Tra tanta recente letteratura critica su Walter Benjamin, Esperienza e
compito infinito nella filosofia del primo Benjamin di Tamara Tagliacozzo
può con diritto ritagliarsi un suo peculiare spazio di rilievo. Come
è evidente già dal titolo, il libro di Tagliacozzo riempie una
evidente lacuna negli studi su uno dei più influenti filosofi del Novecento:
infatti, Esperienza e compito infinito analizza con grande acribia
gli anni giovanili di Benjamin, compresi tra il 1912 e il 1918, spesso relegati
sullo sfondo dalla critica rispetto alla produzione benjaminiana degli anni
venti e trenta. È pur vero che Pierfrancesco Fiorato in Italia e Astrid
Deuber-Mankowsky in Germania rappresentano un importante precedente, che Tagliacozzo
ha ben presente, tuttavia l’originalità di Esperienza e compito
infinito consiste nella sua struttura rigorosamente cronologica che, nel
ricostruire la formazione umana e intellettuale del filosofo tedesco –
Benjamin stesso l’insegna – induce la sua autrice a non sottovalutare
anche il particolare più apparentemente secondario. Se Fiorato e Deuber-Mankowsky
hanno scritto pagine decisive sull’influenza di Hermann Cohen e del neokantismo
sul giovane Benjamin, attraverso una ricognizione estremamente scrupolosa, Tagliacozzo
allarga sensibilmente la costellazione benjaminiana degli anni dieci. Proprio
riguardo a un autore quale Benjamin, tale ricerca assume un valore particolarmente
significativo. Infatti, per la scarsità di riferimenti filosofici espliciti,
solo con gran difficoltà la forma e il contenuto dei più celebri
scritti benjaminiani sono riconducibili a una determinata tradizione filosofica;
un tale stato di fatto, soprattutto nella prima fase della ricezione di Benjamin,
ha provocato una diffidenza di fondo da parte dei filosofi “di professione”
e, a tutt’oggi, ha reso disponibile l’opera benjaminiana a essere
accolta negli ambiti di pensiero più disparati. Raramente si risale indietro
la ben nota Premessa gnoseologica all’Ursprung des deutschen
Trauerspiels del 1925 per ricostruire la costellazione filosofica di riferimento
di Benjamin. Dunque, un primo merito del libro di Tagliacozzo consiste nell’aver
dimostrato come, da un punto di vista prettamente filosofico, la Premessa
gnoseologica sia soltanto la punta di un iceberg che poggia la sua base
proprio nel febbrile, incoerente e confuso anche, decennio predente, quando
Walter Benjamin era un giovane studente e studioso di filosofia.
Dalla militanza nella Jugendbewegung di Gustav Wyneken, alla frequentazione
dei corsi universitari dei maggiori esponenti del neokantismo, la corrente filosofica
in quegli anni più influente in Germania, e al progetto di una tesi di
dottorato su Kant, dall’amicizia con il “genio” Felix Noeggerath,
all’incontro e ai primi confronti con l’amico di una intera vita
Gershom Scholem e, attraverso di lui, al primo ma risoluto insinuarsi delle
categorie del pensiero ebraico nelle sue riflessioni; ma anche tanti interessi
apparentemente eccentrici come quello, ad esempio, per le civiltà precolombiane,
che da “collezionista” benjaminianamente conseguente Tagliacozzo
non manca mai di registrare: insieme alle rigorose analisi di carattere teoretico
degli scritti degli anni dieci, per decifrare la complessa formazione intellettuale
di Benjamin, Esperienza e compito infinito non tralascia affatto informazioni
di natura biografica, che sono fondamentali per restituire l’autore di
scritti dalla così forte influenza postuma alla temperie culturale del
“suo” tempo. Insomma, anche a un livello superficiale di lettura,
Esperienza e compito infinito è una vera miniera di materiale eterogeneo,
custodito nell’imponente apparato di note del testo, che riesce a rendere
la freschezza, l’inquietudine e la curiosità umana e intellettuale
di un giovane e promettente filosofo degli anni dieci del Novecento, ben prima
che sia travolto dalla “bufera” della Storia, da quegli avvenimenti
epocali che hanno tragicamente segnato il “secolo breve”.
Per evitare ogni sorta di fraintendimento, in cui comunque Tagliacozzo è
attenta a non incorrere, occorre precisare che la filosofia del giovane Benjamin
non può essere assunta come una “fondazione” del suo pensiero
maturo, tuttavia essa fornisce una importante chiave ermeneutica per leggere
i suoi scritti più celebri e per sfuggire alcuni preconcetti che non
raramente hanno accompagnato la critica. Esperienza e compito infinito:
già il titolo del libro di Tagliacozzo mostra esemplarmente due concetti
che nello sviluppo della riflessione benjaminiana incontreranno fortune quasi
opposte. L’idea di Erfahrung rappresenterà, infatti, un
leit-motiv che accompagnerà il pensiero di Benjamin fino agli
ultimi suoi scritti. Come in Sul programma della filosofia futura (1917-18),
in Benjamin resta aperta la possibilità di una conoscenza legata a un’idea
di esperienza che, a differenza del neokantismo, non sia limitata esclusivamente
all’ambito delle scienze fisico-matematiche e alle loro categorie, ma
sia insieme “a priori” e “metafisica”. Certo, nel 1933,
tale Erfahrung è connessa all’idea di “povertà”
(Armut); piuttosto che come estensione e arricchimento dell’esperienza
possibile, l’Erfahrung è desunta come scarto e resto rispetto
all’invadenza dell’”esperienza vissuta” (Erlebnis),
“forma” repressiva di un’esperienza ridotta a prevedibilità
e controllabilità. Senza dilungarci in accurate analisi, che pure meriterebbero,
tra gli aspetti decisivi che cominciano a delinearsi negli anni dieci e che
occuperanno in seguito un ruolo fondamentale nella riflessione matura di Benjamin,
basti accennare al rapporto tra idee e concetti, di derivazione kantiana,
che tanta importanza assumerà nella Premessa gnoseologica alla
Ursprung des deutschen Trauerspiels, e alla concezione dell’Ausdruckslose,
ricorrente negli scritti benjaminiani di carattere estetico, ma che ha la sua
scaturigine in Due poesie di Friedrich Hölderlin degli anni 1914-15.
Negli scritti della maturità, ben altra fortuna sarà riservata,
invece, alla concezione di compito infinito, che ritornerà con
segno inverso nell’ultimo scritto benjaminiano, nella tesi XVIIa di Über
den Begriff der Geschichte del 1940, dove “la dottrina neokantiana
del ‘compito infinito’” rappresenta l’anticamera teorica
di quel “tempo omogeneo e vuoto” con cui Benjamin critica l’attendismo
del partito socialdemocratico, inefficace a fronteggiare l’ideologia fascista,
di cui finisce per condividere l’ideale progressivo. Tuttavia, un passaggio
decisivo di Esperienza e compito infinito consiste nel riconoscere
come, negli scritti degli anni dieci, la riflessione di Benjamin sulla kantiana
“cosa in sé”, seppur ancora radicata nell’idea neokantiana
di “compito infinito”, non senza un certo tasso di problematicità,
già comincia a trasfigurarsi in quelle concezioni originalmente benjaminiane,
dove, in controluce, si può scorgere il riflesso di una Erfahrung
“metafisica”: nell’idea di “lingua pura” del saggio
Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen,
nella figura della “Gewalt divina” di Zur Kritik der
Gewalt e nelle prime elaborazioni del messianesimo ebraico, ad esempio.
Proprio nella riflessione sul linguaggio, profondamente legata al pensiero ebraico,
Tagliacozzo rintraccia un determinante distanziamento di Benjamin rispetto al
neokantismo. Corrisponde a tale presa di distanza un definitivo abbandono dell’esigenza
sistematica che, sulla scorta di Kant e del neokantismo, aveva accompagnato
Benjamin negli anni dieci? Anche se non esplicitata in questi termini, Esperienza
e compito infinito di Tagliacozzo non lascia affatto inevasa la questione.
Che la riflessione di Benjamin sul linguaggio e sul messianesimo possa rappresentare
il retaggio del suo interesse giovanile per il sistema kantiano e neokantiano
non indebolisce affatto, in senso postmoderno ad esempio, la centralità
della questione della conoscenza nel suo pensiero, anzi: che gli scritti più
importanti di Benjamin non si configurino in forma sistematica non significa
che in essi venga a mancare una struttura e una costruzione forte di pensiero.
L’esplicita assenza di un sistema filosofico di matrice moderna può
non corrispondere affatto a un’assenza di sistematicità; o meglio:
soltanto l’assenza di un tale sistema pone le condizioni di possibilità
per una teoria della conoscenza in grado di accogliere una concezione teologica
del linguaggio e la questione del messianesimo. |