L’estraneità è una questione che accompagna la storia e la riflessione filosofica dell’Occidente, fin dalle sue origini. È di sicuro uno di quei concetti attraverso cui l’Occidente legge se stesso, la propria identità, l’avvicendarsi e le trasformazioni della propria Weltanschauung. Attraverso l’analisi dell’idea di estraneità, la riflessione teorica riesce a ridurre la diacronia tra pensiero e realtà e, pertanto, a percepire e interpretare il proprio tempo. Si potrebbe addirittura sostenere che un rinnovato interesse a proposito della questione dell’estraneità può essere espressione di una svolta epocale. E, proprio negli ultimi anni, il tema dell’estraneità domina prepotentemente le riflessioni di diverse discipline, non soltanto filosofiche. Che accade, dunque, sul fronte occidentale? Topografia dell’estraneo, a cura di Mauro Ponzi e Vittoria Borsò, che presenta gli interventi di un Convegno romano del 2005, organizzato dall’Università “La Sapienza” di Roma e dalla Heinrich-Heine Universität di Düsseldorf, raccoglie e, al contempo, sviluppa l’inquietudine teorica che caratterizza attualmente la concezione dell’estraneità e consente di orientarsi tra termini quali multiculturalità, interculturalità, transculturalità, che risuonano frequentemente non soltanto nelle Accademie, ma anche nel discorso pubblico.
Abbiamo appena sostenuto che la riflessione sull’estraneità è tanto antica quanto quella sull’identità della nostra cultura, anzi l’una questione non si pone senza l’altra. Cos’è intervenuto oggi in particolare per giustificarne una sua rinnovata urgenza e necessità ermeneutica? Come già grandi filosofi contemporanei (Derrida soprattutto), anche Topografia dell’estraneo prende spunto dalla tradizione greca della “legge dell’ospitalità”, in quanto momento emblematico che, nella figura dell’hospes – come insegna l’analisi filologica del termine che fornisce Benveniste –, contempla insieme il soggetto portatore dell’identità e dell’appartenenza – il padrone di casa (ancora oggi la parola “ospite” indica sia chi dà sia chi riceve ospitalità) –, lo straniero e il nemico. Il saggio in apertura del volume di Bernhard Waldenfels – la cui riflessione sull’estraneità rappresenta il fulcro intorno a cui si muovono anche altri interventi del libro –, Estraneità, ospitalità e ostilità, già marca la differenza nella considerazione del “nemico”, che si è andata consumando rispetto al mondo greco e che oggi caratterizza l’approccio teorico e politico all’estraneità: «Ciò che resta [rispetto al nemico della concezione greca] è una forma limitata di inimicizia legale, che si rivolge contro i nemici della democrazia, della legge, della libertà e infine contro i nemici dell’umanità. […] Con il richiamo all’umanità non ci liberiamo dell’estraneità, giacché spesso è un’istanza particolare quella che pretende di parlare “per tutti noi” e di combattere per tutti noi senza richiedere la nostra approvazione. L’umanità vivente è a più voci, un’umanità unanime non è altro che una idea fissa che non ha alcun effetto. Così il globalismo del “mondo libero” rimane un focolaio di ostilità, al di là degli interessi che si celano al suo interno. Esso viene messo in discussione da un’estraneità che resiste all’integrazione.» [pp. 13]. Un grande pregio del pensiero di Waldenfels è quello di svelare, in una politica di neutralizzazione dell’estraneità del nemico, l’ambiguità che si cela dietro la retorica dell’“integrazione dell’estraneo”, che potrebbe invece nascondere nient’altro che un’“ossessione identitaria”, un nocciolo totalitario dietro l’urbanità del costume della “esportazione dei diritti”: «Il paradosso della scienza dell’estraneo – sottolineato da Waldenfels – sta nel fatto che quanto più essa riduce il proprio oggetto – cioè riduce l’estraneità tra le culture – tanto più essa annienta se stessa, a meno che il logos della scienza non si modifichi a tal punto da garantire lo spazio all’estraneo senza annullare del tutto la sua estraneità. Questo conflitto con l’estraneo per l’estraneo, scrive Waldenfels, è ancora irrisolto.» [p. 22], scrive efficacemente Ponzi in Transito, transizione, trasposizione.
Abbiamo sostenuto che l’Occidente ha sempre avuto bisogno dell’altro per determinare e definire la propria identità, che deve restare pertanto un concetto relazionale. E, lungo la sua intera storia, fino a oggi, l’Occidente è andato a cercare l’altro sempre fuori dai suoi confini: dall’Odissea in poi, la nostra storia è stata caratterizzata esemplarmente da esploratori e missionari. Ecco dunque che giungiamo al contesto della globalizzazione, dove sta accadendo quella svolta rispetto al passato nella concezione dell’estraneità, a cui accennavamo, che davvero spiega l’attualità dei temi e degli approcci di Topografia dell’estraneo: in una maniera senza precedenti con queste proporzioni, è adesso l’altro, l’estraneo che viene in Occidente. Oggi con l’estraneo dobbiamo condividere il nostro spazio proprio. A saltare, a diventare poroso, a negoziare costantemente la sua posizione è il confine tradizionale tra “proprio” ed “estraneo”, già all’interno, dentro le nostre città. Facciamo quotidianamente esperienza non più soltanto della differenza tra il proprio e l’estraneo, bensì anche dell’estraneità del proprio, del proprio spazio e della propria casa, che spiega e giustifica pertanto il riferimento sempre più diffuso alla tradizione greca dell’ospitalità. Ogni luogo è, al contempo, familiare ed estraneo (“perturbante”: non è affatto un caso che lo psicanalista Antonio Vitolo, in un saggio del volume, chiami in causa il concetto freudiano dell’Unheimliche), qui e “altrove”: l’estraneità si dà, dunque, anche topograficamente. Veniamo, dunque, anche al contributo costruttivo che Topografia dell’estraneo fornisce, oltre alla registrazione – già non più una novità, bisogna dire – della centralità del tema dell’estraneità. Sono proprio i due curatori di Topografia dell’estraneo a presentarlo esplicitamente nella Prefazione: «Il volume si propone di analizzare il sorgere di spazi intermedi (Zwischenräume) all’interno delle aree culturali europee e americane. Gli “spazi” che in tali modi si aprono vengono popolati da figure quali l’ibrido e l’eterotopia che caratterizzano la moderna società multiculturale. I “luoghi” di tali incontri non sono costituiti solo dalle città di confine, ma anche (se non soprattutto) da altre aree urbane – Berlino, Parigi, New York, Napoli, Bahia ecc. – in cui vengono a contatto culture diverse e in cui si moltiplicano le “soglie” della comunicazione interculturale. […] In questo caso non si parla più di – o non solo – di interculturalità, ma di transculturalità, giacché l’eterotopia non cerca di mettere in comunicazione due o più culture, ma l’identità dell’ibrido (o dell’eterotopia) si colloca esattamente in questo “fra”, si riconosce nella sua natura composita che è – anche – di carattere corporeo. È un essere “altro” non rispetto a una forma di “proprio”, ma è essere propriamente diverso dalle due (o più) identità “demarcate” dal confine.» [p. 2]. I due curatori del volume confermano pertanto la diagnosi di Foucault in Des espaces autres, che, a differenza della precedente “epoca della storia”, definisce quella attuale come “l’epoca dello spazio”. In Topografia dell’estraneo, di Foucault si accoglie anche la concezione della “eterotopia”: uno spazio che, pur essendo “altro” come l’u-topia, ha tuttavia “luogo” fisico e reale. In La produzione di “altri spazi”. Riflessioni sulla visualità e i media, Vittoria Borsò radicalizza la concezione foucaultiana dell’eterotopia sia per superare una spazialità comunque determinata dalla dicotomia tra proprio e altro sia per evitare l’ipostatizzazione del “framezzo”, dello Zwischenraum in quanto terzo “fra” proprio ed estraneo, e insiste invece sulla “produzione” di nuovi e altri spazi, che caratterizza la nostra epoca, di cui appunto bisogna scrivere la topografia, secondo criteri diversi. I saggi che compongono Topografia dell’estraneo vanno a individuare e analizzare tali “altri spazi”, tali ibridazioni tra proprio ed estraneo nella letteratura, occidentale e post-coloniale, ma si spingono anche a evidenziare la produttività filosofica e gnoseologica di spazi in grado di accogliere l’estraneità senza ridurla all’identità, spazi in bilico “tra” proprio ed estraneo, dove l’“inter-ludio” non s’acquieta né in se stesso né nel ritorno al proprio: tale è, ad esempio, lo spazio dell’ascolto musicale, come lo concepisce Elio Matassi nel suo contributo. Infine, torniamo a Waldenfels, che a conclusione del suo saggio chiaramente distingue la sua concezione dell’estraneità da quella compresa nell’ermeneutica e nella teoria del riconoscimento, che tenderebbero a ridurne e consumarne il carattere conflittuale e sovversivo. L’estraneo è e deve restare ostile, lo spazio del suo in-contro è e deve restare inappropriabile; ne va della nostra casa, dove noi stessi siamo ospiti e, pertanto, tenuti a rendere – al di fuori dell’ordine di un’economia dello scambio – ospitalità: «Ostilità vuol dire più che mancata comprensione o mancato riconoscimento. Ostilità sta per ostilità rimossa e ospitalità negata.» [p. 13].
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