Animato da una costanza inflessibile, Benedetto Croce registrò dall’anno
1906 al 1950, quasi giorno dopo giorno, il progresso anzitutto dei propri studi,
nei quali, in un’unità di sobrietà e intransigenza, vedeva
e voleva che fosse essenzialmente risolto il ritmo della sua vita. Queste note,
per gran parte affidate ad una duplice redazione e, nella seconda, con un’estensione
pari a sei volumi di uguale formato per un numero di circa 5000 pagine, vennero
raccolte dal Croce sotto l’indicazione di Taccuini di lavoro:
«non contengono già un diario dei miei sentimenti e pensieri, ma
semplicemente – così Croce nella nota apposta alla prima pagina
fuori testo del primo volume – il resoconto delle mie giornate, che quasi
per controllo di me stesso sono solito di fare; e, insieme, segnano la cronologia
dei miei libri e della loro preparazione».
Nell’idea attorno alla quale questi taccuini nacquero e, potrebbe dirsi,
nella loro materiale consistenza, essi contengono e rappresentano la concezione
stessa che Croce aveva di sé, della sua vita. Essa doveva realizzarsi
nel lavoro, essere uno svolgimento intellettuale, vera soltanto come attività
che i diversi compiti volta per volta rinnovano, quotidiano esprimersi di come
“l’opera è tutto”.
“L’opera è tutto”, è lo spazio entro il quale
soltanto con calvinistico rigore, vivono la loro parabola avventura, fede, passione.
I Taccuini non sono dunque un diario, un journal intime, non una raccolta
di memorie o un libro di confessioni e la ragione potrebbe quasi dirsi morale.
Parlare riferendosi a Croce di tentazioni della dispersione, di una negatività
che come un basso continuo insidiò il regolare procedere del lavoro,
di angoscia e perfino di un desiderio di morte sembrerebbe quasi un’invenzione,
l’introduzione di un accordo dissonante in un tessuto musicale dove vige
il principio della più pacata armonia.
Eppure lo spettro di soccombere al proprio genio o a quell’angoscia che
– come scrisse nel Contributo alla critica di me stesso –
da «selvatica e fiera» era come stata disciplinata, resa «domestica
e mite» doveva intrecciarsi con ragioni, le più profonde del suo
operare e dare a questo la natura di un bene, il più prezioso, da poter
esser tutelato fintanto che alta si teneva la soglia dell’invigilare”.
Quando le prove e responsabilità a cui la storia lo sottopose, si fecero
più difficili, il lavoro finì con l’essere anche un rifugio
contro la penetrabilità che il riposo lasciava al rammarico ed alla sofferenza
per le sorti di quella che voleva e sentiva che fosse l’Italia e la patria:
«la vita mi si è fatta penosissima e non me ne lamento solo pensando
che il medesimo o peggio accade a innumeri altri in Italia e nel mondo. La fatica
è ora per me il solo riposo, e il tempo del riposo, del passeggiare,
del conversare, dello stare a letto mi è fatica, perché tutto
occupato da tristi pensieri». Così si può leggere in una
nota del 1938 quando l’Europa si avviava verso l’esperienza di un
secondo conflitto mondiale. Così sei anni dopo, in data 12 dicembre 1944:
«stanotte mi sono svegliato prima delle quattro, e sono rimasto in letto
fino alle sei e mezzo; e ho sempre meditato sulle condizioni gravissime e quasi
disperate dell’Italia. Per fortuna, quando mi rimetto in piedi e ripiglio
il qualsiasi lavoro, l’avvilimento è vinto e quasi dimenticato.
Così sperimento in me, quotidianamente, che “l’opera è
tutto”». “L’opera è tutto” dunque, la cronaca
della vita dello studioso, si risolve nella cronologia e nella bibliografia
dei lavori letterari, così Croce voleva che si potesse dire di sé.
Ma riuscì a tener fede a questo ideale?
Con il titolo di Taccuini di guerra vengono ora raccolte le note che
Croce stese in quell’arco di tempo che va dal 25 luglio 1943, con la caduta
di Mussolini e l’inizio del drammatico epilogo dell’esperienza fascista,
al 31 dicembre 1945, quando ai segni del personale indebolimento fisico si aggiungevano
quelli altrettanto grevi relativi ad una realtà da poco nata quale era
l’Italia liberata.
Rinviando al termine alcune considerazioni sulla natura di questa edizione adelphiana,
si vuole anzitutto far presente ai possibili lettori che di uno degli aspetti
più importanti di quest’opera, quello storico-documentario chi
scrive può soltanto limitarsi a metterne in evidenza l’impressione
di trovarsi di fronte a documenti fondamentali per ricostruire la storia politica
di «quando l’Italia era tagliata in due». A partire dalla
ripresa dell’attività politica, la personalità di Croce
è come una pietra di paragone per valutare la coerenza dei partiti dell’opposizione
antifascista. Per questi egli svolse la decisiva funzione di raccordo con il
governo del re, presieduto dal maresciallo Badoglio e poi, quando Roma venne
liberata, in qualità di presidente del ricostituito Partito liberale,
fu riconosciuto da molti come il simbolo della continuità con la migliore
Italia prefascista.
Accanto ai dati storici, testimonianza delle importanti responsabilità
assunte dal Croce in questi anni, i Taccuini di guerra possono esser
letti anche misurando il riflesso sull’esistenza del filosofo di questi
impegni. Riconoscendo anzitutto come altri contenuti assunse la fedeltà
all’idea dell’operare rispetto agli anni in cui seppur colpito da
eventi drammatici, saldo al centro della sua esistenza era rimasto il lavoro
letterario, storico e filosofico. I drammi che avevano minacciato la continuità
della sua vita piuttosto finivano col rafforzarla, quasi come scosse di assestamento.
Ma questo vale soltanto per lo sguardo che, rivolgendosi al passato ha chiaro
davanti a sé il percorso di un’esistenza. Altro doveva dirsi del
presente. Lo scenario che offrono questi Taccuini di guerra è
invece quello di un tramonto vissuto, si potrebbe dire quasi in simbiosi, dall’individuo
e dall’epoca.
Consueta nelle note di questi mesi ed anni è la tonalità della
tristezza o quella più aspra dell’angoscia. Esse lo visitavano
rendendogli breve il sonno, lunga la giornata. Al mattino Croce spesso annota
di essere «oltremodo pensoso». Nascevano questi sentimenti dall’illusione
che l’impegno politico, con il suo ritmo di incontri, scontri, interventi
e responsabilità pur avendo con la caduta del fascismo assorbito gran
parte del suo tempo e delle sue forze, potesse ancora considerarsi ‘temporaneo’,
transitorio.
Difficile portare a consapevolezza questa illusione. Il non poter tornare agli
studi e come in essi rinchiudersi passava per il riconoscimento di come giammai
sotto il segno della continuità gli era concesso ora di vivere: «nel
moto generale delle cose – così annota in data 15 luglio 1944 -
e specialmente in quello vorticoso che è ora del mondo tutto, mancano
non solo le condizioni propizie ma anche un disegno generale che noi possiamo
affermare buono».
Pervenire a questa consapevolezza significava riconoscere «che noi, nel
tenace fondo del nostro animo, siamo ancora nell’attesa che risorga un
mondo simile a quello, continuazione di quello in cui già vivemmo per
più decenni, prima della guerra del 1914, di pace, di lavoro, di collaborazione
internazionale. E in ciò è la sorgente della nostra implacabile
angoscia […]».
Così accadeva di scoprire riflessa nell’esistenza individuale la
luce tenue del tramonto di un’epoca. Croce pensa ad un futuro fatto di
rivolgimenti e guerre tali da poter «condurre alla finis Europae».
Tragedia della patria, crisi della civiltà, unite al sentimento di una
vita che riluttava a pacificarsi coi doveri ai quali, come ad un giogo, pure
si sottoponeva, fanno sì che alcune e non secondarie di queste pagine
siano visitate da una disposizione verso la morte insieme amara e consolante.
Chi si troverà a leggerle avrà l’occasione di scoprire quanto
qui il taedium vitae o la morte, si presenta priva del velo di qualsiasi
retorica. E’ una speranza, il frutto di un motivato abbandono, più
un’ipotesi amica eppure dalla quale dissuadere, che un sentimento. Una
‘debolezza’ inferta allo stile di questi Taccuini e dunque
un paradossale ritorno dell’io preso per sé, dell’individuo
e non dell’opera. Per essa poteva valere, come Croce aveva imparato sin
da giovane, quel motto di Faust che pure agli inizi di gennaio ’44 volle
fissare sulla pagina scritta, quasi per infondere a se stesso interiore tranquillità:
«Erquickung hast du nicht gewonnen, wenn sie nicht aus eigner Seele
quillt».
Nell’espressione di questi sentimenti la novità ‘letteraria’
degli anni raccolti in questi Taccuini di guerra. Conviene inoltre
informare che la presente edizione può considerarsi un ampliamento di
quell’estratto di ‘diario’ che, sotto il titolo Quando
l’Italia era tagliata in due, ebbe la sua prima pubblicazione sui
‘Quaderni della critica’ del 1946 e 1947 e, successivamente nell’edizione
degli Scritti e discorsi politici (1943-47). Il ‘diario’
allora si arrestava alla nota dell’ 8 giugno 1944. E’ un peccato
che l’edizione adelphiana manchi di riferire, magari in nota, di importanti
varianti fra le tre redazioni che riguardano alcuni episodi, fra tutti quello
della morte di Gentile, annotati nell’arco di tempo qui compreso (alle
due redazioni scritte è infatti da aggiungere una terza, quella data
alle stampe, che fu dal Croce ulteriormente modificata). L’edizione è
invece accompagnata da un saggio-postfazione di Piero Craveri Vale infine ricordare
il libro fondamentale ed altamente istruttivo che Gennaro Sasso dedicò
a questi ‘diari’, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro
di Benedetto Croce, edito da Il Mulino.
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