Il nuovo libro di Enzo Collotti entra di forza nel dibattito storiografico
inerente la relazione tra la storia d’Italia e lo sterminio degli ebrei
d’Europa. Non è un caso che Collotti ponga, pressappoco a metà
del suo libro, un interrogativo che potrebbe costituire la ragione fondante
della sua ricerca, oltre che la conclusione implicita nella retoricità
stessa della domanda: «Davvero l’Italia si può chiamare “fuori
dal cono d’ombra dell’Olocausto”, come vorrebbero autorevoli
storici (De Felice)?».
La prima questione concerne l’antisemitismo. La presenza modesta della
comunità ebraica in Italia non consentì nell’epoca moderna,
anche laddove sollecitata dalla Chiesa cattolica, un radicamento dell’antigiudaismo
tra la popolazione. Tanto meno tale sentimento appariva riscontrabile tra la
fine del secolo decimonono e i primi del Novecento, in particolar modo per lo
straordinario ruolo giocato da molti ebrei nel processo di unificazione nazionale,
ricambiato da riconoscimenti, dopo secoli di ghettizzazione (si escluda la Roma
dei papi, dove la dimensione del ghetto fu superata soltanto nel 1870), a partire
dallo Statuto Albertino, che nel 1848 gettava i presupposti per l’agognato
processo di emancipazione. L’unica vera spinta antisemita era quella riconducibile
a settori del cattolicesimo italiano, di non secondaria importanza, che confluivano
nelle pesanti invettive antigiudaiche della rivista “Civiltà Cattolica”.
L’affermazione politica del fascismo negli anni Venti non preannuncia
in alcun modo la deriva antisemita, e non manca il sostegno di parte della comunità
ebraica al nuovo regime. Lo stesso Mussolini considera ancora nel 1932 il razzismo
come una “stupidaggine”, e nega ogni forma di antisemitismo nella
cultura italiana. E’ altrettanto vero tuttavia, come Collotti ben evidenzia,
che nel movimento fascista sono presenti alcune tendenze filonaziste che nella
pubblicistica antisemita, in particolare grazie all’indefessa opera propagandistica
di Giovanni Preziosi, mostravano una certa intransigenza ideologica. Intorno
metà degli anni Trenta accade qualcosa, si avvia un processo senza ritorno
di cui, e Collotti è ben attento a evidenziare questo passaggio, Mussolini
è e sarà il principale responsabile. Secondo Collotti, «l’inaugurazione
della politica antiebraica in Italia non derivò da alcuna pressione tedesca,
essa fu una decisione autonoma del regime fascista nel tentativo di rivitalizzare
il regime dall’interno, approfittando di una congiuntura internazionale
che ne agevolava le mosse». La dinamica è quella della costruzione
del nemico interno, voluta con forza da Mussolini per occultare la mancata risoluzione
dei problemi reali del paese. Il punto è capire come fu possibile in
Italia identificare l’ebreo come nemico interno. Due pilastri della politica
fascista, lo sforzo demografico e l’imperialismo orientato verso l’Africa,
si costituiscono come le direttrici principali che porteranno alla costruzione
artificiale dell’antisemitismo italiano, tradottosi in prima istanza nella
promulgazione delle leggi razziali.
La prima tendenza, quella relativa al popolazionismo, introduce un disegno di
incremento demografico ma anche di “difesa della razza”. Tuttavia
è la conquista della Abissinia, come del resto era accaduto nelle altre
potenze imperialiste nei decenni precedenti, a favorire il proliferare non solo
di un orientamento politico in difesa dell’integrità razziale,
ma anche di una straordinaria pubblicistica pseudo-scientifica. Intellettuali
e scienziati si avviano dunque a produrre vere e proprie elucubrazioni sulle
differenze somatiche, psicologiche, culturali tra indigeni e occupanti, con
la tendenza a proporre senza difficoltà attribuzioni di superiorità.
L’intenso sviluppo dell’africanistica vede dunque l’animarsi
di interventi pubblici di antropologi ed etnografi nel dimostrare l’inferiorità
razziale delle popolazioni africane. Si pensi all’antropologo Lidio Cipriani,
che dall’autorevole sede dell’Università di Firenze non esita
a propagandare la teoria delle condizioni biologiche originarie come fondamento
oggettivo dell’inferiorità degli indigeni. Su tale base, si sviluppa
l’avversione nei confronti di ogni forma di contaminazione razziale. Ne
conseguono prescrizioni legislative che aborriscono il matrimonio tra sudditi
e italiani. Recita il decreto del 19 aprile 1937: «Il cittadino italiano
che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d’indole
coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera
appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi o concetti giuridici
e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana,
è punito con la reclusione da un anno a cinque anni».
Obiettivo principe di questa legislazione è quello di evitare il più
possibile il meticciato, significativamente avversato tutt’oggi, sul piano
non più razziale ma culturale, dall’ex presidente del Senato Marcello
Pera. Il meticcio incarna il pericoloso veicolo dell’equiparazione progressiva
tra italiani e sudditi, e pertanto deve rimanere quanto più possibile
discriminato, nonché legalmente perseguibile fino a giungere alla minaccia
della reclusione. Il meticciato, così come in tempi antichi il matrimonio
tra ricchi e poveri, si presenta con una natura intrinsecamente sovversiva.
Secondo Collotti, questo principio sarebbe stato perfezionato e completato il
17 novembre del 1938, con i Provvedimenti per la difesa della razza italiana;
tale clima di fanatismo razzista rende in qualche misura “accettabile”
la lotta antiebraica come lotta in difesa della razza.
Con la creazione dell’Asse l’accostamento alla Germania diviene
quasi un processo di progressiva sovrapposizione: in quel frangente, sottolinea
acutamente Collotti, l’antisemitismo acquisisce una carica che in Italia
era rimasta fino a quel momento estranea: l’ebraismo infatti è
identificato col sistema democratico in quanto tale, genitore sia delle democrazie
“plutocratiche”, sia del socialismo e del comunismo. Fin dal 1937
Mussolini e il PNF danno forma e concretezza a una politica di antisemitismo
sistematico. Si scatenano a questo punto alcuni intellettuali chiave del regime.
Su questo fronte, il rettore dell’Università per stranieri di Perugia,
nonché collaboratore di testate quali “Il Popolo d’Italia”,
Paolo Orano, pubblica in quell’anno lo scritto Gli ebrei in Italia,
in cui tendenzialmente si intimano gli ebrei italiani ad adeguarsi alla religione
di Stato, integrandosi senza opporre resistenza alcuna, attaccando inoltre con
particolare violenza le componenti sioniste della comunità ebraica italiana.
Nello stesso anno Preziosi promuove la pubblicazione dopo sedici anni del noto
falso storico I “Protocolli” dei “Savi Anziani”
di Sion, con prefazione di Julius Evola. A proposito di Evola, Collotti
sottolinea con indicazioni chiare e significative che: «Evola non rappresenta
in alcun modo l’antesignano di una versione edulcorata del razzismo antisemita
al confronto col biologismo del razzismo nazista: il razzismo spirituale dal
quale parla Evola vuole partire appunto dal dato biologico, che gli pare ancora
troppo rozzo e deterministico, per sublimarlo e portarlo a pieno compimento
“sul piano dello spirito”, ossia sul piano metafisico» (p.
48). Preziosi, sempre nel 1937, pubblica inoltre nella “Vita italiana”
un manifesto di dieci punti in cui illustra il problema ebraico, riconducendolo
all’immutabilità e inalterabilità dell’essenza ebraica,
sciorinando una serie interminabile di pregiudizi di vecchia data, e prefigurando
comunque l’impossibilità di una soluzione che non sia la distruzione
dell’ebraismo, o al massimo l’isolamento degli ebrei dal resto degli
altri popoli. Al di là di queste forme di produzione ideologica, il regime
organizza in maniera energica un sistema di propaganda deputata alla caccia
agli ebrei: si tratta dell’organo di stampa intitolato “La difesa
della razza”, diretto da Telesio Interlandi e in cui come segretario di
redazione troviamo niente di meno che Giorgio Almirante, padre politico di eminenti
esponenti del panorama istituzionale contemporaneo.
Centrale è inoltre il ruolo del mondo scientifico italiano. Una componente
attiva redige e sottoscrive il delirante Manifesto degli scienziati razzisti,
in cui si sperimentano acrobazie teoriche per definire una “razza italiana”.
Che tipo di razzismo è quello proposto dal fascismo? Ovviamente il più
pericoloso, quello biologico, indifferente al cambiamento e segnato dall’irrimediabilità
dell’appartenenza biologica. Al punto sette si legge infatti con chiarezza:
«La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto
di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose».
Ma notevole incidenza nella storia della persecuzione degli ebrei in Italia
ricade anche sulla componente passiva della comunità scientifica, che
non esita a occupare quei posti, soprattutto nelle università, dai quali
i loro colleghi ebrei vengono estromessi, senza accennare a significative forme
di protesta.
Organizzata la sfera propagandistica, occorre dare fiato alle misure legislative.
Censimenti, classificazioni, discriminazioni (un esempio per tutti è
l’indicazione di “razza ebraica” sulla pagella scolastica),
divieti civili e militari, leggi speciali, spoliazioni patrimoniali e deportazioni
sono i passaggi progressivi di una volontà persecutoria che non è
affatto ignara di ciò che accade negli stessi anni in Germania (si pensi
alla notte dei cristalli), ma che si dispone a condurre questa politica fino
alle sue conseguenze più estreme (di tutti questi graduali passaggi procedurali
Collotti fornisce documentazione completa ed esaustiva). E gli altri poteri
dello Stato? Notoriamente il re non pone veto, mentre la Chiesa paradossalmente
interviene in maniera del tutto singolare: non certo per condannare le leggi
razziali, ma per rendere da esse immuni gli ebrei convertiti al cattolicesimo.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, la tendenza naturale degli ebrei
al contatto con le comunità ebraiche internazionali, fa sì che
da nemico interno, gli ebrei vanno a coincidere, nella percezione del regime,
con il nemico di guerra. Ma la recrudescenza della persecuzione subisce una
vera e propria impennata con la costituzione della Repubblica di Salò.
Gli ebrei, italiani o stranieri, vengono sistematicamente consegnati ai tedeschi,
e risulta dalla documentazione citata e analizzata da Collotti che né
i fascisti né la Santa Sede possono ignorare le conseguenze della deportazione.
A giustificazione di tale partecipazione attiva all’Olocausto, appare
sul Corriere della sera del 1 dicembre 1943 un commento a un’ordinanza
con la quale si spediscono nei campi di concentramento tutti coloro che erano
stati precedentemente “discriminati”, in cui si legge: «E’
alla tribù d’Israele che risale la maggior parte delle responsabilità
di questa guerra. Impossessatasi delle leve di comando dell’economia mondiale,
essa ha premeditato l’aggressione e il soffocamento dei popoli proletari,
scatenando un conflitto universale il cui scopo è quello di dissanguare
l’Europa e dischiudere le porte del potere assoluto della razza eletta».
Fortunatamente l’operazione ideologica del regime riscosse tra la popolazione
risultati sufficientemente moderati, quel tanto da garantire per una parte importante
degli ebrei perseguitati la protezione da parte di singoli cittadini o amministratori
pubblici che rischiarono anche la propria sicurezza per opporsi alle ingiuste
persecuzioni. Tuttavia, è evidente che la solidarietà di alcuni
non potrà cancellare lo zelo degli altri nel perpetrare una politica
di sterminio, cui la nostra storia recente non è stata estranea.
|