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Eugenio Mazzarella (a cura di), Heidegger a Marburgo (1923-1928).
Il Melangolo, 2006

di Renata Viti Cavaliere

L’8 febbraio del 1928 Heidegger ricevette notizia dell’assegnazione dell’ordinariato che lo avrebbe condotto di lì a qualche mese nuovamente all’università di Friburgo, sulla cattedra che era stata del suo maestro Husserl. Stava per chiudersi un periodo di insegnamento e di studio, svolto nella città di Marburgo per un lasso di tempo non lungo ma molto intenso (dal 1923 al 1928), di cui restano i testi di ben 10 corsi universitari. In quegli anni fu pubblicata l’opera maggiore, peraltro incompiuta, Sein und Zeit, nei confronti della quale Heidegger ebbe già nel periodo marburghese intuizioni che ne indicavano un possibile superamento critico. Non si può trascurare inoltre il fatto che in quella sede maturarono  convinzioni politiche che saranno evidenti e decisive nei primi anni trenta.
Il volume Heidegger a Marburgo, pubblicato nel trentesimo anniversario della morte di Heidegger, raccoglie gli Atti di un importante convegno internazionale che si è tenuto nell’Università di Napoli, per iniziativa del Dipartimento di Filosofia della Federico II e del curatore del testo Eugenio Mazzarella, nell’aprile del 2004.  Le principali questioni degli anni marburghesi, attentamente rivedute e originalmente approfondite da alcuni tra i migliori studiosi del filosofo tedesco, sono state in breve le seguenti: il rapporto intimo e conflittuale con la fenomenologia di Husserl, i problemi di una logica filosofica connessi alla domanda sulla verità, la “scoperta” di Kant, gli spunti leibniziani nel quadro della modernità di cartesiana memoria, la lettura del Sofista di Platone attraverso Aristotele (interpretato con metodo fenomenologico), la riflessione sulla temporalità originaria. Si tratta di intrecci problematici, con diramazioni specifiche che si cercherà di illustrare, di grande interesse ma complicati anche per la difficoltà posta dalle fonti quando esse sono per lo più testi di corsi universitari, frutto di un lavoro critico-filologico senza dubbio meritevole, ma pur sempre non privi di talune ambiguità. Benché oramai ancorate ad una stesura definitiva, le Vorlesungen di Heidegger portano ancora i segni di un discorso molto accattivante che nasceva quasi all’impronta, su basi peraltro ben strutturate e al tempo stesso aperte a recepire l’eco del presente. Valga per tutti l’esempio del breve ricordo di Max Scheler appena scomparso, tenuto all’interno del corso estivo del 1928 Principi metafisici della logica. Heidegger aveva concepito e steso un breve testo a conclusione del suo ultimo corso a Marburgo, che non lesse a lezione, e che chiude simbolicamente l’intero periodo di tanto ricco lavoro teoretico. Si tratta della postilla dal titolo “Lontananza e prossimità”, inserita nella edizione critica del volume ventiseiesimo della Gesamtausgabe, dove si legge quanto segue: «Filosofare significa esistere alla luce del fondamento», e dunque qualcosa di più originario di ogni scienza e di ogni visione del mondo. Sia la logica che la metafisica si fondano sul fenomeno originario della verità che è il “ci” dell’essere, l’apertura alla comprensione del senso che è precipua connotazione dell’esistere umano. “L’uomo è – difatti – un essere della lontananza”, trascendenza rispetto ad ogni ente e parimenti vera prossimità alle cose. Il linguaggio heideggeriano, divenuto dopo di allora quasi di uso comune negli studi filosofici, non lascia dubbi sul riferimento all’esistere nella significatività dell’essere, e ciò vale ad insistere sul tramonto di ogni classica trascendenza e sulla fine di quelle pretese “moderne” a catturare l’essere nella forma di una conoscenza troppo umana.

Gli allievi che ebbero modo di seguire i corsi marburghesi (tra questi una giovanissima Hannah Arendt, Gadamer, Löwith, e altri che ne ricevettero impulso a pensare in proprio) percepirono l’invito a praticare una sorta di metaphysica naturalis che includeva una trasformazione interiore, e che è cosa ben diversa dall’oscillare tra principi teorici e massime pratiche. Alcuni potettero già cogliere insoddisfazione nei riguardi dell’ontologia fondamentale nella proposta di un passaggio alla meta-ontologia, evidente segno di una prima importante “svolta”, con la quale si chiudono i corsi marburghesi. A questo tema dedica particolare attenzione Friedrich-Wilhelm von Hermannn nel saggio di apertura del volume Heidegger a Marburgo. Nell’ambito metaontologico si viene a dischiudere una vera e propria metafisica dell’esistenza, un’ontica metafisica capace di riflettere sulle regioni più caratterizzanti del concreto vivere: l’etica, la politica, le istituzioni, l’amore. Non sfugge all’acuta analisi svolta, nel capitolo successivo, da Eugenio Mazzarella il senso della “trascendenza” del Dasein, così vicina alla definizione aristotelica del pensiero come “scienza del divino” che è filosofia prima, e dunque aperta alla totalità degli enti, inclusiva perciò dell’ascolto e della fede, in una sorta di “isolamento metafisico” che denota l’opposto di una chiusura alla vita nei suoi aspetti per dir così “naturali” e originari.
Il documento scoperto nell’89, che va sotto il nome di Natorp-Bericht, illustra il congedo dall’esperienza friburghese e l’inizio di ricerche che ora, a Marburgo, si caratterizzeranno prevalentemente in chiave logico-fenomenologica. Inviato a Natorp e Misch nel 1922, da Heidegger direttamente redatto come progetto di lavoro (non realizzato poi nella forma prevista), questo breve scritto contiene significative indicazioni sull’utilizzo che il filosofo aveva in mente di fare dell’opera di Aristotele, letta  attraverso il filtro della fenomenologia con particolare riguardo al tema del logos apofantico. Stefano Poggi ne delucida i contorni con perizia e chiarezza, sino ad individuare nel “guardarsi attorno” del gesto intenzionale la concezione della verità che nel giudizio (fatto logico-ontologico) dice e mostra l’eidos dell’ente. Thomas Sheehan fornisce una possibile spiegazione della mancata stesura del libro su Aristotele: la Kehremarburghese riguardò lo spostamento dal tema dell’Essere a quello della significatività dell’essere collocando in primo piano quell’ente particolarissimo che l’uomo è. L’ousiologia aristotelica era dunque ben lontana dall’interesse ora nutrito da Heidegger nei riguardi della perfetta imperfezione del finito che è kinesis. Heidegger legge Aristotele non solo con metodo fenomenologico ma con un metodo ancor più fenomenologico di quello husserliano. Con siffatti toni paradossali Sheehan gioca il discorso sull’essere entro la dimensione non statica di una sorta di “nascita” del significato e del suo venire alla luce.

La rottura con Husserl avvenne come si sa proprio in quegli anni, all’atto della pubblicazione di Sein und Zeit. Spicca per la sua “improponibilità”, secondo l’efficace rilettura di Vincenzo Vitiello, l’accusa di teoreticismo da Heidegger rivolta alla filosofia husserliana, quasi che non fosse in essa evidente l’inseparabilità di dati iletici e significati, e il valere dell’intenzionalità per ogni atto di vita: il patire, il sentire, il volere. Si deve pur ammettere che in fondo il legame con Husserl rimaneva saldamente ancorato alle questioni di logica e alla centralità del tema del giudizio. Robert Brisart ha invece colto il punto dirimente nel tema dell’Umwelt, visto da Heidegger come l’orizzonte della vita quotidiana e del commercio col mondo in cui accade dispersione e caduta, fuga nell’anonimato e perdita del senso più proprio dell’esistenza. Si potrebbe leggere in Heidegger un discredito del mondo-ambiente, che è tutt’altra cosa del ritorno alla Lebenswelt, auspicata da Husserl nei suoi ultimi e intensi scritti sulla crisi delle scienze europee. Il cosiddetto primo Heidegger aveva messo al centro della sua riflessione la fatticità dell’esistenza e l’accadere della storia. Costantino Esposito ne ha ripercorso le fasi precendenti a Marburgo attraverso soprattutto gli snodi tematici relativi al rapporto dell’analisi temporale con la teologia, a partire dagli anni venti. Ma è soprattutto ai suoi ascoltatori di Marburgo che Heidegger annunciò la convinzione che la filosofia era giunta alla fine e che oramai sarebbero stati posti di fronte a nuovi compiti. Il tono di quelle parole suonava come promessa o fors’anche minaccia di tempi nuovi non necessariamente migliori del passato. Sul versante filosofico si andava a cercare dietro la teoretizzazione l’esperienza di una fatticità che è vita e che perciò mostrava con baldanza la rinuncia al pensare “scientifico” carico di aspettative che non sarebbero andate deluse (si veda il bel saggio di Claudius Strube sul confronto con Husserl e con il neokantismo).
 Non sfugge la centralità della logica filosofica come domanda sulla verità negli scritti degli anni 1923/1928. Harald Seubert legge in Heidegger la scoperta del senso originario della logica, senza intento demolitorio nei confronti della tradizione se è vero che si comincia proprio dal Sofista di Platone e che si toccherà, dopo il ritorno a Friburgo nella celebre Prolusione del ’29 Che cos’è metafisica?, la radice stessa del “logico” posta efficacemente all’interno di un vorticoso domandare originario.

Di sicuro effetto l’analisi micrologica svolta da Jean-Francois Courtine intorno ad un solo passaggio, cruciale, del Sofista platonico, nel quale si tratta della figura elementare del logos composta di nome e verbo. La genealogia del logos nella forma di una “proposizione” fondamentale viene sviluppata alla luce retrospettiva della dottrina aristotelica del logos apofantico. Si capisce dunque che occorre partire da una totalità preesistente di soggetto e predicato, da una koinonia tra nome e verbo per pensare il “diverso” e la nascita stessa del negativo. Il corso del’24/25 (volume 19° della Gesamausgabe) induce a riconsiderare la declinazione meramente distruttiva – così conclude Courtine – che si attribuisce generalmente alla lettura heideggeriana di Platone. L’intenzione di disarticolare la logica tradizionale non appare nei testi heideggeriani di quegli anni disgiunta dalla constatazione che una logica formale e scolastica sarebbe solo un passo introduttivo al filosofare, mentre in Platone e in Aristotele già era emersa la logica propriamente “filosofica”, ossia una logica incentrata nell’evento della predicazione che inerisce al soggetto. Nel corso del ’28, l’ultimo a Marburgo, Heidegger lesse con particolare empatia il pensiero di Leibniz, suggestionato dalla monadologia così rappresentativa dell’esistere per analoghe tensioni e impulsi d’azione, memore del rilievo dato dal filosofo moderno alla tradizione antica e medievale della logica in una asistematica allusione al carattere “eventuale” della predicazione logica, per cui può dirsi che nel giudizio accade propriamente la verità come senso dell’essere di ogni ente (chi scrive ha colto assai più che rari spunti leibniziani nei corsi marburghesi di Heidegger). Nell’inverno 1923/24 Heidegger si era misurato con Descartes, così peraltro presente anche emblematicamente nell’opera maggiore, quasi il segno della costituzione del moderno su cui molto a lungo si sarebbe soffermato lo Heidegger maturo (Riccardo de Biase ne ha studiato in dettaglio il profilo teoretico), quello che descriverà la modernità come epoca dell’immagine del mondo.
In una lettera a Jaspers del 10 dicembre 1925 Heidegger scriveva: «La cosa più bella è però che comincio ad amare realmente Kant». Franco Volpi racconta nel suo contributo il senso di una “scoperta” che indusse Heidegger ad adeguare il corso del semestre invernale 1925/26 (Logica. Il problema della verità), già iniziato, ai sopraggiunti nuovi interessi. Dedicate interamente ad Aristotele nella prima parte, le lezioni presero un cammino imprevisto concentrandosi su di una interpretazione atipica del rapporto tra io penso e tempo in Kant. Che il filosofo di Könisberg abbia colto nello schema della temporalità la radice unitaria dell’io, è una tesi che Heidegger sosterrà con sincero entusiasmo, almeno fino a quando non si convinse in modo altrettanto sincero dell’insormontabilità dell’orizzonte metafisico moderno entro cui le dottrine kantiane si erano tutto sommato mantenute. Amò allora l’immagine di un Kant quasi perso di fronte all’abisso che gli si era mostrato, suscitando le pur opportune obiezioni di Cassirer (nel ’31 a Davos), il quale seppur vanamente cercò di ricordare al suo interlocutore che Kant aveva compiuto in sé l’Illuminismo e che dunque poco o nulla ebbe a che fare con patologie della mente o della ragione.
Alla concettualizzazione filosofica del tempo è rivolta l’attenzione di Antonello Giugliano, il quale indica nel titolo del suo molto articolato intervento due date significative: 1924 e 1927. L’una evoca la conferenza sul concetto di tempo tenuta da Heidegger dinanzi all’associazione dei teologi di Marburgo e l’altra si riferisce alla pubblicazione delle prime due sezioni della prima parte incompiuta di Sein und Zeit. Il 1927 è però anche l’anno di pubblicazione dei due volumi postumi di Le temps retrouvé di Marcel Proust.  Un confronto ravvicinato è possibile nella distanza o forse proprio in virtù dell’apparente indifferenza di Heidegger per un testo che negli anni venti in mezza Europa aveva fatto molto parlare di sé.

Negli anni vissuti a Marburgo Heidegger partecipò all’elaborazione della Mitwelt tedesca, recependo le idee natorpiane di uno stato educatore e di una pedagogia sociale. Il concetto di libertà come vincolo e responsabile risolutezza di fronte alla situazione storica rientrava tra i supremi ideali tedeschi in lotta con la presunta deriva materialistica e livellatrice della cultura occidentale. Dopo il 1914 era andata via via scomparendo,  perché già quasi del tutto sconfitta, la politica culturale cresciuta alla fine dell’ottocento nello spirito di un illuminismo cosmopolitico. Theodore Kisiel traccia una tabella di confronto, che è un vero e proprio riscontro di contrasti, tra le idee del 1789 e quelle del 1914. Si assistette tra le due guerre ad una sintesi di idealismo sociale e di individualismo culturale che culminò nel progetto politico, da Heidegger accolto e mai certamente sconfessato, di una rivoluzione conservatrice.

PUBBLICATO IL : 21-05-2007
@ SCRIVI A Renata Viti Cavaliere
 

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