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Manlio Sgalambro, Nietzsche. Frammenti di una biografia per versi e voce.
Bompiani, 2006

di Luca Viglialoro

Presentare un’opera di Manlio Sgalambro è sempre molto difficile, soprattutto quando si tratta di un confronto filosofico in versi. Senza contare, inoltre, che, secondo una posizione filosofica ben precisa (benché mai espressamente dichiarata) nei confronti dei derridiani e delle filosofie del “post”, è lo stesso teologo a vietare molteplici letture ai suoi scritti, che definisce “dogmatici” nell’introduzione al Trattato dell’empietà.
Ma perché un confronto esclusivo – direi, per “tutti e per nessuno” – proprio con Nietzsche? Perché scrivere “frammenti di una biografia per versi e voce”, come cita il titolo? Per rispondere bisogna considerare lo Sgalambro della finis religionis e finis philosphiae del Trattato. In questa prospettiva, dunque, Nietzsche sembra incarnare una parte di quel travaglio intimo, sprezzante che porta verso la teologia neoscolastica di Suarez e Melchor Cano – e, da qui, all’empietà sgalambriana. Il filosofo di Roecken, però, non è stato in grado di arrivare a tanto: ha bandito la metafisica, ma non è riuscito, come dimostra con chiarezza l’Anticristo, ad odiare il Dio incarnato. Nell’Introduzione, Sgalambro si chiede come sia arrivato a portare il confronto in versi: “C’è invece un modo migliore per parlare di Nietzsche di quello della poesia? Non una poesia compassionevole, s’intende. Ma una poesia brutale (corsivo mio, ndr) come avviene quando non si incontrano questi o quegli accidenti del sentimento, ma la durezza di due che pensano.” (pag.1). Nel polemos teologico Nietzsche sbiadisce, non è “qu’une figure rythmique vide, ou remplie de syllabe vaines” (per dirla con Valery); laddove l’avversario, Sgalambro, non offre compassione, tuttavia ingentilisce in una pietas cesariana. Vince, schiavizza, ma non uccide il nemico “[…] daremmo forse retta ad una poesia su Nietzsche che non conducesse alla pietà?” (Introduzione, pag.1).
Ed eccoli insieme, come “dinamiti”, bacchettare il “Vulgarkatholizismus” in cui “si annida un teismo/ immolato, inconfutato, mai controllato.” (pag15), per poi proporre l’altra faccia, la faccia dell’eros dei che cassa il timor dei: “[Dio] Si carica di tutti gli attributi/ di sputi, odium, fastidium, mépris./ Ecce Deus./ In altre parole, ti rendo ampiamente/ edotto/ che Dio non è morto.” (pag.16) Così la sentenza teleologico-storica più discussa del novecento, “Dio è morto”, si spuria e si insozza come un cadavere marcescente di uno che “Prima che si chiamasse/ col nome di Assassino/ aveva un altro nome, Dio.” (pag.23). Sulla trama di un Dio sin troppo secolarizzato, emerge persino la vita impaurita ed insicura di Nietzsche tra gli incontri con Lou Salomè, con Wagner e con la Basilea “brutta e desolata”, in cui la teologia si mostrerà “l’unica esca per prendere Dio” (pag.38).  
La conciliazione tra Sgalambro e Nietzsche avviene nella “sana demenza”, per mezzo di un connubio erotico-intellettuale che toglie gli attriti e uccide il dubbio con “concetti/ ed emozioni tenuti assieme/ dal nostro coraggio di assassini.”(pag.70). “Stasera un colpo di versi/ cancellerà per un momento/ il mondo.”
Ut unum sint.

PUBBLICATO IL : 04-10-2006
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