza della seconda parte, che anzi si scopre essere quasi la verità della prima. Nel contesto che si potrebbe definire tecnoestetico, infatti, l’opera d’arte nella sua particolare singolarità, e non «l’opera d’arte», così come quella tecnologia nella sua particolarità singolarità, e non «la tecnica», non sono mai, quindi, il caso singolo o particolare di una struttura generale, semmai sono il caso particolare che si fa universale nella sua assoluta unicità e irripetibilità. Ciò contribuisce a evidenziare, quello che sembra emergere dall’inestricabile double bind delle due parti: che il progresso tecnologico degli ultimi due secoli o, in senso tecnico, la terza mediamorfosi mette in crisi quella che viene definita come estetica trascendentale e conduce la stessa forma estetica un passo oltre proprio quel trascendentale che ha contraddistinto la riflessione classica sul tema estetico/artistico. Ed è questo il terzo pregio che vogliamo riconoscere a questo volume.
Quanto siamo andati affermando nella prima parte si traduce concretamente nelle presentazione di alcuni testi  antologici di quegli autori che maggiormente hanno riflettuto sull’arte e la tecnica nella loro dimensione universale, a prescindere cioè dalla loro specifica incarnazione particolare. Avremmo quindi nella primissima sezione quell'ambito «delle riflessioni filosofiche davvero importanti, da cui sarà necessario prendere le mosse per porre il problema nella sua giusta luce» (p. 5) e cioè le riflessioni di Heidegger, Gehlen, McLuhan, Leroi-Gourhan, Rifkin. Nella seconda invece quegli autori che hanno riflettuto criticamente proprio sul rapporto estetica/tecnica e cioè Garroni, sempre Heidegger, Adorno, De Kerckhove.

Come già accennato, la seconda parte affronterà invece in maniera più specifica il rapporto tra alcune forme artistiche e alcune tecniche. Non si tratterà quindi di riflettere su la tecnica e l’arte, ma su quell’arte particolare e su quella tecnica particolare, appunto specificate nelle loro reali oggettivazioni adeguate.  Saranno quindi attori principali di questa parte Benjamin, Rognoni, Valery, Debreay, Baudrillard, Bense, Argan e altri che cercheranno di chiarire lo specifico delle varie arti (teatro, musica, architettura, pittura ecc.) in rapporto alla questione delle tecnologie (computer, rete informatica, tecnologia digitale ecc.). Abbozziamo qui di seguito alcuni rilievi critici che ci sembra potrebbero  essere utili per un’ulteriore discussione e approfondimento. Ci chiediamo infatti se il fenomeno digitale/informatico che contraddistingue la terza mediamorfosi, la quale, a dispetto di quanto solitamente si sostiene, non nasce con l’avvento dei computer nel secondo dopoguerra, ma andrebbe retrodatata di almeno un secolo, costituisca un oggetto che può rientrare, senza forzature, nella discussione sulla tecnica. Seguendo il principio hegelo-marxiano della quantità che si trasforma in qualità – l’Aufhebung – ci sembra che il fenomeno informatico/digitale che contraddistingue la terza mediamorfosi,  abbia al giorno d’oggi assunto  caratteristiche tali che, pur rientrando nel dominio della cosiddetta tecnica e/o tecnologia, arriva a esulare di gran lunga i confini, ponendosi quindi come una categoria storico/epocale sostanzialmente differente. In questo senso nell’epoca dell’informatica, come imprecisamente potremmo definirla, il cosidetto problema della tecnica, per come si è andato configurando negli anni trenta a partire da Benjamin e  soprattutto da Heidegger, come anche le categorie concettuali che ad esso sembrano essere ancorate, potrebbe risultare se non inutilizzabile, almeno fuorviante in un orizzonte percettivo e culturale dagli anni quaranta radicalmente mutato. Rispetto a quanto stiamo cercando di argomentare pensiamo in modo particolare alle questioni che sorgono dalle recenti opere di Mamoru Oshii e di Hideo Kojima, i quali in maniera proficua hanno cercato di riflettere su tale questione. Ci riferiamo soprattutto a quel Ghost in the Shell  di Oshii (inteso nella sua interezza: i due film rispettivamente del 1995 e del 2004, e la serie televisiva del 2002 in 26 episodi) che rappresenta uno degli apici nell’attuale riflessione sul mondo digitale e dell’informazione al di là della mera questione tecnologica; pensiamo anche a Metal Gear Solid: Sons of Liberty di Kojima, nel quale al pari dell’opera di Oshii si mostra come l’«informazione» si costituisca allo stesso tempo sia come l’intima verità del problema tecnico e sia della sua rimediazione in qualcosa di forse ancor più determinante: il problema dell’essenza dell’essere umano, della coscienza e dell’autopoiesis della coscienza sembrano infatti porsi come questioni di «organizzazione dell’informazione».  Al di là di come si può e si vuole interpretare l’equivoca questione heideggeriana de L’origine dell’opera d’arte, emerge in queste opere  come i confini tra prodotto/mezzo di produzione (poiesis/arte/techne) e non prodotto/natura (physis) si vengano rapidamente ad assottigliare, fino quasi a scomparire, dando così vita a qualcosa che certo è, ma allo stesso tempo non è una mera sommatoria dei suoi elementi costitutivi originari, appunto techne e physis.  Estetica, tecnica e informatica si equivocano nel problema  della clonazione – problema che non è solo tecnico, ma soprattutto «informatico», di  organizzazione e auto-organizzazione delle informazioni –  e dell’autopoiesis della coscienza. Tutto ciò emerge con un’evidenza persino imbarazzante soprattutto in Ghost in the Shell 2: Innocence, dove lo scottante, ma differentemente da quanto si potrebbe pensare probabilmente già invecchiato, problema della clonazione evolve dalla clonazione degli organismi umani a quello, forse ancor più scottante e attuale, della clonazione dell’anima umana (una serie auto-organizzantesi di informazioni?). Partiti dal superamento che il fenomeno informatico sembra far compiere alla questione del rapporto estetica-tecnica, si vede però – attraverso sorta di creeping featurism – come ciò introduca  e/o conduca anche verso il problema biologico/genetico, a dimostrazione di una complessità che non permette più alla riflessione estetica o tecnica di rimanere chiusa esclusivamente nei propri rispettivi campi disciplinari. Nel videogioco, ad esempio,  ciò è particolarmente evidente. La sintesi non quantitativa che si attiva nel fenomeno videoludico assume infatti la forma di un «impatto incrociato»: il risultato di due o più nuove tecnologie che maturano contemporaneamente e influenzano reciprocamente il loro sviluppo, si può evolvere in qualcosa di qualitativamente diverso e, quindi, autonomo rispetto alle singole parti che lo hanno originato. Il primo Ghost in the Shell evidenzia e dà da pensare su come il flusso di informazioni possa in futuro – sempre che non già non sia così effettivamente – organizzarsi in maniera imprevedibile in qualcosa che è allo stesso tempo prodotto e non prodotto, techne e physis, arrivando quasi a (non)vivere in uno stato ondeggiante di superposizione: è il problema dei sistemi emergenti.  In altri termini il flusso informatico autoorganizzantesi può ek-sistere al di là del particolare mezzo tecnico (il guscio) che gli ha permesso di venire alla luce (la rete, i computer, il silicio o cos’altro di «materiale» che lo aveva ospitato).

La seconda riflessione parte dalle considerazioni appena svolte sulla complessità degli intrecci disciplinari di un fenomeno complesso, riflessione che però non riguarda in maniera specifica il libro curato da Montani/Carboni, bensì la cultura umanistica in generale e in particolare quella che talvolta sentenzia contro il presunto dispotismo disumanizzante della tecnica pur non avendo, talvolta, alcuna conoscenza in che cosa effettivamente consista quella o quell’altra tecnica particolare. Nonostante la rilevanza dei nomi chiamati in causa, non è infatti possibile non notare anche ne Lo stato dell’arte l’assenza di coloro che  in un libro sulla tecnica avrebbero forse il diritto e il dovere di contribuire alla riflessione: i tecnici. È vero che un antico vezzo della cultura umanistica sia quello di non aprirsi, anche quando si affrontano questioni estranee al proprio campo specifico, ai diretti interessati per confrontarsi con loro e sentire cosa ne pensino. La situazione odierna, però, con la dilagante compenetrazione di ambiti  scientifici differenti, richiama ad una tanto urgente quanto necessaria presa di coscienza della necessità di questa apertura. Una cultura umanistica ogni giorno sempre più vicina al tramonto – anche e soprattutto per la chiusura verso altre discipline di cui sopra – potrebbe trovare nel confronto e dalla collaborazione con le discipline scientifiche la possibilità di un proprio rinnovamento e di una maggiore sensibilità verso le problematiche e l’immaginario contemporanei. La continua e invasiva rimediazione – anche dei campi scientifici particolari – a cui stiamo assistendo sembra infatti non permettere più di poter parlare di tecnica senza conoscerne almeno in parte le caratteristiche specifiche. Ma allora perché oggi non apprendere le nozioni su questa o quella tecnica attraverso un colloquio aperto e continuo con coloro che sono specializzati?
Alcuni accenni fatti nelle precedenti osservazioni ci permettono, in conclusione, di sottolineare come nel testo non venga purtroppo citato alcun autore che si è occupato del fenomeno estetico/tecnologico a nostro modo di vedere più rilevante degli ultimi anni: il videogioco.  Certo, i curatori del volume  hanno immediatamente avvertito che non si aveva la pretesa di proporre un quadro esaustivo del rapporto arte/tecnica (pag. V), e che quindi altri  percorsi sarebbero  stati possibili (pag. VI). Nonostante ciò per chi scrive il fenomeno videoludico sia l’esperienza estetica forse fondamentale del nostro tempo tecnologico/digitale, quella che maggiormente manifesta il cambiamento di paradigma percettivo e categoriale che l’epoca dell’informatica sta attuando. E non si sta solo parlando dell’ormai vasta bibliografia critica, anche italiana, sull’argomento «videogioco», bibliografia che difficilmente in futuro si potrà ignorare se si vorrà parlare in maniera esauriente e complessa dei rapporti tra esperienza estetica e la questione della  «tecnica», ma dell’esperienza videoludica in se stessa.  Nel videogioco, infatti, si viene a manifestare proprio quella compenetrazione delle figure di umanista/artista e scienziato/tecnico/informatico cui abbiamo appena accennato. Il fenomeno videoludico, nonostante si collochi al di là del fenomeno artistico e dell’opera d’arte classicamente intesa, sembra infatti mettere radicalmente in discussione o, meglio, rimediare quello che in fondo è e rimarrà il problema estetico per eccellenza: il mistero della poiesis e/o creazione (di un’opera d’arte). Le domande che il videogioco sta cominciando a porre all’esperienza estetica si stanno infatti facendo maggiormente urgenti e la coincidenza sempre più stretta tra performance dell’utente e poiesis/creazione attuata dal e nel videogioco – dopo essere stata sdoganata nell’ambito degli studi semiotico/comunicativi - può lasciare ancora a lungo indifferente la riflessione estetica.  Questa coincidenza di performance e creazione, infatti, viene sempre di più ad attuarsi attraverso un dialogo con l’opera che, differentemente da quella che si vuole definire arte interattiva (dove l’interazione non può dirsi certo bidirezionale, se non nel caso si utilizzino appunto dei videogiochi) non si lascia più riscrivere passivamente da un utente che la interpreta o la manipola, ma sta lentamente cominciando a «collaborare» in modo quasi senziente, a questa stessa riscrittura. Procedural programming (ad esempio nell’imminente Spore di Will Wright), sistemi fisici dinamici (abbozzati in modo geniale da Half Life 2 di Valve)  e algoritmi di intelligenza artificiale evolutiva (come nel progetto N.E.R.O., il cui algoritmo «rtNEAT» viene quasi ad essere esso stesso considerato come un fenomeno artistico) stanno già ora rimappando le categorie comprensione estetica del nostro orizzonte culturale, rendendo così manifesto quel superamento del problema tecnico in problema informatico che la nostra epoca sta vivendo e che in futuro si renderà sempre più evidente.  

E in realtà il futuro qui evocato non sembra essere neanche tanto lontano, basti pensare, infatti, alla presentazione, fatta solo poche settimane fa al Tokyo Game Show 2005, del fino ad allora misterioso controller annesso alla next generation console Nintendo in uscita per il 2006 (il cui nome in codice è in parte rivelativo: Revolution). Nel campo della percezione e della riflessione sinestetica e del rapporto con la tecnologia informatica tutto lascia supporre che si tratti realmente di una rivoluzione. Se fino ad ora la «logica della ludologica» è stata «un pensare con le dita» (per usare la felice definizione di Bittanti), il controller del Revolution sembra far fare un passo avanti, non solo alla ludologica, ma all’esperienza (sin)estetica tout court: «pensare con e insieme al corpo». E se quello che si è potuto vedere nel filmato presentato da Satoru Iwata sarà anche solo in parte confermato, allora sì che il controller del Revolution potrà essere definito come un vero e proprio atto metafisico.

PUBBLICATO IL : 23-10-2005
@ SCRIVI A Lorenzo Marras
 

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