Il saggio di Manuel Cruz vuole prendere sul serio la definizione hegeliana di filosofia: “il proprio tempo appreso col pensiero”. Fare filosofia significa, dunque, interrogarsi sul presente per renderlo intellegibile. E aprire al futuro. A questo fine Cruz prende in esame due categorie fondamentali, quelle di responsabilità e di identità, a cui sono dedicate le due parti del lavoro.
Come definire il nostro presente? A partire da due fenomeni strettamente legati fra loro: «da una parte, il fallimento, a quanto pare definitivo, di un modello di società con enormi ripercussioni economiche, sociali, politiche e ideologiche e, dall’altra, la crisi dello Stato del Benessere che si sta verificando nei paesi europei sviluppati» (p. 34). Queste trasformazioni impongono di ripensare la questione dell’individuo/soggettività in termini nuovi, che non sono quelli della “crisi del soggetto” e della postmodernità, in voga nello scorso decennio. Quella che è apparsa crisi del soggetto è invece la contraddizione che si istituisce nelle “società permissive” tra obiettivi conclamati, cioè il libero sviluppo dell’individuo, e condizioni di realizzazione di tali obiettivi: «Non esiste possibilità d’accesso agli obiettivi che questa società proclama a partire dalle condizioni soggettive che la stessa società promuove» (p. 39), scrive lapidariamente Cruz. In effetti la società attuale distrugge i modelli forti di persona e promuove la deresponsabilizzazione.
Contro queste tendenze Cruz propone il ripensamento, sulla scorta dell’insegnamento di Hannah Arendt e Hans Jonas, delle categorie di soggetto e di responsabilità: «la categoria di soggetto è indispensabile, dopo tante revisioni critiche, per poter accedere a una forma di intelligibilità rispetto a quanto ci succede, soprattutto a proposito di quella parte che siamo soliti chiamare storia. […] oggi, non è solamente la conoscenza ma anche e soprattutto la possibilità stessa dell’azione umana in seno al mondo a essere impegnata in quella specifica rivendicazione del soggetto che viene indissolubilmente legata al concetto di responsabilità» (p. 50).
L’analisi del concetto di responsabilità, che si articola nell’esame del ‘chi’, del ‘di che cosa’ e del ‘di fronte a chi’ si è responsabili – esame interessante, soprattutto per quanto riguarda le cosiddette “azioni per omissione”, cioè quella forma di non-fare, così caratteristica della contemporaneità, che assume rilevanza per le sue conseguenze, tanto da dover essere pensata all’interno del fare, cioè dell’agire che produce effetti – dà luogo alla distinzione fra responsabilità della decisione e responsabilità degli effetti dell’azione. Se, come ha ricordato Hannah Arendt a più riprese, l’azione è illimitata nelle sue conseguenze, la caratteristica odierna della responsabilità è la “perdita d’autorità dell’agente rispetto al proprio agire”. Ma ciò può positivamente comportare la nascita di un nuovo tipo di azione collettiva: questa «è il nuovo referente della responsabilità» (p. 74). Dunque, sebbene sia difficile individuare il momento della decisione in questo agire collettivo, si può concludere che «si deve rispondere della propria decisione, mentre, per quel che riguarda gli effetti da essa scatenati, si tratta di farsene carico» (p. 79).
La riflessione sull’identità muove da una domanda preliminare: «si sta assistendo a un’esplosione delle differenze o stiamo piuttosto assistendo all’apoteosi dell’omogeneizzazione?» (p. 92). La risposta appare a Cruz scontata, soprattutto a causa della pervasività dei media e dei modelli da essi veicolati (tema che ricorre in più punti del saggio, a dire il vero in maniera un po’ meccanica). Non si tratta, tuttavia, di rimpiangere nostalgicamente le vecchie identità monolitiche, ma di pensare un nuovo modello di identità, una “identità differente”. Occasione per farlo, è la riflessione sul concetto di tolleranza, al quale Cruz dedica un denso capitolo, a mio avviso il più efficace del libro. Punto di convergenza della riflessione sulla tolleranza è la nozione di riconoscimento, che Cruz ripropone: solo «il riconoscimento dell’altro è fonte di tolleranza» (p. 119), riconoscimento che esige la conoscenza dell’altro – per riconoscersi bisogna prima conoscersi – e l’uguaglianza: opportunamente si ricorda come il contrario di uguaglianza non sia differenza bensì disuguaglianza: i diversi si riconoscono identici a sé e differenti dagli altri solo su un piano di uguaglianza. L’uguaglianza è «il garante del diritto» (p. 108) all’esistenza della differenza. Si impone perciò il problema del relativismo culturale. Se questo viene inteso nella sua portata politica, non ne è legittima un’interpretazione “scettico-agnostica”, e produce un esito positivo: bisogna tenere insieme “l’affermazione delle differenze” e “il postulato di una razionalità universale”, e inoltre «lottare perché gli uomini si liberino della superstizione, dei pregiudizi del dogmatismo e della crudele violenza dei fanatici» (pp. 110-111). Conseguentemente «la battaglia per la tolleranza potrà adottare molteplici forme, secondo le situazioni concrete. Ci saranno delle circostanze in cui la difesa della tolleranza passerà per il rifiuto di qualsiasi modalità di discriminazione, per la rivendicazione del diritto senza limiti di uguaglianza, e circostanze in cui il tollerante dovrà fare sua la bandiera delle libertà individuali» (p. 115).
La riflessione odierna sull’agire deve quindi fare perno sull’istanza che consente l’agire stesso: il soggetto. Cruz propone una “riconsiderazione in ribasso del soggetto”, cioè un soggetto «irrimediabilmente fragile, maldestro – e in tal senso, ma solo in tal senso, debole» (p. 139). Respingendo ogni forma di determinismo, come quello della Seconda Internazionale, e riprendendo l’istanza blochiana dell’apertura utopica del futuro, senza perciò vedere come Bloch nel lavoratore il soggetto della storia, Cruz sollecita gli uomini a liberare tutte le possibilità che il presente racchiude al suo interno. «L’utopia, consumato il suo fallimento in altri campi, potrebbe allora essere recuperata, proprio per sviluppare il compito di esplorare il possibile, di ricercare le cosiddette possibilità laterali della realtà. Probabilmente è vero ormai che chiedere l’impossibile è il modo migliore di essere realisti. Max Weber ci aveva avvertiti: “Per raggiungere il possibile bisogna aspirare all’impossibile”. Ma puntare sul carattere non chiuso del mondo implica un presupposto, l’esistenza di un ambito che accolga il processo, un’istanza che faccia suo il compimento delle aspettative. Perché non continuiamo a chiamarla soggetto o identità?» (p. 168). La debolezza dell’identità si rivelerebbe, dunque, in quanto relativa indeterminatezza, ricchezza di possibilità. Non sappiamo cosa ci riserva il futuro, conclude Cruz; si tratta di decidere con quali idee vogliamo vivere, che cosa desideriamo. «Ciò che siamo […] è costituito anche da quello che speriamo di essere e non siamo ancora. Ritorna l’utopia per inserirsi nel cuore di questa identità sempre in sospeso» (p. 171). |