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Donald Davidson, Sulla verità.
Laterza, 2006

di Enrico Schiṛ

«Tra un paio di secoli gli storici della filosofia scriveranno pagine sulle trasformazioni che l'opera di Donald Davidson ha indotto nel modo in cui l'essere umano si autopercepisce». Queste le parole di Richard Rorty con le quali siamo introdotti alla lettura di questo breve testo, alla redazione del quale Davidson ha lavorato negli ultimi anni della sua vita. Frutto di differenti ed eterogenei scritti, rivisitati e rielaborati con l'aggiunta di note successive alle prime edizioni degli articoli, il lavoro, intitolato Truth and Predication (tradotto in italiano con il titolo Sulla Verità) si compone di sette capitoli che potremmo idealmente dividere in due parti a sé stanti.
I primi tre capitoli riguardano il concetto semantico di verità e le sue implicazioni nell'esperienza linguistica umana. Come è noto Davidson deve molto, sin dall'inizio del suo lavoro, all'opera del logico e matematico Alfred Tarski, del quale ha sviluppato la teoria formale della verità, nota per aver introdotto i famosi V-predicati (in inglese T-predicates), che ci permetterebbero di definire le condizioni di verità di ogni enunciato di un linguaggio-oggetto (formalizzato secondo Tarski, naturale ad opinione di Davidson), che fosse contenuto in tutte le sue parti da un metalinguaggio con il quale diamo le condizioni di verità del suddetto enunciato ( "La neve è bianca" è vero in L se e solo se la neve è bianca). Tarski aveva costruito questa teoria, forte dell'opinione di senso comune, secondo la quale il concetto semantico di verità mantiene una manifesta intuitività per tutti i parlanti, intuitività alla quale non voleva rinunciare nell'elaborazione della teoria che si dice ispirata alle concezioni "corrispondentiste" della verità. Riadattando e ripensando questa teoria in funzione di una migliore comprensione delle procedure comunicative tra parlanti, anche in questi testi Davidson porta avanti il suo progetto respingendo da una parte gli attacchi di chi sostiene che la verità sia in un certo senso "ridondante" e che non ci siano proprietà interessanti al di là di quelle che sono state esplicitate dalla teoria di Tarski, dall'altra di chi afferma che questa non dica nulla di interessante sul concetto fondamentale di verità (Putnam, Rorty, Dewey, Dummett, per quanto tra loro estremamente eterogenee), sostenendo piuttosto una concezione epistemica. Nessuna delle due risulta tuttavia sufficiente. Evidentemente per Davidson il lavoro di Tarski è solo un inizio e per definire l'uso e il campo del concetto semantico di verità per linguaggi naturali deve essere aggiunto molto. Ma cosa manca? Nel terzo capitolo propone una visione che lo distanzia dai primi due approcci presentatici e che introduce il concetto di verità nello schema di comprensione utilizzato da tutti i parlanti. Spesso si è sostenuto che la comprensione delle condizioni di verità di un enunciato non sia necessaria per l'uso del linguaggio e che esistono varie occasioni in cui tale linguaggio, interrompendo il circolo semiotico-comunicativo, introduce piuttosto finzioni, recite, menzogne, esortazioni, giochi linguistici e altro ancora. Davidson puntualmente rileva che per comprendere l'occorrenza di un enunciato, fosse anche il recitato di un'opera teatrale, tutt'altro che interessato a dirci qualcosa di vero, dobbiamo pur comprendere cosa succederebbe se esso fosse vero per coglierne il significato: «La verità è il concetto semantico primario; senza tale concetto non potremmo pensare né parlare, nel senso che non potremmo né avere né comunicare contenuti preposizionali». Nel quarto e quinto capitolo ripercorre brevemente le tappe fondamentali del problema dell'unità del predicato (il predicato svela l'universale o solamente una relazione tra entità? Come giustificare la generalità introdotta dal verbo tra due entità solitamente singolari?), già rilevato da Platone e riconosciuto da Aristotele. Sarà infatti attraverso un'analisi degli errori, ripetuti da Russell piuttosto che Strawson o Sellars sulla scia delle complicazioni già rilevate dai greci, che approderà a introdurre il concetto semantico di verità come fondamento per una maggiore comprensione del problema della predicazione. Infine, attribuirà quest'intuizione a Frege e completerà il lavoro (ma non certo il problema, che come lui stesso osserva deve ancora essere affrontato in tutte le sue particolarità, quali "nomi non denotanti", "indessicali" ecc...) ovviamente reintroducendo il concetto di verità proposto da Tarski nel suo lavoro del 1931 e modificandolo secondo l'occorrenza: «Molti degli enunciati di un linguaggio naturale non hanno condizioni di verità fissate, poiché i diversi proferimenti di uno stesso enunciato contenente verbi a un tempo finito, dimostrativi, o altri indessicali, possono variare, per quanto riguarda la verità, da un momento all'altro. Un modo per fare i conti con questa difficoltà è relativizzando le condizioni di verità i tali enunciati a un tempo, a un luogo, a un parlante, e magari ad altri parametri». Questa piccola pubblicazione sebbene ricalchi le ultime lezioni tenute da Davidson nel corso delle Hermes Lectures del 2001 a Perugia potrebbe rappresentare, e certamente nel panorama editoriale italiano, che sta scoprendo di recente questo autore, una significativa silloge della sua produzione.

 

PUBBLICATO IL : 25-02-2007
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