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Ralf Dahrendorf, La società riaperta. Dal crollo del muro alla guerra in Iraq.
Laterza, 2005

di Daniel Catte

Il presente volume costituisce una selezione ragionata degli interventi ( perlopiù lectures e conferenze tenute in occasione di congressi o commemorazioni ) che il sociologo e politologo amburghese è andato via via svolgendo lungo il corso dell’ultimo quindicennio, seguendo passo passo il dipanarsi di crisi e mutamenti innescati da quella che l’Autore non esita a definire una «cesura profonda nella storia della modernità» (p. VII). E si tratta, ovviamente, della “rivoluzione del 1989”, accostata, per importanza e incisività, ad altre “fratture” più nettamente rappresentabili, in virtù della loro distanza temporale e della lunga elaborazione storiografica di cui sono state fatte oggetto, come decisive: «la ripartenza dopo il 1945, forse, gli incerti tentativi rivoluzionari del XIX secolo e quelli invece riusciti di fine XVIII secolo». L’estinzione del dominio sovietico e l’implosione delle democrazie popolari ha costituito, secondo Dahrendorf, un vero e proprio Widerbeginn der Geschichte ( come suona il titolo tedesco originale della presente raccolta ), una riapertura di società e individui, a lungo costretti nella morsa dell’immobilismo ideologico e burocratico, al tempestoso e imprevedibile vento del cambiamento. La liquefazione delle nomenclature e degli apparati ha consegnato ai cittadini di quei paesi non la libertà ma la possibilità, rischiosa e impervia, di elaborare una propria via per tentare di «costruire una società aperta sulle macerie della tirannia» ( p. 18 ), società nata da una rivoluzione ma che dovrà edificarsi in modo tale da rendere costantemente “inattuali” le “ragioni” che di una rivoluzione costituiscono gli elementi scatenanti (in particolare la situazione per cui «una classe rimasta per un lungo lasso di tempo in posizione di dominio non soltanto ha schiacciato altri gruppi, ma ha represso anche le esistenti potenzialità di cambiamento» p. 15). E questo tentativo di costruzione viene realisticamente prospettato da Dahrendorf come insidiato costantemente dai rischi di un’involuzione di tipo demagogico-autoritaria (la “sindrome di Singapore”) oppure di un’incontrollabile anomia, allorquando non si sia capaci di costruire, pazientemente e attraverso il faticoso metodo delle riforme, quell’intreccio tra istituzioni democratiche (fatte di rappresentanza e partecipazione), libertà di mercato (ma con una forte rivendicazione del primato della politica sull’economia) e attiva presenza di una articolata società civile (interpretata anche attraverso la kantiana “insocievole socievolezza”, cioè come luogo dello svolgersi di un conflitto disciplinato in un equo sistema di regole che garantisca la necessaria coesione sociale), che costituisce una delle possibili definizioni minime di quella società aperta difesa dall’Autore. Essa va “costruita” proprio perché gli elementi dal cui intreccio dovrebbe esser resa possibile non sono affatto “naturalmente” destinati a convergere in scontati equilibri (ma di equilibrio si tratta: da qui la ricerca di una “quadratura del cerchio”). In questa ricerca di equilibri è forte il richiamo alla fragilità delle configurazioni socio-politiche e alla molteplicità delle vie, indefinite, come dice Dahrendorf, che nasce dalla persuasione che «la molteplicità non è un beneficio supplementare per le culture evolute; è invece il nocciolo di un mondo che si è liberato dalla nostalgia per i sistemi chiusi che abbracciano tutto» (p.227).

La notevole capacità di analisi delle realtà sociali e politiche fa di Dahrendorf una guida lucida per cercare di decifrare alcuni degli aspetti fondamentali del mondo in cui ci troviamo a vivere. La difesa di quello che l’Autore chiama “l’ordine della libertà” ( o, à la Hayek, “la costituzione della libertà” ), che riesce ad essere, allo stesso tempo, ben argomentata, realistica e animata da forti idealità, rappresenta il perno di quel progetto di un “nuovo liberalismo” a cui l’autore, nel corso ormai di più di quarant’anni, ha dedicato le sue migliori energie di studioso e che hanno trovato un altro modo di esprimersi nel suo non professionistico impegno politico.
La non celata, ma sempre sorvegliata, passione per la teoria – con il costante richiamo, dal punto di vista metodologico, alla lezione del falsificazionismo popperiano e, in generale, dal punto di vista dell’elaborazione politica, ai classici del pensiero liberale, con una predilezione per alcuni temi del Kant illuminista – si nutre costantemente di analisi, prevalentemente di tipo politologico e sociologico, di circostanziate costellazioni storico-politiche sempre tese ad individuare i nodi strutturali e le dinamiche di fondo del contesto o del problema di volta in volta preso in considerazione.
C’è in Dahrendorf una sobria progettualità riformatrice che riesce ad ospitare in sé slanci coraggiosi senza mai farsi astratta e dottrinaria; c’è l’attenzione vigile ma mai subalterna alle “lezioni della storia” e alla complessità, spesso inestricabile, dei problemi proposti o riproposti dall’ineludibile intreccio tra l’irrompere del nuovo e il vischioso persistere del vecchio; ci sono il gusto per le libertà individuali e la rivendicazione del “rule of law”; c’è la lotta per una “maturità” civile che riesca ad essere criticamente disincantata e immune da utopismi ma, ancor di più, sostanziata di passione per la cosa pubblica; c’è l’esercizio rigoroso della “ragione laica” e la sensibilità inquieta per la questione del senso e dei valori, ma con una forte vena “problemistica” e antiretorica che la tiene lontana sia dall’appello velleitario a presunte radici sia dalle vacue e irresponsabili lamentazioni sulla fine della civiltà.

Di qui il forte convincimento circa la “natura” procedurale e pattizia della società aperta, che non va disgiunto dalla rivendicazione della necessità di un impegno etico critico e consapevole (di un “illuminismo applicato”) da parte di individui che quella società vogliono difendere e rafforzare. Allo stesso modo l’adesione a un modello di società secolarizzata e immune da autoritarismi a sfondo etico non fa velo alla preoccupazione per la distruzione dei legami sociali (le “legature”) e l’indebolimento del senso di appartenenza e di condivisione di comuni responsabilità, che tende a trasformare le chances di vita ( la cui offerta e garanzia è il compito e l’obbiettivo fondamentale dell’ordine liberale) in meri involucri privi di concretezza e di effettività, con il rischio di un precipitare negli opposti simmetrici dell’apatia e del fondamentalismo (etnico, religioso, politico), entrambi distruttori del conflittuale e irrequieto, ma sobriamente disciplinato, cosmo liberale.

PUBBLICATO IL : 22-10-2005
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