In questo suo primo lavoro Fabbri problematizza il rapporto che intercorre tra pragmatismo e decostruzione mettendo in questione due temi chiave dell’interpretazione del pensiero di Derrida offerta da Rorty. In primo luogo la riduzione pragmatista della scrittura decostruttiva a mera letteratura, pura «autobiografia» capace di indicare al pensiero una nuova via, sciolta da quello che per Rorty è il «presupposto trascendentale» su cui si è fondata l’intera tradizione filosofica moderna, da Cartesio a Kant. In secondo luogo la liberazione della filosofia da qualsivoglia velleità politica che la decostruzione, filtrata dal gesto ermeneutico del filosofo americano, renderebbe possibile.
Rispetto alla prima questione, Fabbri critica la fondatezza dell’argomentazione di Rorty per la quale a Derrida spetterebbe il merito di aver provocato una definitiva rottura tra la filosofia ed ogni pretesa metafisico-trascendentale. Contrariamente a questa visione Fabbri scrive che «l’a-priori trascendentale è sempre contaminato, abitato, infestato da macchie di empiricità autobiografica. Non c’è un raccoglimento ontologico, una Versammlung, che riduca la dispersione ontica: l’io è una persona» (p. 55). Quel che l’autore rivendica è l’incapacità per la scrittura disseminale di distinguere tra filosofia e biografia, tra l’idealità dell’io trascendentale e l’ineliminabile singolarità del vivere effettivo dell’io empirico. L’autore si interroga a più riprese sulla legittimità di considerare la decostruzione in termini di ascetismo teoretico, ovvero di una volontà di oltrepassamento assoluto e senza resti della tradizione metafisica. Attraverso l’analisi di due testi importanti di Derrida, La mitologia bianca e Il monolinguismo dell’altro, Fabbri, in opposizione all’interpretazione pragmatista che vede proprio tra questi due saggi il passaggio dalla teoria all’autobiografia, cerca di dimostrare piuttosto la compresenza in entrambi gli scritti dell’istanza trascendentale e del mondo empirico. L’errore principale che l’autore ascrive all’interpretazione di Rorty è il suo dissipare l’aporeticità costituiva e intrascendibile in cui si muove la decostruzione, ovvero la paradossalità per cui un oltrepassamento post-filosofico e post-moderno risulta al tempo stesso necessario e impossibile. In fin dei conti – così conclude il secondo capitolo del libro - quella di Derrida è «un’analisi trascendentale circa l’impossibilità di ogni analisi puramente trascendentale » (p. 110). All’a-poria (termine che significa letteralmente «assenza di vie d’uscita») in cui abita consapevolmente il pensiero di Derrida, Fabbri contrappone criticamente l’eu-foria di Rorty come facile scappatoia, «buon passaggio» capace di condurci oltre.
In merito alla seconda questione, Fabbri discute la tesi di Rorty secondo la quale la decostruzione sarebbe destinata all’esilio dalla pubblicità dello spazio politico. Secondo l’autore il complicato dissidio tra filosofia e politica, tra «Trotsky e le orchidee selvagge», viene risolto in modo troppo semplicistico da Rorty. Quest’ultimo, infatti, sostenendo che il post-strutturalismo non ha avuto in realtà alcuna influenza sulla vita pubblica della società moderna, relega la filosofia ad un ruolo esclusivamente constativo, privando l’atto del theorein di ogni ambizione performativa. Contro tale assunto Fabbri chiama in causa proprio Derrida, il quale, infatti, in più occasioni ha messo in questione la distinzione illuministica tra teoria e prassi, ribadendo la commistione ineludibile tra pensiero e realtà. È in forza di questa convinzione che il compito dell’Università, e della filosofia in particolare, è per il filosofo francese quello di costituirsi come luogo di resistenza critica, il cui dovere precipuo sia la radicalizzazione della pratica del domandare. Nell’università senza condizioni sognata utopicamente da Derrida il pensiero si fa carico del proprio manifestarsi anche come modello politico e si assume così la responsabilità di preparare l’avvento di una democrazia a venire, avvalendosi del potere del peut-être, di un forse che consenta di sospendere husserlianamente il reale. Pertanto, secondo l’autore, dietro l’interpretazione di Rorty, tesa a impedire un’ingerenza della carica eversiva della decostruzione nella sfera del politico, si nasconde il timore nei confronti di un pensiero dirompente, imprevedibile, che forse metterebbe a repentaglio gli istituti del presente, e chissà lo stesso nostro concetto salutare e fiero di democrazia. «Igienista della sicurezza del corpo sociale come totalità indivisibile, Rorty, da perfetto epidemionologo, afferma che scopo della politica è quello di armonizzare o gestire le tensioni in modo da evitare cambiamenti radicali e conservare la dittatura del presente» (p. 165): così Fabbri stigmatizza la visione di Rorty, per la quale addomesticare Derrida diventa un imperativo categorico; purché si scongiuri l’irruzione dell’altro, dell’altrimenti, del dono incalcolabile, purché l’economia della casa occidentale sia salva.
|