Che cosa bisogna intendere oggi per «teoria critica»? Quali devono essere i suoi scopi? E quali sono le difficoltà di fronte a cui essa oggi è posta? A queste domande provava a rispondere qualche anno fa la teorica statunitense Nancy Fraser, nel corso del confronto, condotto senza troppi filtri e mediazioni, che aveva ingaggiato con il filosofo tedesco Axel Honneth; confronto poi battezzato: Redistribuzione o riconoscimento?.[1] Fraser richiamava l’attenzione sul fatto che per teoria critica della società va inteso innazitutto un approccio teorico che, facendo interagire diversi ambiti disciplinari, tenta di offrire strumenti di analisi dei principali meccanismi di ingiustizia, di esclusione e di dominio delle nostre società tardo o iper-moderne, contrassegnate dal dominio economico e culturale del neoliberalismo. D’altra parte – continuava Fraser - una teoria critica deve anche, allo stesso tempo, cercare di concettualizzare, in maniera riflessiva, l’agenda dei movimenti di emancipazione del proprio tempo, lavorando in vista della realizzazione dei loro obiettivi. Teoria critica della società vuol dire, quindi, allo stesso tempo, teoria e prassi: in questione è un sapere che, comunque sia declinato, se tenta di mettere a fuoco i meccanismi sistematici di ingiustizia che permeano le nostre società, non può esimirsi dal porsi in relazione, e in qualche modo al “servizio”, dei movimenti sociali che lottano per l’emancipazone, ossia per la rimozione di ogni ostacolo alla piena realizzazione della libertà e dell’eguaglianza di tutti gli individui. Ma proprio su questo nesso, quello cioè tra teoria e prassi, sorgono i dilemmi più spinosi. Affermava lucidamente Fraser:
«Coloro che oggi vogliono rinnovare il progetto di una teoria critica s’imbattono in un difficile compito. Costoro (...) non possono più supporre una cultura politica, in cui le speranze di emancipazione trovano fondamento nel socialismo, il lavoro detiene il primo posto tra i movimenti collettivi e l’egualitarismo sociale riscontra un ampio sostegno. Essi, piuttosto, constatano un esaurimento delle energie utopistiche (di sinistra) e una proliferazione decentrata di movimenti sociali, molti dei quali rivendicano il riconoscimento delle differenze di gruppo, piuttosto che dell’eguaglianza economica. (..) Inoltre, diversamente dai primi hegeliani di sinistra, i teorici critici non possono concepire la società come un tutto culturalmente omogeneo, in cui le rivendicazioni politiche sono giudicate eticamente, tramite l’appello a un unico orizzonte di valori. Grazie alla complessità dei processi che vanno sotto il nome di globalizzazione, devono far fronte a nuovi contesti, in cui gli orizzonti di valore sono pluralizzati, frantumati e intersecanti. Infine, diversamente dai loro predecessori, i teorici critici di oggi non possono supporre che tutte le rivendicazioni legittime dal punto di vista normativo convergano in un unico programma per il cambiamento istituzionale. Ma, anzi, devono far fronte a dei casi complicati – come quelli, per esempio, in cui le rivendicazioni per il riconoscimento delle minoranze culturali contrastano con le rivendicazioni per l’eguaglianza di genere – e devono indicarci, inoltre, come risolverli».[2]
Di fronte all’esaurimento delle «energie utopistische di sinistra», diagnosticato già da Habermas alla fine degli anni Ottanta, una teoria critica non può più dare per scontato il proprio legame con la prassi, ma deve in qualche modo contribuire a crearlo. Questo vuol dire da una parte che, di fronte alla frantumazione delle istanze politiche che provengono dalla società, la teoria critica dovrebbe definire parametri della critica quanto più possibile ampi, capaci di tenere insieme pretese diverse e non facilmente coordinabili, come quelle appunto del riconoscimento delle identità e della giustizia distributiva; ma la teoria critica dovrebbe anche, da un altro lato, discernere istanze legittime o progressive, e differenziarle da quelle non legittime o regressive. Il problema così si sposta ulteriormente: cosa vuol dire dare un orientamento critico alla prassi, e chi può essere legittimato a compiere questa opera, senza cadere in una posa elitaria o paternalistica, che ha già perso in partenza la sfida di collegarsi e contaminarsi con la prassi?
[1] N. Fraser, A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento?, trad. it. E. Morelli e M. Bocchiola, Meltemi, Roma 2003.
Leggi l'articolo in formato PDF |