L’idea di Dio, l’“avvento” dell’infinito che
penetra la finitezza squarcia di netto la fenomenalità. Non c’
è più, oggi, il Dio-per la fisica; si è attuata la frantumazione
del continuum, la diacronia spazio – temporale, che slega logica
ed episteme dal vacuum generato dal pensiero alla ricerca del concetto
di Dio. Entra in ballo, quindi, la tematizzazione (impossibile) più della
salvezza, l’iperbole della ragione più della Erlösung
(redenzione).
In I filosofi e Dio di Landucci, i grandi pensatori del passato da
Aristotele a S. Tommaso, da Averroè a Spinoza, si domandano quale sia
il principio, l’inizio: da una parte c’è la causa efficiente
(artifex materiale di ogni ente), dall’altra il motore immobile
(quale cominciamento pneumatico senza intenzionalità).
Le linee portanti dell’ intero lavoro divengono Platone e Aristotele,
in cui confluiscono tutti i successivi innovatori nei cinque secoli tra il ‘200
e il ‘700.
Ci sono due vie tramite cui arrivare all’idea di Dio: una porta ad un
fattore originario che plasma la materia conferendole una volontà; l’altra
porta ad un prima che dà una spinta meccanica a tutto il sistema
naturale, in cui, dunque, le cause diventano, anzi, già sono, effetti.
La diversità delle posizioni è estremamente grande perché,
se l’una implica una presenza divina sul dato sensibile e l’altra
lo nega, il concetto di tempo si deforma. Da tempo segmento discreto scandito
dai grandi eventi biblici (dalla genesi vetero-testamentaria), lo si concepisce
come una retta ingenerata e densa. La perdita del punto individuativo lascia
il terreno ad una causa agente, che rende tutti gli accadimenti necessari (male,
contraddizione, ignoranza). Sigieri di Brabante è, per Landucci, uno
dei pochi a provare a coniugare un fine con l’emanazione aristotelica,
quando arriva alla questione: «utrum finis sit aliqua causa generationis
rerum naturalium»(pag. 34). La specificità di ogni processo
(ad esempio: da una foglia può nascere solamente una foglia)
in natura, ci induce a concludere una qualche teleologia eteronoma; così,
la seduzione vitalistica che anche una foglia possa determinare una res
ex novo, o che l’uomo possa generare dal nulla è panteismo
con perfettibilità del congegno naturato.
Con lo slogan spinoziano ‘la natura non fa niente invano’, il divario
tra ciò che si produce in vista di qualche proposito e quel che si “lascia”
divenire, mette in discussione l’attività dell’uomo, il carattere
del Schöpferwollen (volontà del creatore):
«Considerandola come un’ evidenza, quando si dà, Aristotele
assume la finalità nella natura come una nozione descrittiva. Lo si vede
bene nel modo in cui egli propone l’ analogia della natura con l’
arte umana, quale argomento per sostenere la finalità anche alla prima.
Analogia vuol dire infatti ‘proporzione’, nel senso in
cui questa nozione è usata in matematica: il risultato a cui tende un
processo naturale, sta a questo come la realizzazione d’un progetto
da parte di un artigiano; la materia - e cioè le ossa, o i tessuti carnosi-
sta all’ animale compiuto come il legno a un artefatto fabbricato da un
falegname» (pag. 101).
Partendo da questa analisi, il criterio di funzione viene ad essere
richiamato in maniera essenziale; la materia è tale per la potenza
che la genera, ed è già forma (o atto) piena di anima.
Qualora il flusso di funzione cessasse il suo apporto, allora gli attributi
si disgiungerebbero, e l’oggetto smarrirebbe la sua significazione (es.:
un braccio amputato non è più un braccio in mancanza di un corpo).
Sul versante della cosmologia, la formulazione che arriverà fino a Kant,
che va da un qualsiasi ente contingente all’ente necessario,
trova riferimento in Avicenna. La sua dislocazione della prova dell’esistenza
di Dio dalla fisica alla metafisica (causa di ribaltamento delle prospettive
medievali) è la novità dell’elevazione al di sopra della
causalità motrice; mentre per Averroè la verificazione è
installata ancora nella fisica, in correzione del “doppio tempo”
dell’unum di Tommaso edificato sulla necessità rispetto
alla natura e all’autosussistenza (in sé e per sé), Avicenna
richiama alla distanza, appunto. L’eziologia, espone Landucci, manca il
centro col suo movimento che arretra, si sposta sempre di più, ma non
giustifica dei momenti: «[…] la questione non è se il mondo
sia eterno o no, bensì se sia o non opera di Dio[...]» (pag. 97),
e se Cartesio divide le cause in fieri (ordinate accidentalmente con
possibilità di regresso all’infinito) e in esse (ordinate
essenzialmente, e perciò tutte egualmente importanti per raggiungere
l’effetto), è per un ozio del pensare per regioni , anche in questioni
di spirito.
Come, dunque, anticipato, il debordare dell’idea di Dio fuori dal seminato
della coscienza trascendentale, del summum bonum kantiano - non come
rifiuto della teodicea, almeno non fino all’idealismo - è un intrigo
che si ispessisce, ma Duns Scoto si discosta:
«Perché Dio in se stesso come causa delle cose possiede tre attributi:
essenza, saggezza, esistenza».
E poi:
«Di nessuna cosa posso conoscere se esista, a meno che non ne abbia prima
un concetto» (pag. 191).
Dio è concetto di verità che sviluppa il molteplice; la singolarità
può arrivare alla verità (concetto mentale, che non trova
relativo dimostrativo, ecco perché manca il maiuscolo) che non è
variazione della verità a seconda del soggetto, ma la condizione in cui
appare al soggetto la verità di una variazione.
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