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Helmuth Plessner tra espressività e stile
In occasione del III Congresso Internazionale
di Elena Fiorletta

Ci sono diversi modi per giudicare della fortuna di un autore. Prima di tutto l'opera: pubblicazione e diffusione sono indicatori decisivi. Poi la ricerca e il dibattito intorno all'opera, che ne testimoniano l'attualità. Infine la capacità di intersecare temi e problemi di cui altre discipline rivendicano la competenza per rivitalizzarne (ma a volte anche per correggerne o addirittura sconfessarne) presupposti, obiettivi e metodo.
Se ciò è vero allora occorre mobilitare ottimi argomenti per contestare la tesi di una congiuntura più che favorevole alla ricezione del pensiero di Helmuth Plessner, autore weimariano sopravvissuto a Weimar, nome di punta della cosiddetta "antropologia filosofica", critico radicale del radicalismo comunitario in voga nel primo Novecento (tedesco), da qualche anno protagonista di nuovi studi e ricerche che abbracciano diversi – a volte tra loro lontanissimi – ambiti disciplinari.
Noto per aver animato con – e contro – Max Scheler e Arnold Gehlen quel capitolo troppo sbrigativamente ricondotto a unità sotto la categoria di antropologia filosofica, "sdoganato" in Italia dall'ingombrante contiguità con il conservatorismo dalla traduzione delle Grenzen der Gemeinschaft [I limiti della comunità], ma soprattutto dalla bella introduzione di Bruno Accarino, che per primo ne mise in evidenza l'originalità tanto rispetto a Gehlen che a Schmitt, dagli anni Novanta il pensiero di Plessner è oggetto di un rinnovato interesse, fin qui senza soluzioni di continuità.
Ne è una conferma la rinnovata pubblicazione, nel 2003, delle opere – ben dieci volumi – presso la Suhrkamp-Werkausgaben, cui va aggiunto un volume supplementare contenente testi di difficile reperibilità (per Wilhelm Fink Verlag, a cura di Salvatore Giammusso e Hans-Ulrich Lessing), e infine le sempre più numerose traduzioni, non più soltanto europee (la prossima in cinese, annuncia la Plessner-Gesellschaft). Il versante italiano della Plessnerforschung saluta intanto in questi giorni l'arrivo in libreria della traduzione del saggio del '31 Macht und menschliche Natur (Potere e natura umana, anche questo a cura di Accarino, per la collana La nuova talpa della Manifestolibri), dell’opus magnum di antropologia filosofica I gradi dell'organico e l'uomo (traduzione e cura di Vallori Rasini, Ubaldo Fadini e Lombardi Vallauri per Bollati Boringhieri) e della raccolta di saggi su Plessner Corporeità, natura e storia nell'antropologia filosofica (Rubbettino, a cura di Marco Russo e Andrea Borsari). Gregor Fitzi cura invece edizione e traduzione dell'attesa Verspätete Nation (1935/1959), l'affresco in chiave di sociologia della cultura delle vie percorse dallo «spirito tedesco» fino alla capitolazione del 1933 davanti all’ideologia della comunità di popolo fondata sulla biologia autoritaria. Uno spirito tedesco che, nella ricostruzione plessneriana, è spinto dall'opzione protestante per l'interiorità verso la speculazione filosofica – e perciò ancora solo spirituale – piuttosto che verso la complessità mai del tutto risolta e mai pacificata della sfera pubblica, del Politico.
Non è stato però il Plessner interprete delle dinamiche sottese all'agire politico – quello che sin qui ha goduto in Italia di maggiore risonanza – il protagonista del III Congresso Internazionale su H. P. «Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell'espressione di Helmuth Plessner», organizzato a Firenze dal Dipartimento di Filosofia dell'Università in collaborazione con la Helmuth Plessner Gesellschaft. Né si è trattato di un'occasione celebrativa, anche perché, ha precisato Bruno Accarino (organizzatore dell'incontro oltre che animatore delle attività della Plessner Gesellschaft) dando il via ai tre giorni di lavori, «nel caso di Plessner non si può parlare di "Renaissance"». Piuttosto «oggi Plessner va interrogato su punti specifici…».
Punti specifici che sono condensati in diversi filoni di ricerca e che scandiscono le diverse sessioni del convegno ma che, va detto, esauriscono soltanto una parte – seppure cospicua e promettente – del fronte continentale della Plessnerforschung, che da qualche anno ha messo piede sicuro anche al di là dell'Atlantico per incrociare le vie del neopragmatismo americano.
Filosofia dell'espressione; ermeneutica e filosofia della vita; fenomenologia della corporeità; il riso e il pianto; filosofia e sociologia dell'arte, sono i nodi tematici attorno ai quali si è articolato il convegno, che ha visto – tra gli altri – il contributo di autori del calibro di Hans-Peter Krüger (cattedra di Filosofia politica all'università di Potsdam, presidente della Plessner Gesellschaft, autore di testi sull'antropologia filosofica, tra cui Zwischen Weinen und Lachen, 1999-2001 e di una Kritik der kommunikativen Vernunft, 1990), Helmut Lethen (Università di Rostock, autore di Verhaltenslehren der Kälte, 1994, un'indagine allora fortunatissima sull'intellettualità weimariana, e curatore con Wolfgang Eßbach e Joachim Fischer del più recente, Plessners 'Grenzen der Gemeinschaft', 2002), Karl-Siegbert Rehberg (presidente dal 2003 della Deutsche Gesellschaft für Soziologie e dal 1977 curatore dell'edizione della Arnold Gehlen Gesamtausgabe), Joachim Fischer (autore di uno studio sulla Philosophische Anthropologie. Zur Bildungsgeschichte eines Denkansatzes, Diss. Göttingen 2000 nonché di numerosi contributi su riviste specialistiche anche italiane).
Significativa la presenza del versante italiano degli studi plessneriani. Oltre ai contributi di Marco Russo (autore tra l'altro del saggio monografico La provincia dell'uomo. Studio su Helmuth Plessner e sul problema di un'antropologia filosofica, 2000), Vallori Rasini e Andrea Borsari (curatore della traduzione italiana di Con altri occhi), il convegno ha visto quello di Gregor Fitzi (sul rapporto critico di Plessner con Bergson) e Renato Troncon (sul ruolo di Plessner nel dibattito estetico attuale).
Se da una parte l'opzione a favore della triade filosofia dei sensi-ermeneutica-filosofia della vita può aver forse spiazzato lo studioso italiano – per il quale, sulla scorta delle Grenzen, Plessner è stato finora prima di tutto interprete delle dinamiche sottese alla costituzione dell'identità politica nell'età weimariana –, dall'altra è stata rivelatrice della ricchezza di un filone di ricerca finora meno esplorato, ma adesso in piena espansione non solo in Germania e Italia, ma anche in Polonia, Olanda, ex Jugoslavia.
L'espressività dei corpi (polarizzata nell'eccentricità del comportamento di un essere vivente rispetto al suo corpo organico e nel suo ricentramento su questo) è il terreno sul quale Krüger elabora la sua proposta di una antropologia filosofica che stringa in un unico nesso teorico metodo trascendentale, ermeneutico e dialettico. Krüger si schiera a favore di un mutamento di status della «unità dei sensi»: non più teoria aprioristica – come previsto dallo stesso Plessner – ma metodo semiotico che consenta una ricostruzione ermeneutica dei reperti fenomenologici [phänomenologische Befunde]. La versione plessneriana della tematica dell'espressione da Einheit der Sinne (1923) all'Anthropologie der Sinne (1970) – in cui l'autore procede a un cambio di paradigma – diventa così occasione di una proposta di ricerca, né teoria né metodo, ancora solo ipotesi antropologica, che si propone come momento integrativo dei diversi paradigmi antropologici operanti nel campo delle scienze di esperienza.
Le torsioni subite dalla categoria dell'espressività nelle diverse fasi della riflessione plessneriana disegnano l'ordito del contributo di Lethen, che porta all'estremo, radicalizzandola, l'alternativa «sovranità» dell'espressione e «situazione impossibile», il caso estremo. Chiamando a raccolta le osservazioni di Primo Levi sul «musulmano» nel campo di concentramento, le ricerche di Starobinski e di Elaine Scarry sulle forme espressive del dolore estremo, Lethen sfida Plessner sul terreno del (rifiutato) dualismo e lo invita a difendersi dalla (sottile, e a dire il vero ingenerosa) accusa di aver peccato a sua volta di cartesianesimo: «L'ostilità produce contatto», avverte Lethen. Ed è l'ostilità che impedisce a Plessner di vedere come, dopo aver condotto ne Il riso e il pianto (1941) la teoria della sovranità dell'espressione alle estreme conseguenze – la perdita di padronanza delle forme di espressione è declinata come catastrofe e in situazioni senza via d'uscita l'uomo resta vittima di automatismi fisiologici – lo stesso Plessner appunta uno sguardo cartesiano sul corpo oggettuale ridotto a cosa naturale e in preda a puri automatismi fisiologici che ne decretano la fine in quanto «persona». 
Il contributo di Hans-Ulrich Lessing si inoltra nelle pieghe complesse della meno frequentata Einheit der Sinne, cui Plessner affida la definizione del concetto di estesiologia come disciplina, teoria della percezione o della sensazione dello spirito che si intende in separazione dall'approccio psico-fisiologico. Fine dell'estesiologia dello spirito, che ricerca le leggi di senso della sensibilità, ricorda Lessing, è una «ermeneutica dei sensi». Ciononostante Plessner riconoscerebbe come estesiologicamente significativi soltanto quei fenomeni culturali – arte, lingua, scienza – in cui ad ogni forma di attribuzione di senso corrisponde solo una modalità dei sensi. Una «ermeneutica dei sensi», questa la tesi di Lessing, non è pertanto l'autentica intenzione della Einheit der Sinne, che si configura piuttosto come mezzo per una «riabilitazione» della filosofia della natura, ovvero una «filosofia ermeneutica della natura». Insistendo sul debito con Dilthey, Lessing riposiziona la figura di Plessner nel panorama dell'ermeneutica novecentesca, al fianco di Heidegger, Gadamer, Lipps, Ritter e a vantaggio della possibilità – che però è ancora tutta da fondare – di un rapporto altro con la natura, non più oggetto di interventi tecnico-razionali, ma «partner dell'uomo» (Lessing finisce così per scontrarsi con quella linea interpretativa che privilegia una lettura dell'estesiologia plessneriana in chiave fenomenologico-intuitiva).
Ancora sulla filosofia dei sensi – ma come fondamento dell'antropologia a fianco della logica del vivente, che Plessner affida alle Stufen – si sofferma l'intervento di Marco Russo (Università di Salerno), che legge l'estesiologia plessneriana come «concreta specificazione umana della biofilosofia delle Stufen», perché «è il luogo in cui emerge il significato, colto nella sua intima relazione con il corpo agente, con il senso dei sensi, con il fare: la cultura, le performances dette arte, scienza, politica…». Russo può servirsi così tanto della Einheit der Sinne (1923) che della Anthropologie der Sinne (1970) per scandire i passaggi di quella che si configura come una «poetica del comportamento umano».
Joachim Fischer insiste sulle possibilità suggerite dall'antropologia filosofica per ripensare – «ricostruire sistematicamente» – tanto il pragmatismo americano quanto il versante francese della filosofia della vita, sulla scorta delle aperture consentite dalla categoria di "posizionalità eccentrica". La "posizionalità eccentrica" è ciò che fa dire a Plessner che l'uomo ha se stesso ed è se stesso, è un corpo vivente che ha un corpo inanimato (che può osservare come qualsiasi altro oggetto). L'eccentricità è la distanza da sé, la perdita della propria centralità rispetto al mondo, alle persone e alle cose: ma è anche in virtù di questa distanza che l'uomo vede se stesso. Ora, suggerisce Fischer, la categoria di "posizionalità eccentrica" è tale da poter essere pensata, dal punto di vista categoriale, «a partire dalla posizionalità stessa»: la posizionalità si fa estatica quando il mondo la attraversa e dischiude in lei una risonanza imprevedibile. Dischiudimento che è apertura al mondo. Riso e pianto indicano allora la disponibilità dell'essere umano «per sua natura» all'incontro «con ciò che è separato», «con l'assoluto». La categoria di "posizionalità eccentrica" forma così a partire dalla sua disposizione categoriale una «teoria dell'estasi», accorciando le distanze col pragmatismo americano e la filosofia francese della vita che riconoscono la danza, il riso, le lacrime, le convulsioni, l'ebbrezza, l'estasi, come un monopolio speciale dell'uomo.
Impossibile rendere conto qui della totalità degli interventi che si sono succeduti durante i lavori del congresso, ospitato prima a Palazzo Vecchio, poi a Palazzo Strozzi, Gabinetto Viesseux, al quale hanno partecipato più di duecento tra relatori, ospiti, studenti e studiosi. Non chiuderemo però senza aver segnalato il contributo di Gesa Lindemann (Università di Francoforte), che ha mostrato le vie che può intraprendere una teoria dell'espressività che voglia fare i conti con lo sviluppo delle scienze neuronali, dal pericolo di una manipolazione dei processi cerebrali all'illusione di poter guadagnare una dimensione di originaria innocenza e naturalezza (quella neuronale, appunto). Ben argomentate la tesi di Olivia Mitscherlich (Università di Uppsala) a favore di un Plessner pensatore del Moderno, che spinge la propria riflessione verso la filosofia della storia rinunciando così al primato della filosofia della natura (e sdoppiando il suo progetto di filosofia della vita), e quella di Matthias Schlossberger (Università di Potsdam) che partendo dal suo significato sovrastorico tenta di riassegnare all'idea di espressione nelle versioni scheleriana e plessneriana la funzione di paradigma fondativo dell'antropologia filosofica.
Due contributi, questi ultimi, da iscrivere all'ultima generazione degli studi su Plessner, un autore che – come speriamo di aver seppur sbrigativamente mostrato – sembra essersi definitivamente liberato dalle strettoie "iperpoliticizzanti" o troppo affrettate della ricezione del suo pensiero che ne hanno fatto per decenni ora l'allievo di Scheler, ora un esponente del conservatorismo tedesco, quasi mai un pensatore originale impegnato ad affrontare le sfide del suo tempo.

PUBBLICATO IL : 09-09-2006
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Tema
Helmuth Plessner. In occasione del III Congresso Internazionale
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