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Jean-Luc Marion, Il visibile e il rivelato.
Jaca Book, 2007

di Fausto Fraisopi

Esiste, e se esiste qual è l’orizzonte che la fenomenologia impone metodologicamente a se stessa? Cosa dobbiamo pensare di una fenomenologia che, abbandonato il suo “rivolgersi alle cose stesse”, si irretisce nell’esclusiva interpretazione della sua genesi e del suo sviluppo storico? Queste sono alcune domande che il libro di Jean-Luc Marion solleva con vigore, fornendo loro una declinazione tutt’altro che superflua, una declinazione secondo la quale la fenomenologia stessa cerca di pensare la Rivelazione. La coppia concettuale che compone il titolo del testo, visibile/rivelato, non fa altro che sintetizzare la tensione che tutti i saggi qui compresi e raccolti sviluppano: una tensione concettuale che interessa la fenomenologia in quanto tale e le sue possibilità ultime di pensiero, la sua capacità di pensare una Rivelazione in termini non metafisici. A ben vedere, come si vedrà percorrendo alcuni momenti del testo, se una fenomenologia della religione e della Rivelazione si dimostrano possibili, cio’ è dovuto sostanzialmente all’impossibilità, all’auto-contraddittorietà di una metafisica della Rivelazione in quanto tale, laddove per “metafisica” si intenda − come necessario − la sua concrezione onto-teologica.
Il visibile e il rivelato” [Le visible et le revélé] viene pubblicato nel 2005 presso le Editions du Cerf, nella collana diretta da Philippe Capelle, Decano della Facoltà di filosofia dell’Institut Catholique de Paris. Il testo rappresenta una raccolta di saggi già pubblicati separatamente dall’Autore la cui unità tematica intrinseca è testimoniata essenzialmente dalla declinazione che la coppia concettuale “visibile/rivelato” assume nell’evoluzione della fenomenologia della donazione (o del dono). E’ pertanto necessario dare notizia di questi saggi per poterne poi ricomporre − almeno in parte − uno sguardo sinottico e problematico. Il primo saggio, “Il possibile e la rivelazione” è un saggio del 1992 pubblicato nel volume collettaneo “Eros and Eris. Contributions to a Hermeneutical Phenomenology” [Maggiori indicazioni sono contenute nella «Nota sull’origine dei testi», pp. 169-172]. Il secondo saggio “Il fenomeno saturo” è apparso nel volume “Phénoménologie et théologie” edito da J.-F. Courtine, sempre nel 1992. “La teologia tra metafisica e fenomenologia”, il terzo saggio, è pressoché coevo e rappresenta il testo di una conferenza tenuta all’Institut Catholique de Toulouse nel 1993. Dello stesso anno il quarto saggio, “La ‘filosofia cristiana’: ermeneutica o euristica”. Degli ultimi due saggi “Cio’ che non si dice: l’apofasi del discorso amoroso” è il testo dell’intervento che Marion tenne all’Università “La Sapienza” di Roma nel gennaio del 2002 in occasione del “Colloquio E. Castelli” che aveva a oggetto la teologia negativa. Una prima versione dell’ultimo testo, “La banalità della saturazione” inedito in francese prima della pubblicazione del libro, risale al maggio 2004.
E’ interessante notare, a questo punto, come questi testi si intreccino con le più importanti pubblicazioni di J.-L. Marion: Réduction et donation. Recherches sur Husserl, Heidegger et la phénoménologie, (Paris, P.U.F.), il testo che apre la discussione sullo statuto della fenomenologia e che ne introduce un nuovo principio, è del 1989; La croisée du visible, (Paris, Éditions de la Différence) è del 1991; Etant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, (P.U.F.) saggio che per un verso inaugura la « fenomenologia della donazione » è del 1997 ; il testo che maggiormente ne riprende i temi, De surcroît. Etudes sur les phénomènes saturés (Paris, P.U.F.) risale al 2001. Infine Le phénomène érotique (Paris, Grasset), le sei meditazioni sull’amore che in qualche modo completano e portano a compimento la definizione di una fenomenologia della donazione, è del 2003. Se si concepisce dunque Etant donné come il punto decisivo, la nascita della fenomenologia della donazione e l’introduzione del concetto di saturazione, si vede chiaramente in che modo i testi de “Il visibile e il rivelato” si collochino nel percorso che conduce a tale introduzione, a partire da “La croisée du visible” e nel percorso che dalla prima elaborazione sistematica della fenomenologia della donazione conduce al suo “compimento” (semmai una filosofia genuina ne ammettesse uno) ne “Le phénomène érotique”. Questi testi ci forniscono dunque l’occasione di percorrere alcune delle trame principali del pensiero di Marion nella sua evoluzione e, allo stesso tempo, nella sua unità tematica.
Tuttavia la discussione tematica necessita, prima di essere esplicitamente avviata, di una premessa tutt’altro che ovvia: il pensiero di J.-L. Marion è un pensiero che prende in massiccia considerazione i temi della “filosofia cristiana” o, meglio, il tema della filosofia cristiana che più dipende dalla Rivelazione stessa, la carità. Seguendo uno “slogan” si potrebbe facilmente, naïvement, etichettare il pensiero di Marion come un pensiero fenomenologico-teologico, dunque attribuirgli tutti i pregiudizi positivi o negativi (a seconda della posizione dell’interprete) che da lungo tempo vengono espressi. Tutto ciò, al momento, non ci interessa. Non soltanto perché gli “slogans” e le “etichette” impediscono l’effettiva comprensione, ma perché, in sostanza, impediscono una posizione di neutralità riguardo all’eccedenza teorica che qualsiasi pensiero esprime. Evitare “Agostino” perché Padre della Chiesa è altrettanto idiota dell’evitare “Kant” perché razionalista o “Nietzsche” perché nichilista. Nei fatti lo slogan e le etichette smarriscono sempre “il fatto” di un pensiero, che non si riduce mai, fortunatamente, nella “classificazione” di “teorie filosofiche” ma stimola l’esperienza stessa del pensare indipendentemente. Tutto cio’ vale per il pensiero di Marion nella misura in cui le sue opere esprimono, prima di tutto, une refrattarietà a celarsi dietro “barricate” immaginarie (tanto quelle dei “teologi” o dei “filosofi cristiani” contro la razionalità quanto quelle di pretesi “razionalisti”) . I saggi qui presentati e le opere che ne fanno da sfondo sono opere che “si espongono” ed espongono tanto la fenomenologia quanto la filosofia cristiana a ripensamenti radicali: essi si sottraggono in ogni modo all’ortodossia, cosa pericolossissima in filosofia.
Proprio questo spirito “eterodosso” nei confronti della “fenomenologia” rappresenta il punto di partenza della nostra analisi, che poi è, sostanzialmente, l’origine della genesi della fenomenologia della donazione come tentativo di superamento dell’egologia husserliana. Tuttavia parlare di un’“eterodossia” fenomenologica è, di fatto, un controsenso, perché essa non si è mai definitivamente costituita come un canone ma come un esercizio di interrogazione di cio’ che si dà in quanto tale. Eloquenti sono a riguardo le affermazioni del saggio “La teologia tra metafisica e fenomenologia”:

“Se c’è una filosofia il cui metodo è incondizionatamente aperto e il cui pensiero è senza presupposti, questa è proprio la fenomenologia, la quale si è conquistata, contro la metafisica, il diritto di “andare alle cose stesse!” − esortazione che potrebbe essere commentata con l’espressione “vietato vietare!”. L’unico criterio che la fenomenologia possiede viene dai fatti − dai fenomeni che l’analisi dis-piega, da ciò che essa rende visibile. Ciò che si mostra, si giustifica per il suo stesso mostrarsi” [pp. 81-82].

Per mezzo di questa elasticità costitutiva, che dimostra tutte le potenzialità della fenomenologia (che ammette lo sviluppo della “fenomenologia della donazione” allo stesso titolo di altri), Marion dispiega una ripresa non-metafisica, e rigorosamente opposta alla metafisica, dei temi che la metaphysica specialis aveva dispiegato sub speciae ontoteologiae:

“Che il ritorno della metaphysica specialis nella fenomenologia specialis nella fenomenologia sia una vera e propria contraddizione di metodo non implica, però, che la fenomenologia ignori ciò di cui la metaphysica specialis si occupava da un punto di vista metafisico. Una sostituzione simile a quella di cui abbiamo dato conto, ossia della fenomenologia alla metaphysica generalis, non potrebbe anche darsi anche per ciò che la metaphysica specialis trattava in modo onto-teo-logico? Non lo chiediamo allo scopo di restituire a tale metaphysica il suo ruolo − ne abbiamo, d’altra parte, già dichiarato l’assurdità − ma per pensare un cambiamento radicale, un rovesciamento: ritornare alle cose stesse, ed eventualmente anche alle cose, per lasciarle apparire non più secondo la misura imposta dal fondamento ma secondo la dismisura della donazione” [p. 82].

Un tale rovesciamento, una tale Umkehrung, implica allora due movimenti speculari ed equipollenti: l’analisi storico-speculativa della metafisica e del concetto di “fine della metafisica” da un lato, l’elaborazione di una prospettiva che abbandoni le strutture metafisiche per aprire a una nuova “visione” della fenomenalità intesa nella sua ricchezza, una visione che oltrepassi anche la posizione heideggeriana della Seinsfrage. Per Marion, ovviamente, questa via non è altro che quella di una fenomenologia generale della donazione di ogni ente-d(on)ato, di cui la Seinsfrage potrebbe eventualmente essere una semplice regione o caso particolare” [p. 79; “ente-d(on)ato sta per l’espressione francese “étant-donné”]. Perché allora una fenomenologia generale della donazione scalza la metafisica dalle sue pretese illusorie di trattare dell’uomo, del mondo, di Dio? Essendo gli “oggetti” i medesimi, perché la fenomenologia potrebbe ricevere questa preminenza di analisi? La risposta sta nell’analisi stessa della metafisica in quanto tale e nel paradigma che la configura, quello della “causa sive ratio”, secondo il quale l’oggetto tematico diviene un oggetto “ontologico” di cui fornire una spiegazione in termini di causalità efficiente. Il reddere rationem della metafisica si dimostra in questo senso individuato “storicamente” e “concettualmente” nel quadro dell’onto-teo-logia. La “metafisica”, così come

“la fine della metafisica, è un fatto che, per certi versi, è neutro e riguarda indistintamente tutte le opzioni teoretiche. Trattandosi, inoltre, di un concetto transitivo rifiutarlo diventa qualcosa ancora meno sostenibile. Il suo “essere transitivo” − afferma Marion − “può essere formulato in questi termini: così come la definizione onto-teo-logica della metafisica implica di per sé almeno la possibilità della “fine della metafisica”, la “fine della metafisica” implica di per sé la possibilità della “fine della fine della metafisica”. Niente di paradossale in questo: se ammettiamo l’ipotesi dell’esistenza di un concetto di metafisica preciso, storicamente verificabile e teoricamente operante, ne consegue che, per un verso, i suoi limiti possono essere criticati ma, per altro verso, proprio tali limiti contribuiscono a portare a manifestazione l’orizzonte del suo possibile oltrepassamento” [p. 74]

Di conseguenza la “morte di Dio” (la morte del Dio concepito, smarrito secondo l’entificazione dell’onto-teo-logia) ma anche la crisi del soggetto o di ogni “Weltbild” non sono che i presupposti per ripensare, per sostituire all’ipostatizzazione onto-teo-logica termini elaborati sulla base della fenomenologia e, più in particolare, della “fenomenologia generale della donazione”. Per quanto riguarda il “Weltbild”, vale a dire l’immagine ontologicamente ipostatizzata di un mondo, “l’intenzionalità [...] colloca la coscienza direttamente nel mondo, senza che qualche rappresentazione faccia da schermo” [p. 83]. Per quanto riguarda l’ego, esso “non dà più nessuna certezza di fondazione indubitabile tramite l’auto-rappresentazione di sé ma si scopre già da sempre preceduto dall’ente-d(on)ato da altri, alla contro-intenzionalità inoggettivabile del quale è esposto, subendola”. In questa coscienza del collasso − anche e soprattutto grazie a Kant − del cosmo metafisico, Marion lavora − in “Il visibile e il rivelato” − alla ricostituzione del senso della “fenomenalità della Rivelazione”:

“La figura fenomenologica di “Dio” inteso come ente-d(on)ato per eccellenza, dunque come abbandonato, può essere tracciata seguendo il filo conduttore della semplice donazione. La sua donazione “per eccellenza” implica che “Dio” sia dato senza restrizione, senza riserve, totalmente. “Dio” non si dà parzialmente seguendo l’uno o l’altro adombramento, come un oggetto costituito e capace di offrire allo sguardo intenzionale soltanto una delle sue facce visibili, percepibili dalla sensibilità, lasciando all’appresentazione il compito di ri-dare ciò che non si dà; al contrario “Dio” si dà assolutamente, senza la minima riserva o adombramento, offrendo ogni sua faccia [...]”

E’ questa prospettiva radicale, di superamento radicale della metafisica onto-teo-logica e di ripensamento radicale della fenomenologia come via del superamento stesso, che fa da sfondo teorico ai temi che si intersecano ne “Il visibile e il rivelato”. Infatti affinché un pensiero di Dio sia possibile al di là del suo occultamento onto-teo-logico, è necessario allo stesso tempo un ripensamento di ciò che sia il “visibile” e del modo in cui la Rivelazione cristica s’inscriva nel quadro della rivelazione in quanto tale. In questo senso l’operazione teorica compiuta con questo testo si richiama al concetto di “filosofia cristiana”, un concetto “problematico tanto per i credenti (sia tomisti che non tomisti) quanto per i non credenti”. I saggi che più sviluppano e riprendono le strutture teoriche suscettibili di rinnovare il pensiero teologico − posto tra la fenomenologia e la metafisica − sono sviluppate nei primi due saggi del testo che, come detto, anticipano Etant donné e prefigurano una ripresa più generale del concetto di rivelazione all’interno della quale possa inscriversi il pensiero della “Rivelazione cristica”. E’ all’interno di questa polarità e di questa continuità tra rivelazione fenomenica e Rivelazione cristica che bisogna leggere, a nostro avviso, il saggio iniziale: “Il possibile e la rivelazione”:

“I vissuti della coscienza detta religiosa danno intuitivamente, ma tramite indizi, quegli oggetti intenzionali che, per via diretta, restano invisibili: la religione diventa manifesta e la rivelazione fenomenale. La fenomenologia della religione potrebbe riaprire quanto la filosofia della religione tendeva a chiudere. La fenomenologia non soltanto offre un metodo all’ontologia (Heidegger) ma lo offre a ogni regione di fenomeni non direttamente visibili e quindi immediatamente invisibili − dunque, in primo luogo, alla religione in quanto rivelazione. La fenomenologia sarebbe, quindi, il metodo per eccellenza della manifestazione dell’invisibile attraverso i suoi fenomeni indiziali − e, dunque, anche il metodo della teologia” [p. 16]

Se il ripensamento del “problema di Dio” in termini non-metafisici implica l’apertura di una via fenomenologica alla Rivelazione cristica, la Umkehrung della prospettiva onto-teo-logica implica allo stesso tempo un ripensamento della fenomenologia stessa, lo sviluppo di una tensione intima alla fenomenologia che essa stessa sembra cogliere e allo stesso tempo smarrire attraverso l’egologia. Lo smarrimento egologico della rivelazione fenomenica passa per l’interpretazione dell’ego come figura che attribuisce in qualche modo la possibilità di manifestazione del dato. Se infatti “la religione riceve la sua forma più compiuta nel momento in cui definisce se stessa tramite e come rivelazione”, un soggetto egologico che attribuisca trascendentalmente la possibilità della manifestazione teofanica come rivelazione si dimostra una contradictio in adjecto. Non c’è quindi una rivelazione della fenomenalità − e di conseguenza una rivelazione in senso teofanico − nel paradigma (anche e soprattutto) egologico del reddere rationem, della causa sive ratio. Se intendessimo in senso egologico il rapporto tra filosofia e rivelazione, ci si troverebbe posti di fronte al dilemma secondo cui o la rivelazione è ridotta al quadro della possibilità egologica, e quindi è inevitabilmente smarrita come tale, oppure rigettata. Tuttavia, domanda Marion:

“Se la fenomenologia, riconoscendo che vi sono fenomeni indipendenti da una causa sive ratio che li preceda e che sono tali perché dati e nella misura in cui sono dati, è capace di volgersi alle cose stesse, non le spetterà, in modo eminente, il compito di rendere possibile il pensiero della rivelazione tout court intesa?”[...]

In questo senso il principio di tutti i principi enunciato da Husserl nel § 24 delle Idee cela un’ambivalenza profonda. Il principio, come noto, afferma:

“Ogni intuizione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire in carne ed ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà”[...].

La sua essenziale ambivalenza risiede nel fatto che per un verso apre a una legittimità di diritto (e non solo di fatto) al fenomeno mentre per un altro limita questa legittimità entro i limiti del suo stesso darsi. Da che, o da cosa sono dettati questi limiti? Dalla polarità egologica tra io e orizzonte. Come afferma Marion: “la fenomenologia presuppone un orizzonte necessario affinché i fenomeni da ridurre e costituire siano messi in scena” [p. 19]. Se dunque il concetto di “orizzonte” come spazio aperto dell’io e (soprattutto) dall’io in quanto polo egologico viene affermato come componente indissolubile dell’esperienza fenomenale, la domanda è ovvia: si dovrà abbandonare il perno essenziale della fenomenologia e − a nostro avviso − uno dei punti di forza della sua stessa elasticità, l’elemento costituente della potenzialità della fenomenologia di estendersi ai domini più disparati della manifestazione? La soluzione proposta da Marion, pur non rappresentando una risposta positiva al nostro quesito, va tuttavia in questa direzione, leggendo l’incapacità del plesso “io-orizzonte” di fornire una lettura non riduttiva della rivelazione come la necessità di ripensare la lettura del concetto di orizzonte in senso non egologico:

“L’ambiguità, quando si tratta della rivelazione, viene dall’assunzione del presupposto fenomenologico di un orizzonte; tale ambiguità sarebbe certamente confermata anche nel caso in cui venissero assunti altri orizzonti fenomenologici. Il concetto stesso di orizzonte, fissando a priori una dimensione, uno spazio, dunque un limite, conduce a ignorare la possibilità di una rivelazione nel momento stesso in cui rende possibile ogni manifestazione. Gli ostacoli imposti alla rivelazione coincidono esattamente con le condizioni della manifestazione” [p. 22].

E ancora, più esplicitamente:

“L’orizzonte dell’oggettività e la riduzione a un Io confinano la donazione nei limiti della manifestazione dell’oggettività fino a escludere la rivelazione di un Altro in quanto autenticamente tale” [p. 22]. 

Il plesso io-orizzonte, impedendo − in questa prospettiva − la possibilità di una donazione come tale, occludendo egologicamente la possibilità della rivelazione tout court, sbarra la via, in questo senso, al pensamento della Rivelazione cristica e, di conseguenza, alla teologia: “la fenomenologia non può dare uno statuto alla teologia perché le condizioni di manifestazione contraddicono la (o almeno differiscono dalla) possibilità assoluta di una rivelazione” [...].  Contestare il diritto dell’io nella costituzione della fenomenalità è allora speculare all’affermazione e alla radicalizzazione (fenomenologica) della tesi secondo cui il darsi stesso della fenomenalità è fonte di diritto della conoscenza. La polarizzazione dell’io, e in modo conseguente la direzionalità dell’intenzionalità stessa come promanante dall’io, viene in questo modo invertita. Questa inversione non può che sollevare allora la questione fondamentale della non-originarietà dell’io:

“L’istanza dell’Io (e di ciò che all’Io equivale), che vincola la fenomenologia a non accettare la possibilità della rivelazione, non offre nessuna garanzia fenomenologicamente certa; ciò che la fenomenologia oppone alla rivelazione − l’Io come origine − potrebbe non essere fenomenologicamente legittimo: chi è l’Io? L’Io è originario o “viene da”? E se “viene da”, da dove, da che cosa − da chi? Non converrà allora invertire la relazione e la dipendenza? Anziché formulare l’ipotesi di un Io che fissi fenomenologicamente i limiti della possibilità di una rivelazione, non potremmo forse azzardarci a sostenere che l’Io non può accedere alla propria possibilità fenomenologica soltanto a partire da una donazione non-costituibile, non oggettivabile e anteriore − se non addirittura a partire da una rivelazione?” [p. 25].
 
Viene descritta in questo passo pressoché tutta la prospettiva speculativa di Etant donné, vale a dire una prospettiva in cui è la donazione stessa, come tale, a costituire il suo referente, che non sarà più soggetto ma “adonato”. Tuttavia la prospettiva dell’apertura dell’orizzonte a partire dalla donazione, dalla rivelazione della fenomenalità è talmente e intrinsecamente fenomenologica da non poter rinunciare alla struttura dell’orizzonte. Si pone a questo punto un dilemma: o la rivelazione ammette un orizzonte (anche nel caso in cui sia essa stessa ad aprirlo) o esclude per principio che un qualunque orizzonte possa metterla in scena. Nel primo caso la rivelazione rinuncia alla sua originarietà, “rinuncia alla possibilità, ossia a sé stessa, e regredisce al rango di pura e semplice manifestazione costituita”. Tuttavia, nel secondo caso, “se la rivelazione esclude ogni orizzonte, non potrà più mettere in scena se stessa da nessuna parte, per nessuno sguardo e in nessun fenomeno”. Dato che, allora, l’orizzonte si dimostra essere una struttura irrinunciabile, l’unica via che si profila è quella di affermare che “la rivelazione si mette in scena in un orizzonte unicamente saturandolo”. Aggiunge infatti Marion: “Un orizzonte resta necessario, e ogni visibilità prende posto al suo interno − la rivelazione può lasciarsi rifrangere sull’orizzonte dell’Essere, dell’altro, del corpo, della carne ecc.” [p. 26].
L’apertura dell’orizzonte da parte della rivelazione e, di conseguenza l’inversione del concetto e della prospettazione dell’intenzionalità come promanante dall’io, implicano il concetto di saturazione. La distinzione tra il fenomeno povero o di diritto comune (come verranno definiti nella “topica” di Etant donné) e il fenomeno saturo consiste nell’apertura dell’orizzonte all’interno del quale essi si manifestano. Fornire una definizione del fenomeno saturo si dimostra quindi fornire un quadro bipartito della fenomenalità: da un lato si avrà “la fenomenalità comune” che “cerca l’adeguamento dell’intenzione e dell’intuizione”, una fenomenalità nella quale la donazione fenomenale sarà sempre incompleta, cioè non arriverà mai a coprire integralmente “lo spazio logico” dell’intenzione significante. Viceversa, nell’evento della saturazione, nella manifestazione del fenomeno saturo (o saturato), “l’intuizione sopravanza la mira intenzionale”: “l’intuizione offre, nell’ambito della rivelazione, non “altrettanto” o “meno” ma infinitamente più dell’intenzione, dunque infinitamente più dei significati elaborati dall’Io” [Ibidem].
La non-originarietà dell’io e l’apertura dell’orizzonte stesso della fenomenalità implicano quindi una definizione puntuale del fenomeno saturo. In questa direzione si muove il saggio coevo a “Il possibile e la rivelazione”, esplicitamente dedicato al “fenomeno saturo”. Anche qui il concetto di orizzonte si dimostra centrale, perché perno della fenomenologia trascendentale intesa in senso egologico. Se “l’orizzonte, o seguendo l’etimologia della parola, le delimitazione, impone condizioni all’esperienza”, il fenomeno saturo non può che intervenire in modo “destabilizzante” all’interno di un orizzonte che pensa costitutivamente la fenomenalità secondo il suo regime di possibilità (quindi di condizioni trascendentali). Ciò significa che, essenzialmente, esso inverte la categorizzazione della fenomenalità pensata secondo le sue condizioni trascendentali di possibilità. Non a caso, con un’analisi che costituirà uno dei punti nodali di Etant donné, Marion descrive il fenomeno saturo per contrasto con le quattro classi categoriali kantiane, andando in un certo senso alla radice del trascendentale stesso per sovvertirlo. L’opposizione tra la natura intuitiva del fenomeno “povero” di intuizione e quello saturo sta nel suo poter esser iscritto o meno nell’orizzonte, sta nell’esser finito o meno del fenomeno. Il fenomeno saturo sarà allora non prevedibile, secondo la quantità, né sopportabile, secondo la qualità, assoluto secondo la relazione, impossibile secondo la modalità, cioè paradossale.
Come potrà allora essere fissato allo sguardo se eccede ogni quadro, se rifiuta ogni inquadramento e contestualizzazione categoriale? Marion risponde, in una osservazione che mostra l’assenza dell’abbandono della struttura dell’orizzonte in quanto tale: “non si tratta, qui, di prender congedo da ogni orizzonte tout court inteso − cosa che renderebbe certamente impossibile ogni manifestazione − ma di liberarsi da ogni orizzonte che imponga anteriormente vincoli ai fenomeni, destinandosi perciò a entrare necessariamente in conflitto con in fenomeni che sono ab-soluti” [p. 57]. La saturazione dunque, in quanto pur sempre manifestazione, manifestandosi, non si occulta per il fatto stesso di rifiutare una “messa in scena”: “la saturazione s’intensifica per il fatto che ogni prospettiva, già satura di per sé stessa, viene mutata e trasformata dall’interferire, in essa, di altre prospettive sature”. Si aggiunge: “la pluralità degli orizzonti permette dunque sia di rispettare l’assolutezza del fenomeno saturo (nessun orizzonte potrebbe delimitarlo né precederlo), sia di renderla ammissibile, moltiplicando le dimensioni della sua ricezione”. Il quadro teorico è ben diverso, ben più dinamico e, potremmo dire, in virtù di questa dinamicità solleva una mole di problemi che cercheremo di adombrare nella conclusione. Il fenomeno saturo non sfugge solamente all’orizzonte staticamente inteso, quasi fosse un’ipostatizzazione, ma anche alla “combinazione degli orizzonti”. Ma cosa significa qui “orizzonte”, “combinazione di orizzonti”? Il testo, come anche le opere maggiori del filosofo, sembrano tacere a riguardo. Quello che più preme − e non a torto (sempre che, come vedremo, le due questioni non si dimostrino co-essenziali) − è categorizzare un rivolgimento dell’egologia che impedisce l’accesso alla rivelazione di fenomenalità più ricche, più complesse di quanto non siano le fenomenalità povere della logica o della matematica e le fenomenalità ordinarie dell’esperienza empirica.
In questo rivolgimento si fa largo la nozione di paradosso che “rovescia l’assoggettamento del fenomeno all’Io”, che sovverte la categorialità ordinaria e, soprattutto, l’auto-referenza ordinaria del soggetto che non ha più presa su sé in quanto “lasciato essere” dall’apertura stessa della donazione ad opera della saturazione: “l’io perde la propria anteriorità e si scopre destituito dal compito di costituire, e dunque costituito” [p. 62]. In presenza del fenomeno saturo avviene in sostanza un doppio scarto: il primo − come vedremo assai eloquente − è quello tra una prospettiva categoriale unica, che costituisce la regione di determinazione logico-regionale della fenomenalità, e una prospettiva ermeneutica: “la saturazione intuitiva deborda un orizzonte unico e impone diverse ermeneutiche che si articolano in più orizzonti”. Il secondo scarto è quello che avviene tra il rapporto tradizionale tra aletheia e doxa e quello, tipico della saturazione, tra aletheia e paradoxon: una condizione alla quale la fenomenologia potrebbe riconoscere la legittimità della rivelazione è “che l’orizzonte si lasci saturare dalla donazione anziché pretendere di determinarla a priori, e che la verità passi dall’evidenza della doxa al paradoxon del rivelato” [p. 27]. Senza scomodare le interessanti analisi di Etant donné, quali sono questi fenomeni saturi che realizzano lo scarto? Innanzitutto i fenomeni storici puri, poi tre figure fenomenali ben distinte: la prima è quella del quadro “spettacolo che l’eccesso di intuizione rende non-costituibile ma comunque guardabile (idolo)”; la seconda è quella del “volto che amo, diventato invisibile non soltanto perché mi acceca ma soprattutto perché non voglio né posso guardarlo senza che il suo sguardo invisibile pesi sul mio (icona)”; la terza è la figura della teofania, nella quale “l’eccesso di donazione arriva al paradosso di uno sguardo visibilmente invisibile che si volge su di me e mi ama” [p. 66] (Si faccia ben attenzione al fatto che la figura della teofania non è ancora quella della Rivelazione cristica, sulla cui distinzione torneremo in seguito).
Se il fenomeno saturo dischiude uno scarto nell’accezione stessa della verità questo scarto non può che interessare necessariamente anche e soprattutto uno scarto in relazione al “discorso” attraverso cu si manifesta questo paradoxon. E’ questo, sostanzialmente, il tema che occupa il penultimo saggio de “Il visibile e il rivelato”, cioè “Ciò che non si dice: l’apofasi del discorso amoroso”. Questo saggio, in sostanza, non è che una tappa fondamentale di avvicinamento all’opera che in qualche modo completa la svolta fenomenologica inaugurata con “Reduction et donation” e “Etant donné”: “Le phénomène erotique”. Perché la rivelazione attraverso la saturazione implica una diversa configurazione del “dire” apofantico-predicativo? Essenzialmente perché se il fenomeno saturo eccede la categorizzazione, la sua “dizione” eccede parallelamente il discorso che concretizza la categorizzazione, ovvero la predicazione. Il nucleo di questo discorso apofatico non predicativo è l’atto linguistico “Ti amo!”,  prima facie un atto performativo perché “agente” nel suo dire, come la promessa: “dichiarando “Ti amo!” il locutore, di fatto, non dice niente (né senso, né referenza), ma compie ciò che dice, lo mette in opera per il fatto stesso che lo dice” [p. 115]. Sussiste tuttavia uno scarto tra l’atto illocutorio-performativo e il “Ti amo!”. Perché? Perché essenzialmente il locutore fa effettivamente qualcosa dicendo ma non fa quello che dice. L’effetto dell’atto è diverso, esso modifica “radicalmente la relazione intersoggettiva” tra il locutore e l’interlocutore. L’atto compie altro da ciò che dice, l’atto istituisce una relazione totalmente altra e, potremmo dire, una dimensione totalmente altra. Questa dimensione non è adombrata nel saggio ma è definita con estrema chiarezza nel libro che ne sviluppa le più intime conseguenze, “Le phénomène érotique”: la dimensione è essenzialmente “erotica”, le cui proporzioni si configurano in base al fenomeno fondamentale dell’amore e della relazione tra amato e amante (in tutte le sue declinazioni e configurazioni).
In che senso allora, il saggio sul discorso amoroso si inscrive nell’unità tematica del testo che stiamo discutendo? Semplicemente in virtù della sovradeterminazione delle connessioni che il discorso amoroso intrattiene con il ripensamento radicale che Marion sviluppa sul Cristianesimo e sulla Cristologia come dimensione della carità e, dunque, come dimensione della donazione. In un certo senso proprio l’apofatica del discorso amoroso salda il coté fenomenologico della fenomenologia della donazione con il coté teologico dei “Prolegomeni alla carità”, de “L’idolo e la distanza” e di “Dio senza l’essere”. “Cristo è amore”: questa è la tesi − ritornata alla ribalta con l’enciclica “Deus caritas est” − che Marion elabora da decenni e che trova la sua concrezione nelle sei meditazioni sul fenomeno erotico. Perché stupirsi del fatto che Cristo ci domandi di amare “se tra Dio e gli uomini regna la più radicale equivocità in tutto tranne che nell’amore?” [p. 129].
Non ci interessa entrare, a questo punto, nelle delicate questioni cristologiche che il saggio e il testo de “Le phénomène érotique” sollevano. Ci interessa piuttosto sviluppare delle questioni intrinseche alla “logica” del pensiero di Marion che trovano la loro saldatura nel pensiero della donazione, questioni fenomenologiche (pensiero della donazione come rivelazione fenomenale) e questioni teologiche (pensiero della donazione e del fenomeno saturo come base di una fenomenologia della religione). E’ in sostanza questo il tema del saggio “La banalità della saturazione” in cui l’Autore riprende critiche che gli sono venute da interpreti molto eloquenti e acuti, critiche tanto più interessanti quanto più distanti dall’accettazione passiva delle tesi a fini “edificanti” o “catechistici”.
A riguardo riconosciamo all’Autore due meriti, prova della sua onestà intellettuale: il primo è quello di distinguere in modo quantomai netto la questione schiettamente inerente alla teologia cristiana dal tema fenomenologico, quindi essenzialmente filosofico, del fenomeno saturo. Questa distinzione si configura chiaramente nella distinzione tra “teofania” e “Rivelazione cristica”. L’applicazione della struttura concettuale del fenomeno saturo alla Cristologia o alla teologia cristiana in genere dovrebbe passare infatti per due stadi: il primo è quello di una combinazione dei quattro fenomeni saturi [1) evento, che eccede ogni quantità; 2) opera d’arte, che eccede ogni qualità; 3) la carne, che eccede ogni relazione e 4) il volto d’altri, che eccede ogni modalità] al fine di “descrivere altri fenomeni saturi ancora più complessi”. Solo a questo punto, “a partire dalla possibilità di questo complesso di saturazioni, potrebbe eventualmente diventare pensabile anche il caso della Rivelazione” [   ] (secondo stadio). La fenomenologia del fenomeno saturo − ed è questo che ci interessa − non è la teologia cristiana e gode di uno statuto di argomentazione, di analisi del tutto estraneo a quello della teologia. Come dice Marion: “evidentemente non spetta alla fenomenologia (che si limita a trattare della possibilità e non dell’effettività di tale fenomenalità) decidere direttamente di questo caso; fenomenologia che dovrebbe limitarsi a riconoscerne la forma. Per tutto il resto bisogna fare appello alla teologia” [   ].  Il secondo merito è quello conseguente a queste distinzioni: mettere in guardia dall’ossessione anti-teologica che rifiuta in blocco quest’ipotesi fenomenologica, come se essa fosse une teologia (cristiana) mascherata.
Sarebbe infatti curioso per un soggetto filosofico fare appello a un metodo “fenomenologico” che come tale è universale e affermare poi che la sua applicazione sia data solamente a colui che beneficia della Grazia. Marion si tiene − a nostro avviso − ben distante da tutto questo, distinguendo non solo l’ambito fenomenologico del fenomeno saturo dall’ambito teologico cristiano, ma l’ambito teologico tout court della “teofania” dall’ambito teologico cristiano della teofania nella carne, dell’Incarnazione del Cristo. Le differenze sono, a questo punto essenziali per le riflessioni che andremo a svolgere, lasciando interamente da parte il coté Cristologico. Dovremo pensare i problemi e le aporie e i punti decisivi della fenomenologia della donazione in rapporto all’estensione del concetto di fenomenalità. Un problema che Marion affronta con particolare lucidità è l’obiezione al principio stesso del fenomeno saturo, mossagli con particolare vigore argomentativo da J. Benoist, il quale − sviluppando in modo diametralmente opposto la fenomenologia − oppone al “fenomeno saturo”, simulacro di un pensiero teologico concesso solo al credente, “la forza infinita della vita sensibile, o le metamorfosi del divino nello scambio in cui accadono i nostri quotidiani legami affettivi, in luogo dell’idolo monoteista” [p. 139, nota]. Questo passo, eloquente è tratto da “L’idée de phénoménologie”, nella quale si afferma altrettanto chiaramente come l’inversione dell’intenzionalità non sia altro che un sovvertimento della fenomenologia stessa. Non possiamo, in questa sede, discutere il dibattito avvincente che oppone Benoist e Marion sullo statuto della fenomenologia, cosa che sarebbe interessante per i contenuti e, guardando all’ambito italiano, sarebbe anche molto educativo per lo “stile”. Cio’ che interessa è interrogarci sulla possibilità che la struttura del fenomeno saturo possa effettivamente fornire o meno chiavi di lettura per quella che Benoist definisce “l’incredibile complessità per la foresta del sensibile”.
Assumendo una posizione di piena neutralità e guardando alla “cosa stessa”, in effetti uno dei meriti che il fenomeno saturo dimostra come struttura fenomenologica è proprio quella di fornire una chiave per pensare “la complessità”. Questo lo affermiamo guardando a temi e a regioni del pensiero filosofico, come la logica e la matematica della complessità, le ontologie formali, pressoché assenti dal grande inventario di temi filosofici del percorso speculativo di Marion. Il concetto secondo il quale il fenomeno saturo non si lascia categorizzare da un orizzonte, saturandolo − che noi potremmo modificare dicendo che “il fenomeno saturo è meta-regionale, interessa una struttura complessa di livelli sintattici e ontologie regionali” − è un concetto molto proficuo per pensare le sfide della fenomenologia nel “vedere” fenomeni che il dominio dell’oggettualità (e dell’ontologia) tradizionale codifica come “invisibili”. Dato che non ci lasciamo prendere dall’ossessione anti-teologica, mettiamo alla prova il concetto di “fenomeno saturo” non tanto in una disputa guelfo-ghibellina ma con le sfide della complessità. La categorizzazione del fenomeno saturo − che andrebbe portata avanti e sviluppata secondo strutture logiche ulteriori alla quadripartizione categoriale kantiana − può rivelarsi di grande utilità per tutti quei fenomeni complessi che vengono smembrati dalla categorizzazione “regionale” o che, addirittura, vengono del tutto trascurati dai fenomenologi soltanto in virtù della loro assenza nelle opere del pensiero di Husserl. Se è vero − come noi riteniamo seguendo Benoist − che decodificare “l’incredibile complessità della foresta del sensibile” è uno dei compiti essenziali della fenomenologia, una fenomenologia che voglia attendere al suo fine non può allora che fissare gli oggetti stessi della complessità, oggetti che sfuggono al concetto tradizionale di “oggettualità” perché “eccedono in ricchezza” le singole regioni sintattiche delle ontologie materiali. Il fenomeno saturo può rappresentare un concetto guida per un’interrogazione coerente su ciò che, nella foresta del sensibile, non può essere scorto perché estremamente complesso, macroscopico. Ma tutto ciò richiede una condizione necessaria e non sufficiente: quella dell’elaborazione e della categorizzazione delle dinamiche con cui il fenomeno saturo “eccede” regioni e ontologie materiali. Affinché il concetto di fenomeno saturo possa essere pensato in tutte le sue implicazioni va ripensato alla luce del significato che viene assegnato alla saturazione stessa. Nel momento in cui si afferma che “la saturazione s’intensifica per il fatto che ogni prospettiva, già satura di per sé stessa, viene mutata e trasformata dall’interferire, in essa, di altre prospettive sature” e che “la pluralità degli orizzonti permette dunque sia di rispettare l’assolutezza del fenomeno saturo (nessun orizzonte potrebbe delimitarlo né precederlo), sia di renderla ammissibile, moltiplicando le dimensioni della sua ricezione” bisogna interrogarsi sulla struttura formale che consente di percorrere questa “pluralità di orizzonti” per scorgervi in ogni modo l’irriducibilità del fenomeno saturo. Cosa significa, eideticamente, “la pluralità degli orizzonti”? Non è essa pensabile piuttosto come la “pluralità delle ontologie regionali” che, nel caso specifico, non arriverebbero a categorizzare il fenomeno saturo?
Bisogna allora mettere alla prova l’elaborazione della saturazione che fa da sfondo a “Il visibile e il rivelato” attraverso tre chiavi di lettura fondamentali, che potrebbero certamente confermarla, o ampliarla, ma che potrebbero allo stesso tempo controvertirla.
La prima chiave di lettura è quella della polarità egologica dell’Io-orizzonte. L’analisi di Marion agisce in modo radicale sulla polarità egologica affermando, attraverso la negazione della sua priorità sul fenomeno, una corrispondente inversione della intenzionalità, che non promana dall’io costituente ma dalla saturazione in quanto tale. A questo punto si prospettano due ipotesi identicamente sostenibili. La prima è quella secondo cui si darebbero due prospettazioni dell’intenzionalità: una egologica, attuantesi sui fenomeni cosiddetti “poveri” e su quelli di “diritto comune” e una che inverte l’egologia costituente dell’Io-orizzonte, aprendo l’orizzonte all’Io e scalzandolo dal piedistallo della sua originarietà. La seconda è quella secondo cui ci sarebbe una sola prospettazione dell’intenzionalità, quella offerta dal fenomeno saturo e che vale anche per i regimi di fenomenalità povera e comune. Tuttavia l’adozione dell’una o dell’altra ipotesi causerebbe dei problemi che non sembrano chiariti dalla fenomenologia della donazione. Se il caso da ammettere fosse il secondo, non si arriverebbe a comprendere in che modo l’inversione dell’intenzionalità, tipica della manifestazione satura, arriverebbe ad operare nei regimi di fenomenalità povera o di diritto comune. Una tale estensione andrebbe eideticamente approfondita e codificata. Se il caso fosse il primo, allora non resterebbe che ammettere uno status dell’intenzionalità neutrale,  e sovraordinato tanto alla intenzionalità egologica quanto alla saturazione, il quale sarebbe capace di declinarsi nell’uno e nell’altro modo.
In questo senso, e questa è la seconda chiave di lettura, ci si dovrebbe chiedere se l’inversione dell’intenzionalità egologica non si modelli sulla stessa struttura cripto-metafisica che intende superare. A questo punto un’altra ipotesi sarebbe ammissibile, equidistante sia dalla prospettazione egologica dell’Io-orizzonte sia da quella non-egologica della saturazione-orizzonte: l’ipotesi secondo la quale non è ammissibile una Letztbegründung dell’intenzionalità. L’intenzionalità come “distanza psicologica originaria” tra atto intenzionale e contenuto diverebbe ciò che nessuna prospettazione fenomenologica può fondare né in senso egologico, affermandola come promanante dall’io e istituita dall’io, né in senso non-egologico, affermandola come ricevuta dall’io e “istituente” l’io stesso. Cosa ne sarebbe allora dello status della saturazione? Essa non verrebbe certamente smarrita, tuttavia ricompresa: ma secondo quali conseguenze? Si potrebbe declinare la stessa prospettiva secondo la chiave di lettura dell’Io-orizzonte. Di fronte alle due vie che Marion prospetta, potrebbe darsene una terza, egualmente legittima o, almeno, suscettibile di interrogazione. Chi ci dice che la via per superare la polarità egologica “Io-orizzonte”, intesa come apertura dell’orizzonte da parte dell’io in quanto polo egologico, sia superabile solo ed esclusivamente affermando l’apertura dell’orizzonte all’Io da parte del fenomeno saturo? Non si dà piuttosto una via ulteriore che non patisce in alcun modo le aporie celate nel concetto stesso di “apertura (o proiezione) dell’orizzonte”?  Questa via non sarebbe altro che quella secondo cui l’ “Io-orizzonte” stesso è qualcosa di dato come polarità, riguardo alla quale non sarebbe possibile parlare di istituzione, di apertura. Ciò eviterebbe le aporie derivanti dall’egologia, ammettendo l’impossibilità di derivazione dell’orizzonte dall’Io e, allo stesso tempo, manterrebbe in uno statuto essenzialmente neutro il concetto stesso dell’apertura. Ci si rende conto, tuttavia, che il percorrimento di una tale via richiede difficilissime ricerche che non si possono sviluppare in questa sede.
Una terza chiave di lettura per mettere alla prova il concetto di fenomeno saturo (e tutta la dimensione che esso traccia), sarebbe quella di percorrere per intero e “à rebours”  la topica del fenomeno che Marion traccia nell’importantissimo § 23 di Etant donné. Per farlo bisognerebbe tuttavia potersi inoltrare nei difficili passi della sesta Ricerca Logica (in part. §§29-34) che gli fanno da sfondo. Impresa che qui si rivela impossibile. Cercheremo di dare una illustrazione minima del problema. Marion traccia prima tre e poi quattro tipologie, classi o figure fenomenali: fenomeni poveri, inscritti (per semplificare) nel regime intuitivo  della formalità logica e geometrico-matematica; fenomeni di diritto comune, inscritti nell’esperienza intuitiva sensibile; fenomeni saturi o paradossi. Si darebbe il caso poi, nella Rivelazione, di un fenomeno assolutamente saturo, di un paradosso alla seconda potenza. Il fatto è che per mettere alla prova la stessa fenomenologia della donazione bisognerebbe percorrere integralmente l’interrogazione della fenomenalità anche nella direzione esattamente opposta, cercando di pensare la possibilità di un fenomeno “assolutamente povero”. Non sarebbe proprio il “fenomeno assolutamente povero” o asintoticamente prossimo ad uno zero di intuitività, a fornire il quadro completo della topica che suffraga la fenomenologia della donazione.
Tutto ciò non è dettato solamente da interessi esterni alla fenomenologia della donazione che l’interprete vuole attribuirgli surrettiziamente. Questa necessità è dettata dalla stessa fenomenologia della donazione e, per quanto riguarda il presente contributo, dettato altrettanto da “Il visibile e il rivelato”. Il fatto è che non si può arrivare a concepire coerentemente una progressione di stadi fenomenali di cui la Rivelazione costituisce il termine ultimo e definitivo senza interrogarsi sul suo termine primo, anche se questo si dimostrasse del tutto inoperante nella dinamica della saturazione. Tuttavia c’è da dubitare che questo termine primo, speculare alla saturazione ultima, potrebbe essere del tutto ininfluente. Un esempio ci è dato proprio dalla situazione di inizio del fenomeno erotico, in cui il “mondo” si manifesta in tutta la sua vanità, perde di senso. Questa perdita di senso, questo vuoto assoluto trova concrezione nella domanda “m’aime-t-on?”, “sono amato?”. Qualora volessimo trasporre questa situazione dal registro della dinamica erotica alla sua struttura fenomenologica corrispondente nella fenomenologia della saturazione, verremmo ad individuare proprio quel “fenomeno asintoticamente vuoto di intuitività”, un fenomeno assolutamente povero che potrebbe dire molto, e dire altro, sull’intero impianto concettuale della “saturazione”.
E’ allora più che certo, banale, che la banalità del fenomeno saturo comporti ancora non banali, ma radicali, approfondimenti, intrinseci alla grammatica tracciata da Marion, alle sue tensioni strutturali fortissime e, per questo, speculativamente “eloquenti”, degni di essere pensati.

PUBBLICATO IL : 27-05-2007
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