Il libro mette insieme una serie di saggi che, come annuncia il titolo, ruotano
intorno al tema del desiderio come problema filosofico. I saggi affrontano autori
del Novecento, per lo più francesi, che si sono occupati del desiderio
o meglio che hanno fatto di esso uno dei passaggi chiave del loro pensiero.
La filosofia da sempre si interroga su cos’è il desiderio e su
che ruolo ha nell’esperienza umana. Quello che sembra esser nuovo negli
autori presentati nel testo è il ruolo prelogico ma non irrazionale che
il desiderio e le emozioni assumono. Questa nuova funzione è origine
e conseguenza dell’abbandono del logocentrismo moderno, che proprio dalla
Francia, attraverso Cartesio, aveva preso le mosse. Tutti gli autori presentati
nel testo si “battono” per il superamento dell’idea che il
cogito sia il fondamento assoluto ed autodeterminantesi di ogni certezza. Rifiutando
con ciò non l’idea stessa della razionalità (non si tratta
di derive relativistiche o irrazionalistiche) ma rifiutando di dare al logos,
attraverso la formula del cogito, quella potenza assolutizzante che esclude
da sé sia le emozioni, sia l’esperienza come luogo autentico ed
originario della certezza della conoscenza. Il logos diviene per questi luogo
del comune intendere, possibilità di questa intesa, mezzo e non fondamento,
dell’esser rivolti «fuori» (in quanto coscienze) di fronte
alle cose. Il Cogito, «le Je», precipita così sulla terra
e diviene cosa tra le cose. In questa prospettiva il desiderare e il desiderato,
ciò a cui siamo esposti, divengono inevitabilmente alcuni dei temi principali
della riflessione. Si comprende allora la scelta di iniziare il libro con un
saggio, quello di Nunzio Allocca, sul pensiero di Roger Caillois (fondatore
insieme a G. Bataille e M. Leiris del celebre «Collège de Sociologie»)
e l’argomento cartesiano del sogno. Cartesio cerca un fondamento alle
scienze del suo tempo e una filosofia che sia scienza di questo fondamento.
Per far ciò sospende la validità della percezione sensibile: sospende
cioè quella consapevolezza quotidiana che fa sì che si possa distinguere
tra i modi e le qualità del percepire e del percepito. Il passaggio è
tra i più celebri della storia della filosofia; con la domanda: «Dormo
o son desto? » il filosofo francese pone sotto il segno dell’indistinzione
il sogno e la realtà, l’immaginazione e la percezione, arrivando
a sospendere, attraverso l’esercizio scettico, la consistenza stessa del
reale. Cartesio cerca di scalzare la prospettiva scettica accettando e svolgendo
i suoi presupposti. Questa sospensione troverà, come è noto, il
suo superamento solo nella certezza del cogito.
Quindi, non più alla percezione ma all’intelletto sarà
affidato il compito di attestare la certezza della conoscenza. Scrive Allocca
commentando il procedimento cartesiano: «l’infinita varietà
delle qualità percepite non esiste se non nella mente del soggetto conoscente
(...) La certezza non può dunque appartenere ai sensi, ma solo all’intelletto
che percepisce con evidenza» (p. 22). In questo modo il desiderato perde
la sua forza e le sue qualità; non è più esso a muovere
come diceva Aristotele il desiderante, ma questi si autodetermina al desiderare.
L’ego diviene l’unico motore del desiderio. Roger Caillois cerca
di invalidare il ragionamento cartesiano, con l’intento di mostrare l’impossibilità
di trovare un appiglio per uscire dal dubbio. Per Caillois la coscienza è
un abisso di memoria, pulsioni e desideri, abisso nel quale non si può
rintracciare alcuna certezza o fondamento. Riponendosi la celebre domanda cartesiana
si chiede: «poiché è di fatto inevitabile che, almeno nel
momento in cui sogniamo, si confondono i sogni con la realtà, come potremo
andar certi che, quando non sogniamo, non confondiamo la realtà con i
sogni?» (p. 26) La memoria diviene l’elemento in grado di invalidare
il ragionamento cartesiano. Quando ricordiamo, infatti, non riusciamo a distinguere
con certezza se ciò che sopraggiunge dalla memoria sia un ricordo di
realtà o di sogno. Caillois introduce la temporalità all’interno
del cogito e tra le cogitationes: mentre mi chiedo se sogno o se sono desto
non posso sapere se sto pensando (ricordando) a un sogno o ad una percezione
sensibile. C’é sempre una differenza temporale tra la riflessione
e l’oggetto della riflessione. Questa introduce evidentemente un rimando
all’infinito, attraverso la necessità di un nuovo atto riflessivo
di distinzione che a sua volta ne richiederà un altro ecc. ecc.. La memoria,
partecipando agli atti apprensionali del cogito, porta in esso l’oblio
del tempo e del ricordo. Quindi una volta intrapresa la via del dubbio, e riconosciuto
il ruolo della memoria nel processo conoscitivo è impossibile tornare
indietro. «Alla superficie della coscienza vigile affiorano i residui
dell’abisso della non-ragione, muta inesauribile sorgente della ragione
stessa» (p. 35). Il primo saggio ci apre così al motivo dell’indagine
proposta: il cogito cartesiano e la prospettiva razionalistica sono insufficienti,
bisogna allargare la ricerca e dar ragione di una vita di coscienza che è
situata prima di ogni distinzione tra vero e falso, tra razionale e irrazionale.
Pena l’impossibilità di uscire dal dubbio e la trasformazione del
mondo in una favola del cogito. Il tema del desiderio come elemento centrale
dell’esperienza umana e della storia, entra prepotentemente nella cultura
francese attraverso i celebri seminari di Kojève sulla Fenomenologia
dello Spirito di Hegel. Non a caso tutti, o quasi, gli autori presentati in
Desiderio e Filosofia, hanno frequentato i seminari di Kojève, di cui
parleremo più avanti analizzando il saggio di Luciano De Fiore. Tra i
partecipanti al seminario c’è Georges Bataille, autore di cui si
occupano i saggi di Guido Coccoli e di Sara Colafranceschi. Il primo analizza
il confronto di Bataille con il pensiero di Hegel e con l’interpretazione
di Kojève. La storia di questo rapporto è suddivisibile in due
fasi. Nella prima Hegel è sostanzialmente interpretato e criticato come
il principale rappresentante dell’idealismo, inteso come quel pensiero
che, in linea con il razionalismo cartesiano, cerca di superare nel processo
dialettico le contraddizioni dell’esperienza e il «carattere nero
dell’umanità». La seconda fase è caratterizza da una
sorta di ripresa dovuta all’ascolto dei seminari di Kojève. Bataille
recupererà al suo pensiero le figure del servo e del padrone come emblemi
della condizione originaria dell’uomo. «L’uomo subisce (...)
in contraddizione con la morale formale, degli impulsi che lo attirano verso
ciò che è basso, che lo mettono in antagonismo aperto con ogni
elevazione dello spirito» (p. 81). Il servo è colui che subisce
questi impulsi, il sovrano è colui che hegelianamente «sopporta
la morte» (...) in quanto capace di guardare in faccia il negativo soffermandosi
presso di lui» (p. 74). Il sovrano acquista nell’interpretazione
di Bataille un nuovo significato (aristocratico e nietzschiano), esso è
colui che rifiuta il superamento. Il servo può quindi ergersi a sovrano
solo nel momento in cui si riappropria delle sue forze distruttive e permane
in esse, riconoscendo l’origine “nera” di tutto ciò
che è elevato e sacro. Conservando il negativo Bataille vuole preservare
l’elemento vitale della dialettica e più in generale dell’esperienza
umana; vuole mantenere attiva l’esperienza della morte senza ricomprenderla.
Se per Kojève «Il est [l’Homme] le résultat de l’effort
d’une puissance absolue, et il est cette puissance elle-même : il
est Négativité incarnée, ou comme dit Hegel, ‘entité-negative-ou-négatrice
‘ (das Negative)», allora Bataille si sforza «di trovare un
difficile, forse impossibile equilibrio tra un’azione della negatività
come azione distruttrice, che decompone e sfigura, e l’attribuzione alla
potenza del negativo d’una funzione trasformatrice e creatrice»
(Colafranceschi p. 83). Per Bataille «compito dell’individuo posthegeliano
diventa allora quello di mettere in gioco» «le rappresentazioni
più cariche di valore emotivo», quali il riso, l’attrazione
erotica, la paura e le lacrime, spogliandole «della ganga che le aveva
sottratte alla contemplazione», per situarle «oggettivamente nella
furia dei tempi». Paradossalmente, infatti, «senza libera perdita,
senza dispendio di energia non vi è esistenza collettiva» (p. 88).
Non vi è desiderio.
Al di là della radicalità batailliana quello che l’indagine
conquista è l’imporsi alla ricerca di un nuovo soggetto desiderante,
in cui “mente” e “coscienza” devono essere considerate
in un senso più ampio. Ci troviamo un gradino più in basso dentro
l’abisso a cui si riferiva il pensiero di R. Caillois. Le pulsioni appaiono
ora un elemento strutturale, vitale, irriducibile alla sintesi e non più
stigmatizzabile come aspetto “animale” della coscienza. Ad esse
la riflessione deve riuscire a corrispondere. Il punto è estremamente
delicato: da un lato vige la necessità di non abbandonare il terreno
della ragione, dall’altro non si può più far finta di non
vedere che l’irrazionale irrompe irriducibilmente e produttivamente in
tutti i piani dell’esperienza umana.
Il saggio di Marcella D’Abbiero, Jean-Paul Sartre: un cogito che soffre
e che ama, sembra rispondere a questo nodo concettuale. L’intento del
saggio è quello di mostrare «la valenza affettiva e non solo cognitiva
della coscienza in Sartre» (p.99), far vedere, cioè, come uno dei
contributi più rilevanti del pensiero sartriano sia stato quello di riuscire
ad evidenziare il ruolo del desiderio e del sentire non verbale, collocandolo
all’interno di una analisi della coscienza più comprensiva. Questa
analisi conserva il ruolo cognitivo della coscienza ma lo “riduce”
mostrandone il carattere di attività tra le altre. Per Sartre «in
qualsivoglia approccio alla realtà, anche nelle emozioni e negli affetti,
la mente è sempre presente, e dire “mente” per lui significa
dire “la mia mente”» (p.102). La «mind» è
quell’insieme di atti coscienziali, originario esser rivolti fuori (coscienza
non tetica), dove non ha più alcun senso la distinzione tra “sentire”,
“percepire” e intelletto. L’affettività segna ogni
relazione con il mondo prima e a motore di ogni conoscenza possibile. Tale affettività
è la “mia” effettività in quanto costitutiva della
“mia mente”. Sono richiamati nel saggio i noti passi dell’Introduzione
di Essere e Nulla in cui Sartre, partendo da un’impostazione husserliana,
definisce la coscienza e il cogito preriflessivo (par. 3). La coscienza, scrive
in essi Sartre, «non è un modo di coscienza particolare, chiamato
senso interno o conoscenza di sé, è la dimensione transfenomenica
del soggetto. (...) Ciò significa che bisogna abbandonare il primato
della conoscenza se si vuol dar fondamento alla conoscenza stessa» (Essere
e Nulla p. 17). La coscienza non è allora un qualcosa di chiuso, di “interno”
che deve poi rapportarsi con ciò che è esterno oltre se stessa.
La coscienza è esplosione, “è” vissuto di ciò
di cui è coscienza. Ma se la coscienza è sempre ed esclusivamente
coscienza di … allora la condizione necessaria perché una coscienza
conoscente sia conoscenza del suo oggetto è semplicemente che sia cosciente
del suo essere coscienza in quanto conoscenza di quell’oggetto. La certezza
di sé e della conoscenza è data esclusivamente dal modo di esistere
della coscienza stessa. Ogni coscienza posizionale dell’oggetto è
per Sartre, di conseguenza e necessariamente, coscienza non posizionale di sé.
Questa coscienza non posizionale è il cogito preriflessivo. La D’Abbiero
affronta poi uno dei nodi concettuali più difficili e discussi del pensiero
sartriano che è la formazione del sé e della personalità.
«Sartre propone di chiamare “soggetto” o “sé”
l’evento dell’unità dei diversi». La personalità
è quindi vissuto di unità, vissuto che a causa della struttura
della coscienza impersonale (molteplicità di atti, infinita e non-tetica)
si scontra con una irrealizzabilità intrinseca che lo trasforma in desiderio;
desiderio di unità. Il sé progetta la sua unità, e la realizza
selezionando, ad un livello preriflessivo, gli atti di coscienza e le visioni
di mondo che questi comportano. Ponendo il progetto nell’ambito della
“coscienza non-tetica” «Sartre cerca di esprimere l’aspetto
affettivo e non cognitivo delle scelte umane contestando che io possa mai affermare:
“ora faccio una scelta”, perché io sono la scelta, e sono
la situazione che mi circonda» (p. 106). “Io” sono immediatamente
la situazione in quanto “sono” coscienza di situazione. La coscienza
stessa non sta in relazione ma “è” relazione viva, “veçu”.
Per questo, soltanto attraverso la configurazione del mondo che mi circonda
posso conoscere il mio progetto. In Sartre l’unità della mente
trova così un dualismo descrittivo nella divisione, tra coscienza riflessiva
e coscienza irriflessiva. Ma «contrariamente a quanto passa nella vulgata,
in Sartre, è la “coscienza non-tetica” che divora quella
tetica, è l’affetto che divora il logos, è il cogito preriflessivo
che divora la riflessione» (p.108). Allora alla base di ogni atto o azione
nel mondo è necessario porre questo rapporto nel sé tra “coscienza
tetica” e “coscienza non-tetica”, termini coniugabili rispettivamente
come “desiderio di unità” e “molteplicità”.
L’autore fa vedere come dalle dinamiche tra questi due elementi scaturiscano
i comportamenti emotivi e le condotte. Quindi il soggetto può, non deve,
scegliere di vivere questa emotività che resta però la prima certezza
di sé. Ma ciò si può fare unicamente mantenendo quella
fluidità interna della «mind» senza pretendere di dare un’unità
statica alla molteplicità reificandola. Questa molteplicità di
vissuti e non di coscienze si traduce in una sostanziale dualità percettiva
di sé; da un lato si configura l’unità dell’ego e
il suo desiderio di essere tale; dall’altro si delinea la molteplicità
indeterminata della coscienza originaria preriflessiva. L’alterità
diviene, così, fenomeno costitutivo della “conoscenza” di
sé.
Siamo cosi gettati nel terreno concettuale del saggio di Luciano De Fiore, Fine
della Storia, Eclisse del Desiderio, e nel cuore stesso dell’argomentazione
di Desiderio e Filosofia. Nel suo studio De Fiore ci restituisce con entusiasmo
il pensiero di Kojève e ci permette di analizzare, anche se naturalmente
in una prospettiva completamente diversa, alcuni aspetti emersi nel saggio della
D’Abbiero su Sartre. In particolare ci dà la possibilità
d’interrogarci su cosa comporta la dualità dell’esperienza
di sé, e il desiderio di unità che a questa si accompagna. Il
“racconto”, come lo definisce l’autore, ha il suo inizio nella
sezione A del capitolo quarto della Fenomenologia dello Spirito di Hegel la
figura bifronte di Signoria e Servitù. Questa figura, scrive De Fiore,
descrive quelli che per Hegel sono i termini che indicano quel che fa sì
che «una coscienza “tenga” o non tenga – qualcosa come
autoconsistenza e non-autoconsistenza. Si tratta quindi non tanto, e non solo,
della relazione tra autocoscienze, ma del rapporto che ogni autocoscienza intrattiene
con se stessa (il suo concetto infatti è “l’unità
con se stessa” nel suo esser Altro). Il poter dire “io” presuppone
dunque lo sdoppiarsi al proprio interno rispecchiandosi dapprima in un “io”
diverso dal proprio» (p. 117). Già in Hegel secondo Kojève
l’autocoscienza è definita come una relazione e non come un ente
positivo, relazione che deve conservarsi in uno stato di tensione nel quale
i poli devono riconoscersi senza mai risolversi uno nell’altro. Ogni autocoscienza
deve farsi carico della propria dualità. Nel celebre “racconto”
della Fenomenologia dello Spirito, il servo è colui che è destinato
a vincere perché attraverso l’esperienza della morte e della sua
servitù arriverà ad accollarsi la propria dualità. Il servo,
scegliendo la non-autocoscienza a favore della vita, si espone a vivere la contraddizione
che a differenza del signore, privo oramai del suo opposto (il servo è
considerato da questi un oggetto e non più una coscienza), riesce a sostenere
tenendola in sé. Il servo rielabora le proprie passioni epurandole dagli
eccessi, controllandole a favore dell’amore di sé e della propria
vita. E’ evidente come il desiderio e il desiderare svolgano un ruolo
determinante nella dialettica dell’autocoscienza. Nella lotta per la sopravvivenza
innescata tre le coscienze e nella coscienza (per l’autocoscienza), ognuna
desidera prima di tutto la vita dell’altro, e quindi usando una celebre
definizione (che verrà ripresa da Lacan, vedi il saggio di M. L. Proietti)
ogni coscienza è desiderio di desiderio: è desiderio dei desideri
dell’altro. Scrive De Fiore «per Hegel, in linea con Hobbes e Spinoza,
il desiderio promuove la conoscenza e la storia. Attivato dalla mancanza costitutiva
del soggetto (...) il desiderio è essenzialmente collegato al conoscersi.
(...) La soddisfazione finale del desiderio sarà la scoperta del soggetto
come sostanza» (p. 120). Il processo della autocoscienza è quindi
intimamente legato al desiderio, che nella sua soddisfazione è trasformazione
della differenza in unità. Desiderare è allora negare, negare
la molteplicità, negare l’altro per ricondurlo a sé. Il
desiderio è, in questa proprietà negatrice, anticipazione proiezione
nel tempo. In ciò il desiderio è rivelatore della temporalità
strutturale dell’essere umano. Il desiderio è per Kojève
manifestazione della paradossale natura umana: «non essere quel che si
è (natura) ed essere quel che non si è (coscienza o negazione)»
(p. 127). Ma il desiderio stesso è in realtà incolmabile, l’ambiguità
da cui ha origine, è strutturale, ontologica. Allora, se la storia di
ogni autocoscienza è storia di desideri, verso se stesso e verso l’altro,
la storia dell’umanità è mossa dal desiderio e l’assoluto,
fondamento diveniente, è il ricongiungimento del soggetto desiderante
con il suo desiderato. Ma una storia è possibile solo nel momento in
cui si pensa o la possibilità o la realizzazione stessa della sua fine
e quindi di conseguenza si pensa la fine del desiderio. O ogni “ora”
è in sé fine e cominciamento della storia stessa o non è
possibile per principio una storia dell’autocoscienza che sia in sé
storia dello spirito.
Tutto ciò ci introduce nel problema della storia e della sua fine, seconda
grande tematica del pensiero di Kojève. Il filosofo si chiede: se il
desiderio è motore della storia, una volta che questo è appagato,
la storia finisce? Chi è l’uomo della protostoria pensato da Hegel?
Alla fine della storia, l’uomo si ritroverebbe senza desideri felice ed
appagato, ricongiunto con sé e con il suo oggetto. La vita si svolgerebbe
immersa nel tempo infinito della natura. Quello che resterebbe sono le pulsioni
“basse” di cui parlava Bataille. L’uomo della protostoria
tornerebbe animale, senza più voglia di trasformare le passioni in affetti,
quelle pulsioni in desideri. Un mondo dove tutto è cosa e tutto ciò
che è “altro” non essendo più polo oppositivo e conoscitivo
diviene mero oggetto di consumo. Per Kojève tutta la contemporaneità
vive nella protostoria. Ma è veramente possibile questa dimensione anestetica
del saggio? I nostri tempi sono veramente i tempi della fine del desiderio?
De Fiore conclude il saggio opponendo a Kojève la tesi che i desideri
proprio in quanto originati dalla struttura della soggettività sono diversi
dalle passioni (in quanto pulsioni) e non sono mai esauribili. I desideri portano
in sé quella che Sartre avrebbe definito la transfenomenicità
del soggetto, essi sono sempre in altro e altrove. Allora compito dell’uomo
della protostoria potrebbe essere quello di guardare l’origine del desiderato
imparando a conoscersi e a viversi come quel desiderio di unità di cui
parlava Sartre. Vivere la propria molteplicità lasciandosi andare di
volta in volta al desiderio dei desideri, riscoprendo così la nostra
naturale attitudine all’alterità che noi stessi siamo.
Dai saggi fin qui esposti è emersa una molteplicità strutturale
del soggetto, molteplicità articolata all’interno di quella che
Sartre definiva coscienza “non tetica”. Questa coscienza “non
tetica” è l’ambito in cui si dà il cogito preriflessivo
come prima certezza di “sé” di una coscienza personale. Inoltre
si è evidenziata l’idea che il desiderio è rivelatore di
una coscienza agente irrazionale o meglio pre-razionale. Questa coscienza pre-razionale
che emerge attraverso l’analisi del desiderio è luogo delle pulsioni
e dei desideri più intimi del soggetto. Per Sartre la coscienza “non
tetica” è già coscienza posizionale “di” e “nel”
mondo, e quindi non c’è coscienza che non sia già da sempre
scelta, progetto di “mondo”, non c’è coscienza che
non sia in qualche modo volontà, intesa come desiderio di sé.
La personalità ci appare allora il frutto di un costante lavoro ermeneutico-dialettico
del “sé” verso “sé” rapporto che struttura
il mondo modificando l’in-sé. Ma qual’è il modello
descrittivo che ci permette di rendere conto di questa unità/molteplicità
concettualmente contraddittoria, e dell’agire «irrazionale»?
A conclusione del libro troviamo, nel saggio Jean-Paul Sartre, Sigmund Freud
e il problema dell’irrazionalità di Francesco Saverio Trincia,
la discussione di quest’ultimo tema. Discussione svolta attraverso un
confronto a tre tra Sartre, Freud e i sostenitori della teoria del “multiple
self”. Quello che è in gioco in questo confronto è «il
problema della definizione dell’irrazionalità dell’agire
e delle sue caratteristiche, l’ulteriore problema del rapporto tra l’agire
che si dovrebbe definire propriamente irrazionale e l’agire che in modo
generale e indeterminato definiamo inconscio o dell’inconscio, (…)
[e la] legittimità dell’uso del concetto di inconscio nella comprensione
dei comportamenti che definiamo assurdi» (p. 178).
Se si ammette, sostiene l’autore, che l’inconscio sia soggetto di
azioni ci troviamo di fronte a due possibilità opposte di spiegazione,
a due modelli teorici: o quest’agire è l’azione di una delle
parti “razionali” di una “mind” intrinsecamente multipla,
e in questo caso è possibile costruire modelli di descrizione e di spiegazione
che fanno a meno di un riferimento all’inconscio; oppure il comportamento
“irrazionale” è l’esito visibile di un’assenza
o di una sospensione della ragione cosciente e quindi di un inconscio, così
come tematizzato da Freud. Il nodo della questione consiste nel fatto se si
debba pensare o meno una intrinseca razionalità della coscienza e se
sia quindi possibile ricondurre a questa i fenomeni irrazionali razionalizzandoli,
oppure attraverso la nozione freudiana di inconscio lasciare i fenomeni irrazionali
nella loro specificità senza ridurli ad una, se pur frammentata, razionalità
cosciente di coscienza. Per Trincia sia Sartre che David Pears delineano una
teoria dell’irrazionalità, accettando la prima ipotesi, sostanzialmente
razionalistica.
Il punto di partenza del confronto a tre è la figura della “mauvaise
foi” (malafede) a cui Sartre dedica il secondo capitolo de L’Etre
et le néant. Tematizzando la malafede Sartre «tenta infatti, senza
peraltro riuscirvi, di comprendere il concetto di inconscio o, se si preferisce,
di appropriarsene, tenendosi lontano dalla “fatale” antropomorfizzazione
che lo trasforma in una sorta di altra persona nell’io» (p. 180).
Analizzando la teoria sartriana della malafede Trincia individua due punti,
che rendono il pensiero sartriano utilizzabile nell’ambito teorico della
Motivated Irrationality.
Primo punto è l’uso equivoco del concetto di verità. Infatti
nel fenomeno della malafede il mentitore deve necessariamente conoscere ciò
che nasconde per poterlo nascondere. Conoscenza che introduce nella coscienza
“non etica” un elemento evidentemente egologico e contraddittorio
con la natura stessa di questo tipo di coscienza. Il problema dell’irrazionale
viene così traslato sul piano di due sistemi di “verità”
che non comunicano correttamente fra di loro. Quello che accade nel rapporto
tra il mentitore e colui a cui questi mente è, nell’ambito di una
stessa coscienza, il “conflitto” tra intenzionalità parimenti
razionali che non colgono l’una il senso dell’altra. O meglio la
coscienza attuale non coglie nella sua attualità il senso, l’intenzionalità,
della “sua” coscienza inattuale (preriflessiva). La coscienza preriflessiva
a sua volta elude l’angoscia ponendosi o in malafede o in buonafede. Evidente
conseguenza di ciò è il moltiplicarsi all’infinito dei soggetti
coscienti di una stessa coscienza, moltiplicarsi che porta con sé infiniti
piani di incomunicabilità tra queste infinite coscienze che arrivano
a comporre una coscienza in quanto coscienza personale.
Secondo punto individuato è il rifiuto stesso, da parte di Sartre, della
teoria dell’inconscio. Secondo l’A., infatti, pur nell’enorme
distanza concettuale da Freud, nelle premesse sartriane è latente un
pensiero dell’inconscio, anche se diverso da quello freudiano, «si
potrebbe dire che l’inconscio in qualche modo agisca, o faccia la sua
comparsa nel testo sartriano, ossia che nelle pagine di Sartre si avverta come
la presenza di un tema teorico che appare tanto più potente quanto meno
se ne prende atto. Donde, infatti, ci si può chiedere, deriva l’impossibilità
che l’agire della soggettività in buona fede o della soggettività
in malafede ottengano il risultato che cercano?» (p.195). Se non in delle
ragioni che sembrano rinviare a una sorta di coattivo, profondo, necessitato,
non corrispondere di quel che si vuole con quel che si ottiene. La malafede
non è forse in realtà un rifiuto profondo della coscienza, in-cosciente,
di “essere” ciò che non è e di non essere ciò
che è? La tentazione di un riempimento psicanalitico della negazione
è connaturata al testo sartriano stesso. E’ quindi in una sorta
di ambivalenza emotiva che il pensatore francese rinnega e simultaneamente tenta
di ricomprendere l’inconscio. Ma introducendo la malafede al posto di
questo in nome dell’autotrasparenza della coscienza, Sartre entra in contraddizione
proprio con questo suo assunto fondamentale. Come può una coscienza totalmente
autotrasparente mentire a se stessa se non perdendo proprio le caratteristiche
di unità e trasparenza? Sartre di fronte al problema degli atti irrazionali,
nel distinguersi dalla teoria freudiana, sceglie una difficile strada che espone
la sua teoria della coscienza alla razionalizzazione dell’irrazionale
e alla frammentazione dell’unità coscienziale che tanto difendeva.
Probabilmente avrebbe invece potuto mantenere ferma la distinzione tra coscienza
tetica e “non tetica” conservando ad essa il ruolo pre-razionale
di un in-conosciuto/osservabile molto simile all’inconscio freudiano,
affermando più decisamente l’immagine di una menzogna senza mentitore,
riuscendo così a non precludersi una spiegazione dell’irrazionalità
e dell’agire irrazionale in grado di conservare la specificità
del fenomeno. Sartre istituisce di fatto una metafisica della coscienza «edificata
sulla simultaneità contraddittoria dell’essere e del non essere
che la coscienza stessa è» (p. 192). Egli non riesce a pensare
un agire preriflessivo, che comunque tematizza, né come radicalmente
altro da qualsiasi forma di soggettività agente, né come parte
di un soggetto. La malafede, in ultima analisi, riduce l’irrazionale nel
razionale, ma il primo non viene risolto o spiegato, ma negato.
Il confronto a tre tra Sartre, Freud e i teorici del “multiple self”
denuncia, secondo l’A., il limite strutturale e la dissoluzione del progetto
della definizione filosofica dell’irrazionale; si comprende così
che l’indicazione della necessità «che un altro linguaggio
e un altro orizzonte concettuale devono comunque essere chiamati in campo per
rispondere al problema filosofico dell’assurdo» (p. 198), per render
conto della complessità che il tema del desiderio ha delineato. Quello
che va compreso è che ciò che è in gioco nell’irrazionale
non è l’autoinganno ma una vita di coscienza che prescinde totalmente
dell’essere cosciente della coscienza stessa. Freud riesce a render conto
di questa vita inconscia di coscienza, senza ricondurla ad una razionalità
intrinseca. Per far ciò non prende le mosse come in filosofia dal problema
dell’irrazionalità ma dal fatto che ci sono dei fenomeni descrivibili
solo per analogia che producono dolore, sofferenza, in una parola sintomi. L’inconscio
si dimostra come “vero” solo attraverso la funzione di finzioni
che servono a spiegarlo e a render conto di atti psichici che mancano del carattere
della coscienza. L’effettivo apparato di coscienza in cui si generano
desideri, dolori, contraddizioni e gioie di una coscienza particolare resta
“ignoto”. Le “funzioni” finzioni servono a curare il
dolore che accompagna le lacerazioni della vita di ogni coscienza particolare.
La teoria della coscienza freudiana, a differenza della filosofia che conosce
solo coscienze, dà voce scientifica alla sofferenze di persone particolari,
a “qui” ed “ora” irriducibili a qualsiasi sintesi. Lavora
su «sintomi» per risolverli, ha di mira il disagio per curarlo.
Il sintomo è la chiave di volta del confronto a tre operato dall’autore.
L’irrazionale è allora un limite “vissuto” della ragione
ed è per questo che non può trovare in essa la sua spiegazione.
Conclude Trincia : «Il difetto della prospettiva teorica di autori come
David Pears si riconduce essenzialmente al fatto che essi non si pongono la
questione di come la ragione possa affacciarsi sul suo limite, ma indagano i
vari tipi di comportamento irrazionale per offrire una risposta razionale a
ciò che in questo stesso atto viene cancellato ed occultato nella sua
autentica fisionomia. (...) Per la filosofia, l’irrazionale non è
in grado di costituirsi a problema a meno che essa non si appropri del tema
del limite della ragione – e dunque si autosospenda» (p. 219).
Il cerchio così si chiude. Abbiamo iniziato questa lunga recensione dalla
critica operata da Roger Caillois del cogito cartesiano nel suo esaurirsi nelle
cogitationes. Siamo poi giunti attraverso il pensiero di Sartre all’allargamento
del cogito alla sfera della emozioni, elaborando l’idea che il sé
sia fondamentalmente desiderio di unità. Con la constatazione della sostanziale
molteplicità del soggetto è venuta meno l’idea di individuo
formatasi nella modernità. Questo sgretolamento ha aperto all’indagine
un ambito della coscienza del tutto estraneo all’esser cosciente della
coscienza (e al suo essere autocoscienza). Per poter render conto di questo
ambito si è imposta, infine, la necessità di sospendere, mettere
tra parentesi, il classico argomentare della filosofia. Filosofia che trova
così, in una parte della sua storia del ‘900, attraverso il tema
del desiderio, un limite alle sue possibilità. Questo limite che chiama
all’autosospensione la ragione, che ha avuto e che può ancora avere
conseguenze, deve essere nuovamente oggetto d’indagine. In conclusione,
il libro ci lascia con una domanda : «Fino a che punto è legittimo
il programma della costituzione di una teoria della ragione ruotante sulla questione
del limite della ragione stessa? » (F.S. Trincia, p. 219)
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