Renata Viti Cavaliere, professore ordinario di Filosofia teoretica alla “Federico
II” di Napoli, frequenta con assidua passione il pensiero arendtiano e
ha discusso alcune questioni filosofiche ad esso relative in nove saggi raccolti
nel volume Critica della vita intima. Soggettività e giudizio in
Hannah Arendt (Guida, 2005, pp. 9-244). La “filosofia del giudizio”
è tema sul quale l’autrice riflette da lungo tempo e che ha trovato
una prima esposizione in Il giudizio e la regola (Loffredo, 1997),
testo dove già si individuava nella meditazione arendtiana un momento
determinante della discussione. Il nuovo lavoro è altresì percorso
dalla questione del giudizio, come proposta di un pensiero situato nel mondo
e nella storia. In questo contesto si arricchisce però di una critica
all’“intimo”, anche come fondamento biologistico, che non
dà ragione della soggettività umana. L’autrice presenta
il suo studio con la suggestiva immagine di un “io all’esterno”,
un intérieur che si proietta nello spazio pubblico, il solo
capace di ospitare e realizzare la tensione al plurale degli individui.
La figura intellettuale di Hannah Arendt si inscrive, per ricorrere alla lingua
greca da lei amata e padroneggiata fin da giovane età, sotto il segno
della polypragmosyne, “si prodiga in più settori”,
e non certo secondo l’appropriazione negativa che alcuni suoi critici
potrebbero tentare di tale inscrizione. Allevata da pensatori professionali,
appassionata conoscitrice della cultura antica e della filosofia e poesia tedesche,
attivista sionista, teorica della politica, pubblicista e autrice di intensi
saggi letterari, Arendt ha coltivato, con la sua vita e nei suoi “poligrammatici”
interessi intellettuali, l’aspirazione al plurale che le gravi crisi storiche
e politiche del Novecento avevano infranto. Un ideale di pluralità che
proviene, malgrado le interruzioni, le sospensioni, le negazioni della storia,
dalla tradizione umanistica antica e moderna, e che non si limita biecamente
a collocare il Soggetto al centro del cosmo; semmai ricerca e reclama per l’umano
un posto nel mondo, il luogo della visibilità, del discorso, dell’azione
e del pensiero. In un’epoca di critica al professionismo e allo specialismo,
ma anche di postumanesimo e di barbarie antistorica, il bilancio dell’eredità
arendtiana è variamente discusso, calibrato di nuovo su questa identità
plurale. Così in sede storiografica sono ridiscussi i suoi giudizi sul
totalitarismo e sulla rivoluzione, in ambito critico ci si interroga, talvolta
con eccesso di zelo, sulla popolarità delle sue posizioni e sulle insidie
di una simile fama, mentre una ragionevole astensione dalla chiacchiera andrebbe
praticata sulla sua vita sentimentale. Un campo di investigazione non marginale
riguarda la fisionomia filosofica di Arendt, l’essere stata – suo
malgrado – una pensatrice autonoma e di non comune rigore teoretico, come
testimonia la sua carta del pensiero plurale che è La vita della
mente. Lo studio di Viti Cavaliere dà ragione di questa tonalità
filosofica, attraverso una polifonia tematica e una scrittura raffinata che
sorreggono le originali meditazioni delle quali tenterò una discussione
nel seguito.
Le tesi arendtiane sulla condizione umana, sul giudicare e sulla vita pensata
descrivono – è sintetizzato nella premessa – l’immagine
possibile di una soggettività che trova il proprio punto di forza nella
specificità umana della ragione e della ragionevolezza, del senso comune
e dello spazio condiviso, e dunque autenticamente politico, tra individualità.
Nessuna di tali determinazioni può essere disgiunta dalle altre giacché
il poter-essere della mente si invera nella fattualità del mondo, passa
all’atto ogni volta che incontra persone, paesaggi e cose. Poco conta
se tale “urto” col mondo avviene nel clamore e nell’irruente
evidenza della realtà oppure in quello che, in apparenza, è il
secretum dell’anima, luogo non meno reale, sebbene meno visibile,
dove l’esperienza con l’alterità gode di una dimensione in
più, che manca alla tangibilità degli eventi in corso, a quel
loro essere – come si dice – “a portata di mano”, vale
a dire presenti. Il dialogo del sé con sé implica sempre già
un altro, un infra che è condizione di possibilità del
pensare e dell’agire, e nessuno, sosteneva Arendt attraverso le parole
di Catone, è meno solo di quando è con se stesso e più
attivo di quando fa nulla: «vi sono due modi fondamentali dell’essere-insieme
– si legge nei frammenti sulla politica –: l’essere-insieme
con altri uomini e con i propri pari, dal quale scaturisce l’azione, e
l’essere-insieme con il proprio Sé, cui corrisponde l’attività
del pensiero» (p. 121). Questa dimensione ulteriore è meta-storica,
ma non nel senso della trascendenza, bensì in quello chiaramente mondano
e terrigeno di osservare la storia al di sopra della storia: è lo sguardo
dall’alto (theoria nella prospettiva dello spettatore) che rende
simile al divino l’umano e, più volte frainteso, ha alimentato
deliri di onnipotenza. Non si sbaglia a definire trascendentale questo uso della
facoltà del pensiero, in omaggio (e non solo) a Kant che, forse tra gli
autori, è l’autore veramente arendtiano.
Sotto il segno di questa ascendenza, fieramente rivendicata da Arendt, si collocano
per diversi aspetti molti dei saggi di Viti Cavaliere. Il primo eloquente segno
di tale appartenenza è già contenuto nel titolo del volume. “Critica”
è l’analisi del fenomeno “vita” (intrinseca è
la ridefinizione dell’idea di soggettività) nonché l’attitudine
precipua del giudizio in quanto pensiero nel mondo. Ancora, la distinzione tra
intelletto e ragione, il contestuale riconoscimento della differenza tra sapere
e pensare, la connotazione politica del giudizio riflettente estetico, la centralità
dell’apparire, costituiscono le più evidenti disseminazioni kantiane
nella metodologia e nella fenomenologia critica di Arendt. Libera dal pregiudizio
secondo il quale seguire un autore equivale a ripetere senza criterio un’intera
visione del mondo, la pensatrice tedesca trovò in Kant il punto d’approdo
di una modernità che, al di là delle comode parcellizzazioni storiografiche
e degli eccessi di una razionalità strumentale, altro non esprime se
non un modus, sinonimo di autentico pensiero, incardinato nel rifiuto
del cieco autoritarismo in nome della presenza al proprio tempo, nel porsi,
come nella metafora kafkiana più volte da lei citata, nel lacunoso presente
tra passato e futuro, e così pensare nella forma del giudizio soggettivo
e plurale del Geschmacksurteil kantiano. Si tratta, com’è
ovvio, di una originale e quindi non fedele lettura, che mantiene in vita tuttavia
l’invito a relazionarsi al passato senza gli infingimenti delle eredità
e dei pregiudizi. Non esiste opera che non sia destinata a morire, a farsi «lettera
morta»; ed è proprio la coscienza della morte all’autore
delle sue parole, delle idee, dei prodotti del suo intelletto, per consegnarsi
al mondo, dove attendono uno «spirito vivente» in grado di resuscitarli,
la pratica ermeneutica che ha ispirato Arendt nei confronti con i suoi autori
(p. 86 sg.). Le macerie della storia che stanno alle nostre spalle, magmatica
concentrazione di segni indecifrabili, sono materia residuale, incapace di comunicare
se non per il tramite di una vita che ricompone, certo non il senso perfettamente
compiuto, ma almeno la «letteralità del senso» (p. 89), vale
a dire la disposizione di quel segno ad ospitare il nuovo (la nuova nascita
nell’interpretazione). Nel bel saggio sulla “lettera morta”,
Viti Cavaliere relaziona il tema al kantiano “diritto di visita”,
«metafora efficace della pluralità democratica» (ib.), anch’esso
rivisitato nel quadro di un’ermeneutica dell’ospitalità.
Ospitare l’altro (o farsi ospitare da un altro), traccia eloquente di
una “mentalità aperta”, significa dar forma ad una straordinaria
sincronia di opposti, il vicino e il lontano, il presente e l’assente,
il reale e l’ideale. Le figure dell’alterità, non da ultime
lo straniero e il nemico, che oggi sembrano avere il sopravvento su quelle pacifiche
dell’ospite e dell’amico, andrebbero stemperate nel progetto etico
e politico di lasciarsi visitare dall’altro, il che significa anche immaginarlo,
«figurarsi altri mondi per arricchire il proprio» (p. 101), tanto
più quando esso assume il volto minaccioso dell’opposto radicale
di gruppi, nazioni o comunità e delle loro presunte integrità,
oppure è, con buona pace delle coscienze, relegato ai margini dell’invisibilità
sociale.
Alquanto discusso è stato tuttavia l’uso arendtiano della tradizione,
non immune da fraintendimenti. Il più clamoroso ha per oggetto Giambattista
Vico, tramutato, forse in virtù di un ancor tenace pregiudizio tedesco,
in un novello Cartesio della storia, quasi un «tecnologo» (p. 200)
delle umane cose, apostolo di una nuova destinazione della mentalità
razionalista che scopre di poter pervenire, riguardo al più incerto degli
oggetti, il “mondo civile”, ad un sapere più chiaro e distinto
rispetto a quello della natura. Generata come conforto alla «disperazione
della ragione» (p. 187) dinanzi alla creazione divina, la nuova scienza
della storia compensa le inefficienze del sapere universale e realizza la conoscenza
totale di particolari manufatti che, prodotti dagli umani, costituiscono un
fondamento oggettivo certo e stabile. Nel saggio interamente dedicato alla lettura
arendtiana di Vico, Viti Cavaliere non si limita ad enumerare gli errori interpretativi
ma individua le premesse condivise (ad esempio il senso comune e l’immaginazione
come modelli di pensiero alternativi alla logica, la comprensione del fare storico
come agire dell’attore, dello spettatore e del narratore, la concretezza
della verità e il racconto come custodia della memoria del mondo) che
fanno del filosofo napoletano un autore nascosto e mancato di Arendt.
Discrezione nelle citazioni e impiego eclettico delle fonti sorreggono una metodologia
di indagine che va anch’essa fatta risalire ad una personale ripresa di
Kant e in particolare alla dimensione da lui esplorata dell’esemplarità,
analogo dello schema dei concetti puri dell’intelletto, e ritrovato dell’immaginazione
che espone attraverso esempi, ovvero traduce in intuizioni, i concetti della
ragione che rimarrebbero altrimenti senza rappresentazione e, in un certo qual
modo, privi di realtà. Il tema dominante della pratica, che Viti Cavaliere
presenta come un «ricucire – senza poter sperare di cancellare lo
strappo – i lembi di antiche concettualizzazioni» (p. 217), è
una «fitta esplorazione del passato», nella quale il passato stesso
mantiene una perenne validità universalizzandosi nel tempo in figure
esemplari, nonché simboliche, per la loro capacità di conciliare
anche i contrari. «Si fa storia sempre del nuovo e ogni volta si ha bisogno
di trarre per exempla la forza di esercitare una incondizionata …
capacità di giudizio» (p. 181). Così Socrate da persona
si tramuta in un deleuziano “personaggio concettuale”, «“esempio
ideale” di virtù del pensare» (p. 218) che accorda teoresi
e prassi etico-politica, Platone e Aristotele mantengono la fisionomia, già
accreditata nei secoli, di archetipi della metafisica (si dimostrano pertanto
smisurati i tentativi di ricondurre Arendt alle correnti contemporanee della
filosofia pratica e del neoaristotelismo, nonostante il rinvenimento delle idee
di phronesis e synesis nel suo pensiero, reinterpretate tuttavia
al di fuori del conflitto aristotelico tra le facoltà teoretica e pratica
e mai in vista dell’individuazione di un sapere che funga da guida all’agire).
Un discorso a parte merita invece l’appropriazione arendtiana della romanità,
matrice originaria dell’umanesimo nonché di una normatività,
connaturata alla nascita del diritto secolarizzato, che individua nel modello
umano la propria fonte primaria così da convivere tra culti e religioni
differenti ed essere cifra persistente dell’imperium di un universale
coltivato nel mondo. Storici e legislatori greci e latini si offrono nei testi
arendtiani come la soluzione antimetafisica e antiteoreticistica del governo
delle menti e delle azioni. Nondimeno sottoposto ad uno spontaneo processo di
laicizzazione è Agostino, uomo del saeculum e suo inventore;
al pari di Socrate e dell’esemplarità dell’abios bios,
egli diviene il modello della caduta nella storia ed offre, nella pratica etica
del racconto, l’immagine della vita esaminata e degna di essere ricordata.
L’Agostino mondano è anche lo scopritore del tempo lineare, di
una nuova specie di società, della volontà e della natalità
come princìpi dell’agire che portano a compimento il tema già
aristotelico della «seconda nascita» (p. 105) e quello ben più
antico del prendere la parola nel consesso umano per “rendere conto”,
fornire un discorso ragionato delle molteplici figure dell’alterità
(il nuovo nato è sempre un distinto, a suo modo straniero al tempo o
allo spazio), ufficio pietoso del pensiero che non si abbandona ad una mistica
dell’incomunicabile. La nascita (e le rinascite di cui la prima è
condizione di inveramento) è un esistenziale che non capovolge l’essere
del mortale destinato al dissolvimento ma interpone, tra l’estrema impossibilità,
le ogni volta inedite possibilità di essere identico a chiunque in quanto
inizio e diverso nella singolare capacità di inaugurare altri inizi.
Il processo di individuazione/differenziazione si compie all’interno della
«paradossale pluralità di esseri unici» (p. 113), perifrasi
del mondo “all’esterno”, pubblico, che infrange le ubbie dei
solipsismi e le pretese della coscienza assoluta.
Il ritrovamento dell’antico sotto forma di exempla si pone –
sottolineava già Ferruccio Focher nei suoi saggi arendtiani ricordati
dall’autrice – come esigenza di libertà del pensiero e come
risposta umanistica all’ultimo ma non unico “strappo” della
storia umana. Mi riferisco all’antiumanismo totalitaristico, politico
e non solo: la misura effettiva della distanza di Arendt da Heidegger, ad esempio,
dipende anche dal loro differente giudizio sull’umanismo, dal ripudio
del filosofo tedesco di ogni antropocentrismo nel destino dell’essere,
e dalla tenace resistenza della sua più celebre allieva a considerare
mai “superflua” l’umanità, soprattutto nei “tempi
bui” che paiono oscurare i numerosi rischiaramenti del suo cammino nel
mondo. Utile, riguardo alle illuminazioni e alle tenebre della storia, è
il discorso pronunciato da Arendt in occasione del conferimento del premio Lessing,
ma del contrasto luce/ombra come modello di conoscenza degli opposti e delle
riedite barbarie storiche si nutre anche il silenzioso lascito di Vico. Umanesimo,
si diceva, senza dubbio accompagnato da un «liberalismo critico»
(p. 137) che, nel caso di Arendt, corrisponde più ad una modalità
di pensiero anziché ad un’appartenenza alla teoria politica liberalistica.
La riflessione arendtiana è stata senza dubbio occasionata dalla storia,
è carica del peso di essere stata partecipe di quei tempi tragicamente
“interessanti” che richiedono un vigile e costante sguardo, una
capacità di analisi non viziata dalle ragioni del dolore e soprattutto
una pratica di comprensione tutt’altro che accomodante. Su una terra dove
le vittime condividono la stessa dimora dei carnefici, dove la narrazione degli
eventi è scritta sotto l’imperativo di dire per portare ad essere
l’evento stesso e priva della libertà di voler tacere, più
urgente si pone la questione: perché pensare? Domanda che ha già
superato il limite dell’ontologia, dalla quale è confinata nel
mero causalismo, essa è la domanda dell’agire nella storia. Per
Arendt è stata «Urteilsfrage» (p. 41), questione
relativa al giudizio come forma di pensiero post-metafisico e fors’anche
post-filosofico, nucleo essenziale di ciò che rimane e perdura della
“filosofia dopo la filosofia”. Il caso Eichmann è anch’esso
un esempio, ma l’esempio più doloroso, della risposta all’interrogativo
“perché pensare?”. Si pensa per non essere travolti dalle
correnti avverse, si pensa per poter discernere il vero significato degli avvenimenti
e per non diventare figure grottesche del male radicale, si pensa infine per
preservare il principio dominante dell’essere-nel-mondo degli umani che
è la libertà. La questione relativa al “come si pensa”
trova una praticabile soluzione nel giudizio: «chi giudica – scrive
Viti Cavaliere – non fa da spettatore inerte, ma assume il volto di un
“individuo-plurale”» (p. 48), si appella, anche nel claustro
della sua interiorità, ad un criterio, forse anche ad una regola, mai
codificata, in grado di sostenere in silenzio l’uso pubblico della ragione
che stringe in sintesi la soggettività situata e l’universale euristico
della condivisione e della comunicabilità. Chi giudica assume sempre
la weltbürgerliche Absicht, la prospettiva del cittadino del mondo
perché si ispira ad un’universalità concreta, rinvenibile
nell’essere parte e partecipe della comunità che abita la terra:
«la questione centrale della condizione umana [è] individuare aspetti
universali e … storicizzati nella conoscenza del mondo» (p. 12).
La soloniana «misura nascosta del giudizio» (p. 222), ricordata
dall’autrice, è anche una particolare forma di agrimensura perché
apprezza e delimita nel progetto di una coltura e in qualche modo stabilisce
i confini tra affinità e distanze, amicizie e tolleranze. Nessuno mai
misurando (giudicando) può compiere quanto hanno preteso gli Eichmann
della storia, «il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare
la terra», disintegrare la percezione della sfericità del globo
che, proprio in virtù di questa sua conformazione, diceva Kant, costringe
gli umani «a incontrarsi e a coesistere». Il segreto nomos
della terra è forse la tangibile evidenza che incoraggia la circolazione
– metaforica e fisica – degli individui e dei pareri, la circolarità
che vieta la proprietà esclusiva delle prospettive assolute e concede
un possesso comune di superfici relative.
È da specificare che il giudizio qui evocato non è di pertinenza
della logica pura giacché non basta la forma astratta del ragionamento
a proteggere dall’errore e dalla menzogna, come dimostrano i sofismi e
i paralogismi. La mentalità logica inoltre può essere appresa,
mentre la capacità di giudicare e di pensare è un’attitudine
presupposta, una disposizione (un “gusto” o un’arte, l’esercizio
della “discrezione” di Gracián) già posseduta che
può soltanto essere affinata o educata. Essa si appella, più che
a concetti o a idee immutabili, al senso comune, «senso politico per eccellenza»,
a quel logos che solo può ridimensionare l’irragionevole
bisogno della ragione disperante a trovare conforto nella logica: «questa
capacità umana, intima, comune, senza alcun legame con il dato –
diceva Arendt – non è in grado di comprendere niente e, lasciata
a se stessa, è completamente sterile» (p. 201). La “critica”
alla “vita intima” ha allora ad oggetto non soltanto ciò
che siamo soliti individuare con la denominazione generica della “nostra
intimità”, o meglio non ha di mira i chiaroscuri soggettivi dell’anima,
«luogo metaforico» (p. 11) che nomina l’interno e l’interiore,
ed è ben distinto dalla mente estroflessa («che ha il suo fulcro
nell’io che pensa, vuole e giudica in rapporto a concrete dinamiche esistenziali
e storiche», p. 12), dunque né l’esperienza singolare delle
emozioni né il talento intellettuale del sentire (che si inscrive nella
mappa di un’intelligenza plurale), quanto l’uso che di tale irriducibile
componente umana compiono alcune scienze, nonché la propensione naturalistica
di certa filosofia, per le quali Arendt non nascose la sua idiosincrasia. “Intima”
e “comune” – si legge nella citazione sopra riportata –
è nondimeno la logica. Il Leitmotiv dei saggi di Viti Cavaliere
mi pare vada rintracciato nel saper cogliere in Arendt l’avversione per
ogni fondazionismo gnoseologico che individui nel generale o nel privato, nell’astratto
o nell’estremo empirico, il punto archimedico per la comprensione delle
molteplici intenzioni che concorrono al farsi dell’azione e che, in quanto
soggettive, reclamano anche il diritto a rimanere in ombra e a preservarsi in
segreto.
Non contrasta con questi assunti la constatazione che Arendt sia stata anche
cultrice di biografie e autrice di quella celebre dedicata agli “amori
profani” di Rahel Varnhagen. Il principio di tale interesse realizza tutt’altro
dallo scavo psicologico, dall’attenzione alla minuzia dei particolari
che omologano mentre cercano di identificare. La biografia della “ebrea
tedesca” ha avuto anch’essa una esemplarità formale e valeva
pertanto la pena di essere portata all’esterno. In particolare ella aveva
subito un destino che già anticipava quel che i totalitarismi e la società
di massa avrebbero in seguito realizzato, vale a dire la perdita del nome proprio,
la scomparsa dell’individuo nell’assoluto anonimato. Rahel ha perso
di continuo il suo nome pubblico, confidando nell’agnizione salvifica
del nome altrui. L’altro è, in questo caso, il “falso”,
un rinominare che si dissolve nell’anonimato, mentre in quello di Karen
Blixen, la seconda donna inserita nell’arendtiano “libro degli amici”
ad aver cambiato nome, è il “diverso”, la maschera che si
è scelta per sperimentare a pieno la pluralità del proprio sé.
La “persona”, che si ritiene il principio intangibile del riconoscimento
etico e politico, è originariamente il travestimento indossato sul palcoscenico
del mondo. Il senso della libertà non può che inverarsi nel “sua
cuique persona”, consentendo che ciascuno vesta la sua maschera,
ossia che ogni individuo serbi i propri segreti, abbia il diritto, così
come alla esposizione nella sfera pubblica, al raccoglimento nel privato. «Cerchiamo
la verità – scriveva Sándor Márai, anch’egli
costretto dalla storia al destino di pariah – ma ne teniamo per
noi un frammento che non siamo disposti a cedere a nessuno». «Una
vita spesa interamente in pubblico, alla presenza degli altri, diventa per così
dire superficiale … Il solo modo efficace di garantire il segreto di ciò
che deve rimanere nascosto alla luce dell’esposizione in pubblico è
la proprietà privata, un luogo posseduto privatamente in cui rifugiarsi»,
annotava Arendt nella Vita activa, e Viti Cavaliere specifica che,
in quel contesto, proprietà privata null’altro esprime se non la
«“propria” dimora interiore» (p. 148), una woolfiana
“stanza per sé”, costruita anche attraverso l’esercizio
pubblico del giudizio, che implica per prima cosa la conoscenza en plein
air, per poter poi stabilire ciò che della nostra individualità
concorre al corso del mondo comune e quanto va preservato nella sua profondità
invisibile. In questa prospettiva è condivisibile l’auspicio di
Viti Cavaliere, secondo il quale «sia la teoretica sia l’etica avrebbero
bisogno di una “critica della vita intima”» (p. 21), perché
l’individuo squadernato è un miraggio. Non basterebbe una vita
ad esplorare il «continente isolato» che ciascuno è –
per dirla ancora con le parole dello scrittore ungherese –, «per
conoscerlo e descriverlo con tutte le sue giungle, la sua flora e la sua fauna».
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