E’ il quarto volume della pregevole serie “Temi per l’estetica”
diretta dallo stesso Garroni per la Biblioteca di Cultura Moderna di Laterza
– comprendente (vale la pena ricordarlo), in ordine di pubblicazione,
i volumi di Paolo D’Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale,
paesaggio, arte ambientale; Stefano Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza;
Daniele Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità
– questo bel libro di Emilio Garroni. E che valga la pena citare in questa
sede anche gli altri è riconducibile non solo e non tanto ad un intento
di carattere meramente informativo, quanto, piuttosto, ad uno di carattere scientifico-esplicativo.
L’estetica, infatti, è una disciplina non specialistica e in quanto
tale aperta a vari ambiti il cui rapporto con essa è stato sostanzialmente
poco esplorato. Per questo motivo il libro pone il problema di cosa sia, come
si produca e in cosa consista quel vero e proprio enigma dell’“immagine
interna” – con cui si intende sia il precedente di un’immagine
(la sensazione), sia l’immagine in quanto attualmente prodotta (la percezione),
sia l’immagine in quanto ricordata-rielaborata (l’immaginazione)
(cfr. p. IX) – e, quello sottostante, di «quali siano le
condizioni e i modi del nostro adattamento e quindi del nostro essere finora
sopravvissuti come specie, del nostro operare, del nostro conoscere e comunicare,
o insomma, per dirla con un’espressione un po’ pomposa, lo statuto
del nostro essere nel mondo» (p. X). Affrontare l’enigma dell’immagine,
inoltre, significa – dopo aver sgombrato il campo tanto da concezioni
referenzialistiche, che considerano l’immagine percettiva come il doppio
puntuale e complessivo dell’oggetto, quanto, all’opposto, da concezioni
soggettivistiche, che nullificano la portata oggettiva della sensazione –
affrontare il problema del suo rapporto con il linguaggio. Escludendo l’idea
di una dipendenza dell’immagine della percezione dal linguaggio come quella,
inversa, del linguaggio dipendente dall’immagine prodotta da una capacità
percettiva fine e flessibile, l’unica ipotesi plausibile sembra essere
quella di una stretta correlazione tra percezione e linguaggio. L’ipotesi,
cioè, che «un qualche linguaggio originario preveda una
base percettiva e si manifesti anzitutto come intelligenza senso-motoria
associata a quasi-segnali (solo apparentemente simili ai segnali degli animali
non-umani) o a declinazioni espressive, ostensive, mimiche, eccetera,
così che l’uomo sia abilitato ad avvertire e a esprimere significati
contestualmente circostanziati, capaci di cogliere e comunicare, in quel contesto,
l’aspetto interpretativo pragmaticamente pertinente dell’immagine
percettiva» (p. 42). Ma anche l’ipotesi che «la stessa immagine
percettiva preveda un qualche linguaggio di tipo operativo e quasi-segnaletico,
dal momento che la sua ambiguità deve risolversi in interpretazione e
in operazioni opportune, e generalizzarsi linguisticamente per essere adattivamente
efficace» (Ibidem). E che, infine, tale base vetero-linguistica
sia una condizione necessaria e sufficiente perché il linguaggio giunga
al livello delle lingue storico-naturali.
Non è però solo la problematicità del rapporto con il linguaggio
a motivare il carattere enigmatico della percezione. La dimensione più
rilevante di tale enigmaticità, afferma l’A., è che l’immagine
è tale in quanto per un verso determinata e per altro verso indeterminata.
E lo è sia nella misura in cui, per percepire un oggetto e avvertirlo
nella sua flagranza, è necessario che non tutti i suoi aspetti siano
attualmente presenti e che si perdano invece di vista quelli abbandonati nell’attimo
in cui si passi ad altri aspetti; sia nella misura in cui, percependo un oggetto,
si organizzano non solo certi dati relativi proprio ad esso (e già di
per se stessi incompleti), ma anche dati contestuali via via sempre più
sfumati quanto più lontani dall’oggetto focalizzato. «In
realtà, la totalità determinata-indeterminata della percezione
è affidata all’intera capacità di interagire con l’ambiente
del nostro corpo, dei suoi organi sensori e della nostra capacità-esigenza
di trarne un’immagine interna interpretativamente adeguata» (p.30),
spiega in modo estremamente chiaro Garroni. Immagine che è, e nello stesso
tempo non è, immagine, cioè qualcosa di assimilabile alla figura
con la quale, invece, è stata spesso e ingenuamente confusa. Poiché
è sì qualcosa di flagrante, ma non di organizzato staticamente.
E’ piuttosto qualcosa che risulta flagrante proprio perché costituito
da una moltitudine di scorci che si compongono scompongono e ricompongono in
un complesso in continuo movimento che tuttavia appare come stabile.
Ed è proprio tale dinamicità-stabilità a costituire il
tratto più interessante della percezione. Mettendo a fuoco oggetti determinati
si avverte nella percezione la totalità indeterminata come il negativo
della determinatezza. Cosa che accade esemplarmente nell’esperienza artistica,
nel senso che essa non è che il caso-limite dell’esperienza comune
perché vi accade ciò che in primo luogo accade lì. Con
una differenza: che «l’arte ce ne fa accorgere» (p.
98), laddove nella percezione quotidiana quasi sempre non ce ne accorgiamo.
Attraverso la figura – riduzione ed esteriorizzazione dell’immagine
dalla quale si distingue per essere né naturale né interpretante,
ma interpretabile, e per avere con essa, a seconda della tipologia, somiglianze
e dissomiglianze sia rispetto alla sua mobilità-stabilità che
alla sua configurazione visiva – l’arte suggerisce «con la
sua forma positiva e presente qualcosa di negativo e assente oltre la stessa
forma» (p. 111) e costituisce «una sorta di riflessione in azione
sull’immagine interna» (p. 98): ne ostende l’interna
mobilità e l’inesprimibile totalità, mimando, così,
la percezione nel suo genuino statuto. Ogni opera d’arte riuscita, perciò,
potrebbe essere pensata secondo il paragone suggestivo ed efficace proposto
da Garroni, come la siepe leopardiana. Come questa, infatti, permette di “fingersi
nel pensiero” l’infinito al di là di essa.
Non tutte le figure, ad ogni modo, sono figure artistiche e pur nella parità
di costituzione di qualsiasi tipo di figura, nota l’A., vi sono figure
correnti che hanno il torto di nascondere il processo percettivo-immaginativo
che le sottende, facendo credere, come nel caso della televisione, di essere
immediatamente doppi di oggetti reali e determinati. Così, laddove queste
«dipendono inevitabilmente da un’indeterminatezza totalizzante solo
in funzione del suo, forse in gran parte voluto, non riconoscimento mentale»
(p.118), quelle meno corrive e quelle artistiche, invece, la mettono in evidenza.
Che poi «è la stessa differenza che passa tra un vivere ottuso,
abbandonato esclusivamente al risaputo e ai piccoli affari quotidiani e un vivere
attento, pensante e comprendente, che non coincide affatto con una differenza
di classe, neppure tra intellettuali e non-intellettuali, e ancora meno tra
poveri e ricchi» (p. 118).
Con un «apologo politico di trista attualità» (p. 118) l’A.
conclude il suo saggio, che, come si legge nella premessa, ha pensato più
come un monologo, una riflessione giornaliera, un informale esercizio osservativo,
che come un trattato tecnico-scientifico. Gli siamo grati per avercene resi
partecipi.
|