1) La questione dell’amicizia ha in un certo
senso dominato gli ultimi dieci anni della riflessione derridiana. Anche al
di là della rilevanza prettamente teoretica di questo tema, quanta importanza
aveva la dimensione dell’amicalità nella vita e nel pensiero di
Derrida?
Strana domanda…Sono in grado di rispondere? In
che modo? Fino a dove ?
Lei mi rivolge questa domanda come se io avessi il potere e il diritto di penetrare
addirittura l’intimità di un uomo. Ma mi piace l’audacia
della questione, e quindi risponderò come posso. Derrida era un uomo
di una sensibilità straordinariamente forte e delicata. Questa sensibilità
la doveva innanzitutto e senza dubbio ad un profondo senso di solitudine e questo
sentimento era in lui l’effetto di un pensiero che, fin dall’inizio,
si sentiva votato a “riprendere tutto dall’inizio”, come recita
la frase pronunciata da Husserl nei suoi ultimi giorni di vita e citata da Derrida
alla fine della sua tesi nel 1954. “Votato a” si può e si
deve intendere come “destinato a”, o “condannato a”,
o anche “chiamato a”. Credo che l’effetto di una “vocazione”
potente, e la natura stessa di una tale vocazione, sia sempre tanto di ordine
affettivo quanto di ordine intellettuale. La distinzione tra questi due ordini
non trova spazio in questo caso. Il pensiero, la radicalità filosofica,
l’esigenza dell’“originario”, l’esigenza connessa
di costruire una lingua, spalancano un abisso davanti a un “soggetto”.
Può precipitarvi o, al contrario, può attingervi una forza rinnovata
(in alcuni casi semplicemente non può superare né colmare questo
abisso). Derrida possedeva un’eccezionale potenza di analisi e di sintesi,
di formulazione, d’attenzione, ecc., ma questa potenza era subita come
un eccesso sulle capacità dell’uomo. Non sto attribuendo a Derrida
una statura mitica: al contrario è molto semplicemente ciò a cui
è destinata quel genere di grandezza che oltrepassa, e in un certo senso
devasta, colui che ella stessa abita. Questi i motivi per i quali egli è
stato così fortemente, così potentemente, e a volte così
dolorosamente, un uomo di desiderio, d’amore e d’amicizia. Donava
l’amore attorno a sé come fosse l’effusione della propria
potenza, domandava, attendeva l’amore degli altri per essere sostenuto
nella solitudine che egli sapeva impossibile da colmare. “La vita e il
pensiero”: in Derrida non si possono più distinguere, non più
di quanto si possa fare, se vuole, in Blanchot o in Artaud…
2) Mi pare che persino tra gli estimatori dell’opera di Derrida sia
diffuso un certo "sospetto" per le possibili conseguenze politiche
del suo pensiero...
So che soprattutto in America e in Germania, di recente,
ha agitato lo spauracchio della destra, addirittura in Germania di un “protofascismo”
(anche se era l’accusa era rivolta nello specifico a Deleuze e Lyotard).
Ma che assurdità! Che visione ristretta di un’ossessione “di
sinistra” diventata totalmente a-critica! Faccio un esempio personale
perché è più evidente il mio libro La comunità
inoperosa è stato definito nazista (si, ha capito bene: nazista)
in un giornale di sinistra di Berlino solo perché la parola “Gemeinschaft”
suonava nazista… (eppure non avevo detto “Volksgemeinschaft”).
La lettura del libro, nell’articolo, era un gigantesco controsenso…
Dieci anni dopo, dei giovani neocomunisti scoprivano con piacere questo libro
a seguito della caduta del muro… Il sospetto politico è sempre
un sospetto concepito a partire da una certezza di sinistra: si sa cosa è
la sinistra, sia essa comunista o trotskista, maoista o consiliarista addirittura
situazionista, anarchica, ecc. (e si potrebbe andare alla ricerca di tutte le
metamorfosi attuali di queste tipologie). Questa certezza di sinistra ha sempre
due facce: da una parte c’è l’esigenza assoluta di giustizia
che si oppone alle gerarchie, alle dominazioni, allo sfruttamento, alle differenze
imposte e manipolate; dall’altra c’è l’esigenza di
una rifondazione totale, di una rivoluzione o di una nuova ricostruzione della
città su un fondamento nuovo e assoluto. Questo secondo aspetto è
tributario di tutto il peso metafisico del fondamento, dell’origine, della
finalità e persino dell’idea che la natura che si realizzi attraverso
una storia teologica, ecc… Io stesso per lungo tempo ho condiviso, più
o meno consapevolmente, questo atteggiamento, tanto che mi veniva di pensare
che Derrida fosse troppo prudente in politica. Ma mi ricordo, ad esempio, che
la sua prudenza gli ha evitato, nel 1991, di essere d’accordo con la prima
guerra del Golfo come invece lo furono attorno a me molti intellettuali di sinistra
(persino quelli ritenuti, o che si ritenevano, più a sinistra di lui).
Mi diceva: “Bisogna pure che ci siano delle guerre giuste, ma questo è
veramente il caso?”. Ma oggi non c’è nessuno che possa venire
e sostenere che questa o quella sinistra avesse avuto ragione di fronte al ritrarsi
di Derrida: il suo ritrarsi ha saputo tenersi a distanza dai romanticismi e
restare vigile senza per questo farsi coinvolgere nel tranello delle esaltazioni.
Ha cercato di essere un vero filosofo nella politica invece di tentare di costruire
una “filosofia politica”. Potremmo dire: per Derrida non solo le
politiche comuniste, anarchiche, ecc., erano sorpassate ma lo erano persino
gli ideali regolatori del tipo di Hannah Arendt, e le prospettive alla Habermas
erano troppo carenti di interrogazioni sulle condizioni di possibilità
di una razionalità comune. Nel contempo è anche vero che diffidava
molto di tutte le argomentazioni “comunitarie”: non amava il termine
“comunità” che io avevo invece (ri)cominciato ad usare, criticava
anche quello di “fratellanza” in Blanchot, Levinas ed io stesso.
Peraltro io non ero d’accordo e avrei voluto continuare a parlarne. Ritengo
che si sbagliasse in merito alla parola “fratellanza”. Ma per quanto
riguarda il termine “comunità”, ho dovuto riconoscerne le
ambiguità e i “comunitarismi” odierni non mi incoraggiano
certo a riutilizzarlo! Ecco perché ho preferito iniziare a parlare di
“essere-con”: di questo Derrida aveva accettato di parlare. La sua
diffidenza poteva essere eccessiva e di origine affettiva (per lui la “comunità”
era la “comunità ebraica” religiosa da cui voleva tenersi
lontano così come da quella cristiana), pur avendo egli una logica politica
precisa, senza dubbio discutibile ma per nulla sospettabile. Alla fine direi
questo: sapeva troppo bene che la “politica” deve essere ripensata
da cima a fondo piuttosto che allineata in base ad un ulteriore modello.
3) Secondo lei la vivacità e l’originalità
del pensiero di Derrida si evidenziano anche nella sua capacità di produrre
“polemiche”, vale a dire nella forza con cui esso riusciva ad intervenire
in un dibattito rilevandone i presupposti impliciti e rilanciando la necessità
di un’incondizionata messa in questione?
Sì, possiamo dire che la forza eccezionale della
sua presenza il suo carisma e del suo discorso scatenavano facilmente la controversia
(una forza di cui è inutile fare un elogio ingenuo come se egli fosse
un campione di culturismo filosofico: bisogna invece comprendere che tale forza
lo trasportava superandolo, lo proiettava fuori di sé). Alcuni interventi
incisivi, incondizionati in effetti, hanno spesso avuto la conseguenza di sollevare
discussioni, o dispute. Non userei il termine “polemiche”: evoca
le guerre di difesa o d’invasione di territori intellettuali. Derrida
partiva con l’annullare subito tutte le territorialità: a questo
proposito era molto “deleuziano” (peraltro essi condividevano, anche
se in maniera differente, il motivo del nomadismo). L’aspetto più
sorprendente sono sempre state la arte e la sua scienza di risalire fino ai
presupposti impliciti: “Voi dite questo, ma cosa c’è dietro?
Quali premesse?” (per esempio, rivolto a me: dici “fraternità”,
ma dietro c’è la famiglia, la paternità ed anche il maschile
contro il femminile, ecc.). Alla fine di tutte le presupposizioni, sapeva che
avrebbe trovato non un’assenza originaria di presupposti ma l’impossibilità
di una tale origine pura – e l’aporia. Si lanciava su questa aporia
con una sorta di follia maniaca, con un ardimento e per così dire con
un ardore (una vitalità, una foga, addirittura una rabbia) che gli apparteneva,
che era la sua maniera, il suo stile e la sua forza, sì, il suo vigore.
Tutto ciò poteva avere limiti e portare a dei momenti di cecità
– ma poco importa: non dobbiamo ripetere i suoi gesti, basta osservarli
e comprenderli per quanto è possibile. Dobbiamo sforzarci di comprendere:
ad esempio, il dibattito con Foucault non si è sviluppato tra due opzioni
teoriche ma tra un determinato trattamento storico dalla “follia”
in quanto categoria costruita dal razionalismo moderno e una considerazione
filosofica della “follia” in quanto limite della ragione, considerazione
che il testo di Cartesio ci obbliga a fare e che, all’improvviso, impedisce
di attenersi ad un découpage di carattere storico-sociologico. Questi
non ne esce invalidato: ma il registro è completamente mutato, questo
è tutto. Derrida ha interrogato le presupposizioni filosofiche del discorso
storico-critico di Foucault, non ha “polemizzato” contro quel discorso
né sul suo territorio.
4) Vorrei concludere facendole una domanda su quella che forse è
una difficoltà di questa intervista: decidendo di rispondere su e di
un altro, soprattutto quando la testimonianza riguarda un amico a cui si è
dato da poco l’addio, di che cosa ci si assume la responsabilità?
Lo so, tutta la difficoltà di questa intervista
è qui. Se la considerassi per essa stessa, mi rifiuterei di parlare:
le direi che “parlare su” non mi interessa affatto (d’altra
parte per fare ciò bisogna saperne molto di più su “Derrida”
di quanto non ne sappia io, bisogna avere i suoi testi ben in mente, cosa che
non è sempre il mio caso; l’amicizia non mi obbligava a passare
il mio tempo a leggerlo, e d’altronde qualche volta Derrida mi ha detto:
“Ma come! Non hai letto bene questo o quello…”; altre volte,
se io volevo una precisazione, gli domandavo se egli avesse parlato, e dove,
di questo o quell’argomento…). E d’altra parte le direi che
non pretendo di “rispondere di” lui al suo posto. Penso di poterlo
fare, un po’, penso che ci sono delle domande alle quali io so ciò
che avrebbe risposto (e non sono l’unico, tutt’altro); ce ne sono
altre alle quali io credo di sapere… – ce ne sono alcune alle quali
io so ciò che egli avrebbe dovuto rispondere: e allora lo correggo o
lo rettifico secondo le mie preferenze. Ci sono infine dei casi dove, palesemente
anche tra ciò che precede io mi insinuo al posto suo, più o meno
volontariamente. Sono sicuro che Derrida correggerebbe, che avrebbe corretto,
modificato o rifiutato certi elementi di ciò che ho appena detto. È
impossibile distinguere nettamente tra tutti questi casi. Non è importante:
quello che io devo a Derrida è un movimento di pensiero, non un insegnamento,
né una dottrina, neppure un corpus di termini, di filosofemi e di citazioni.
Ed è proprio là che gioca l’amicizia nel pensiero e del
pensiero: ci si stimola, ci si provoca, ci si alimenta a vicenda, ci si stuzzica
o ci si irrita, ma ognuno sa che ciascuno deve fare il suo proprio lavoro, deve
assumere il suo proprio stile. Derrida mi prendeva in giro quando utilizzavo
dei concetti che egli trovava troppo gravosi: per esempio questo titolo Il senso
del mondo, a proposito del quale egli mi aveva detto: “Ebbene, non ti
senti a disagio!”. Ma sapevo che sapeva quale era per me la posta in gioco,
e che la trattazione di questi concetti non era poi così tanto gravosa.
Sapevo che sapeva che c’è anche un gioco necessario tra le singolarità.
Ed ecco quello che saluto in lui, con forza e tenerezza. Derrida è stato
una delle grandi chance della mia vita, una chance molto importante per il lavoro
e per l’amicizia (insieme ad altre che hanno i nomi, per restare nella
filosofia Lacoue-Labarthe e Warin): non si risponde di una chance! Anzi, tutto
al contrario: io rispondo di lui solamente in quanto chance…
(L'intervista nella sua versione integrale è pubblicata su Alternative 1-2005) |