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Considerazioni “politiche”
Sull'antropologia filosofica di Helmuth Plessner
di Dario Gentili

 Negli ultimi anni, soprattutto in Germania e in Italia, l’opera di Helmuth Plessner sta attirando una grande attenzione negli ambiti di pensiero più diversi: filosofia della biologia, neuroscienze, filosofia dell’arte, biopolitica. Anzi, mai forse come oggi, essendo stata la sua prima ricezione limitata e penalizzata dal contemporaneo affermarsi della filosofia heideggeriana, l’antropologia filosofica di Plessner ha trovato finalmente la possibilità di una ricezione svincolata da pregiudizi e la possibilità di una effettiva attualità. È sintomatico della precedente marginalizzazione e dell’attuale interesse che, nel giro di pochi mesi, sono stati tradotti per la prima volta in italiano due tra gli scritti plessneriani più significativi di quel primo periodo della sua produzione: I gradi dell’organico e l’uomo (1928; un anno dopo la pubblicazione di Essere e tempo!) e Potere e natura umana (1931).
     Il poter disporre dei testi plessneriani in traduzione consente, inoltre, al lettore italiano non specialista di smarcare il pensiero di Plessner da quell’approccio manualistico che lo accomuna, oltre che al precursore Scheler, all’altro grande rappresentante dell’antropologia filosofica tedesca, Arnold Gehlen, in quanto entrambi condividono la concezione di un uomo per natura “essere carente” ed “essere difettivo” rispetto agli altri animali. Seppure tale approccio rappresenti la caratteristica dell’antropologia filosofica novecentesca, che raccoglie e sviluppa elementi sparsi nella cultura dell’epoca e in quella immediatamente predente (Herder in primis), le proposte di Plessner e Gehlen si distinguono nettamente. Senza volersi inoltrare analiticamente nel confronto – indicazioni chiarificatrici in tal senso si trovano sia nell’Introduzione a Potere e natura umana di Bruno Accarino che nel saggio di Ubaldo Fadini in I gradi dell’organico –, sia sufficiente rifarsi a quanto, nella Premessa alla seconda edizione de I gradi dell’organico (1965), lo stesso Plessner afferma a proposito di Gehlen: «Le sue tesi sono note e si possono tutte raggruppare attorno al pensiero della compensazione, a cui Herder ha dato la parola chiave dell’essere carente. […] [Gehlen offre] l’immagine di un essere vivente a cui, tuttavia, la formula herderiana dell’“invalido delle sue forze superiori” si accorda meno della mia caratterizzazione come combattente per la sua inferiorità. Allora, la specie homo viene delineata esclusivamente a partire dalla sua possibilità d’azione» [I gradi dell’organico e l’uomo, p. 16]. La pur fortunata categoria di “compensazione” non riesce a definire in modo perspicuo ed esauriente l’antropologia filosofica di Plessner, non riesce infatti a render pienamente conto di quell’eccedenza che la “posizione eccentrica” dell’uomo ogni volta di nuovo “esprime” e che di fatto lo distingue dagli altri animali. “Combattente per la sua inferiorità”: non solo Plessner intende svincolare la sua proposta da ogni possibile interpretazione pessimistica, ma indirettamente si riferisce a quella categoria di potere (Macht) in quanto potenza, poter-fare e saper-fare (können), che sarà un tema centrale di Potere e natura umana.
     E, in effetti, essendone anche lo scritto più sistematico e articolato, I gradi anticipano esplicitamente lo sviluppo dell’antropologia plessneriana: «Una cosa è assicurata dalle ricerche finora disponibili: la forma posizionale eccentrica condiziona la mondanità comune o la socialità dell’uomo, lo rende zoon politikon e influenza nel contempo la sua artificialità, il suo impulso creativo. Ci si chiede se dall’eccentricità non derivi in modo ugualmente originario non questo o quel tipo di bisogno espressivo, ma una caratteristica essenziale della vita umana che si debba designare come espressività, come espressività delle esteriorizzazioni della vita umana in generale. Naturalmente, una tale caratteristica fondamentale per l’uomo ha anche il valore di una costrizione che non soltanto entra nella sua vita, ma combatte contro la vita e vivendo conduce la sua vita.» [Ivi, p. 346]. L’essere “animale politico” è ciò che rende l’uomo propriamente “animale umano” e, al contempo, “uomo animale”: in quanto animale, l’uomo è “costretto” dal corpo (Körper) e dai suoi limiti e, insieme, pur senza potersene liberare, “costretto” a ex-primersi oltre di essi, a eccedere quel centro che schiaccia l’animale sulla sua necessità biologica e ne definisce la natura come un sistema chiuso. In altri termini: la possibilità, il potere che deriva all’uomo dalla sua posizione eccentrica non può essere agito per guadagnare la posizione di “centro”, tale potenza si ex-prime sempre e soltanto in direzione centrifuga. E l’artificialità a cui è costretto a ricorrere non può corrispondere affatto a un mezzo per recuperare definitivamente l’equilibrio e la simmetria rispetto alla natura: l’uomo non costruisce un mondo per assoggettare la natura, ma per la “caratteristica essenziale” della “sua” natura. In altri termini ancora: l’inquietudine della sua natura rende la vita umana “imperscrutabile” all’ontologia e a quell’analitica esistenziale dell’Esserci che dovrebbe precedere ogni considerazione sull’uomo e la vita in genere, secondo la critica che Plessner muove a Heidegger. La costitutiva e insopprimibile inquietudine dell’animale-uomo è ciò che, secondo Plessner, la politica mostra: «Infatti cerchiamo di risolvere la questione se la sfera politica in quanto tale, la quale è data con la primordiale relazione vitale di amico e nemico (Carl Schmitt), appartenga alla determinazione dell’uomo oppure soltanto all’esteriore e casuale condizione di esistenza fisica del suo essere; se la politica sia soltanto espressione della sua imperfezione il cui superamento (anche se forse non riuscirà mai nei fatti) è richiesto dall’ideale di un umanesimo autentico, e di un’educazione morale che lo liberi verso la propria essenza; se essa equivalga solo agli svantaggi dell’esistenza dell’uomo, dei quali egli è caduto vittima in quanto essere finito, però appunto soltanto caduto vittima.» [Potere e natura umana, p. 43]. Per essere pienamente comprensibile, questo brano di Plessner esigerebbe un riferimento a un altro suo scritto, Grenzen der Gemeinschaft. Eine Kritik des sozialen Radikalismus del 1924 [trad. it. I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale, a cura di B. Accarino, Laterza, Roma-Bari 2001], dove con il termine di comunità s’intende proprio l’“ideale di un umanesimo autentico”, mentre è nella sfera pubblica della società che trova espressione la più autentica dimensione politica – e, in quanto tale, dimensione inautentica per l’ontologia heideggeriana –, che, consapevole dell’insuperabile “imperfezione” della natura umana e del suo immanente carattere polemologico, deve necessariamente ricorrere all’artificio (Stato, cerimoniale, diplomazia, ruolo sociale) per governare una conflittualità in sé mai pacificabile definitivamente. Per non perdere di vista il contesto di Potere e natura umana, non ci soffermiamo ulteriormente sulle Grenzen – ammettendo quindi, senza concedere affatto, che, in un contesto storico-politico diverso da quello weimariano, non contraddistinto cioè dall’esigenza di governare una conflittualità predominante, un precario equilibrio tra la politica come artificio e il politico come conflittualità sia sempre recuperabile e che la prima non possa tendere a neutralizzare progressivamente il secondo quando è la forza dell’artificiosità e delle forme della politica a essere preponderante. Limitiamoci, pertanto, soltanto ad asciugare la prosa plessneriana dalla sua retorica: la politica appartiene alla determinazione dell’uomo, non è espressione di una contingente situazione di conflittualità, il cui superamento corrisponderebbe alla sua estinzione. L’antropologia filosofica di Plessner è intrinsecamente politica e Plessner stesso, infatti, in tal modo la definisce: antropologia politica.

    

Carl Schmitt era già presente nelle Grenzen attraverso la ricezione della Politische Theologie; in Potere e natura umana, invece, com’è evidente dal riferimento alla “primordiale relazione vitale di amico e nemico”, Plessner ha presente soprattutto il Concetto del ‘politico’. Tuttavia, mentre è proprio sulla relazione amico-nemico che si evidenzia la differenza con Schmitt, è invece nella “collocazione” del politico che Plessner assume la concezione schmittiana. La politica non delinea e definisce un ambito tra gli altri, con un suo oggetto peculiare: «[La politica] non è quindi primariamente un ambito, ma la situazione della vita umana, in cui la vita si dà non soltanto esteriormente e giuridicamente, ma radicalmente la sua costituzione, e si afferma nei confronti del, e nel, mondo. Essa è l’orizzonte in cui l’uomo conquista i riferimenti di senso di se stesso e del mondo, e l’intero apriori del suo dire e agire.» [Ivi, p. 111]. Determinando politicamente la costituzione stessa della vita umana, Plessner radicalizza ulteriormente la concezione del “giurista” Schmitt e tale connotazione propriamente antropologica diventa determinante per lo scarto che si consuma a proposito della relazione amico-nemico. Per Schmitt, politica è l’intensificazione del conflitto, possibile in ogni ambito, e tale intensificazione più è politica quanto più si avvicina al caso estremo, alla contrapposizione amico-nemico. Se l’approccio giuridico di Schmitt tende a definire il nemico – e, di conseguenza, l’amico –, perché la serietà del caso estremo impone la più netta demarcazione dei confini, Plessner ricorre alla nozione freudiana di unheimlich per ibridare la contrapposizione amico-nemico e renderne poroso il confine. La questione è sviluppata nel capitolo centrale di Potere e natura umana, L’uomo, un essere esposto, non a caso già disponibile in traduzione nell’ultimo numero della rivista “Forme di vita” (4/2005), a cura sempre di Accarino: «l’estraneo è il proprio, il familiare e il domestico nell’altro, ed in quanto altro è proprio per questo – ci rifacciamo qui ad una nozione di Freud – il perturbante. Se è lecita questa formulazione: l’uomo non “si” vede solo in un qui, ma anche nel là dell’altro. La sfera della familiarità non è quindi delimitata dalla “natura” e non si estende (quasi fosse extrastorica) solo fino ad un certo confine, ma, essendo aperta, dischiude all’uomo il carattere perturbante dell’altro nell’inafferrabile intrecciarsi del proprio con l’altro.» [Ivi, p. 102]. Certo, ci sarebbe molto da scrivere a proposito. Senza problematizzare come si dovrebbe la nozione schmittiana, ci sarebbe quantomeno da citare lo Schmitt di Ex Captivitate Salus: «Chi posso in generale riconoscere come mio nemico? Evidentemente soltanto colui che mi può mettere in questione. Riconoscendolo come nemico, riconosco ch’egli mi può mettere in questione. E chi può mettermi realmente in questione? Solo io stesso. O mio fratello. Ecco. L’Altro è mio fratello. L’Altro si rivela fratello mio, e il fratello, mio nemico.» [Schmitt, Ex Captivitate Salus, Adelphi, Milano1987, pp. 91-92]. Ci sarebbero da verificare e analizzare le apparenti convergenze tra il ricorso all’unheimlich di Plessner per leggere la concezione schmittiana di amico-nemico e la critica che Derrida muove alla medesima concezione in Politiques de l’amitié. Vorremmo, tuttavia, cavarcela per ora concentrando l’attenzione sul caso estremo (Ernstfall): il “luogo” effettivo della contrapposizione amico-nemico, che, come evidenzia Derrida, corrisponde al “caso di guerra” [Derrida, Politiche dell’amicizia, Raffaello Cortina, Milano 1995, p. 155]. Derrida così commenta: «Non c’è spazio, non c’è luogo – né in generale, né per un pensiero, per una definizione o per una distinzione – senza la possibilità della guerra.» [p. 182]. Per tornare a Plessner, sulla scorta di Derrida: e se mettessimo in questione proprio la necessità del caso estremo per definire la contrapposizione amico-nemico? Che sia proprio la conversione di tale contrapposizione in termini di unheimlich a porre fuori gioco il caso estremo? La sua serietà? È quanto, inoltre, ci suggerisce Bruno Accarino nella sua Introduzione a Potere e natura umana [pp. 11-18], dove concentra nella fondamentale categoria plessneriana dello Spiel la differenza determinante rispetto alla concezione schmittiana, alla “serietà” (Ernst) del caso (Fall) che impone la decisione (Entscheidung) produttrice della contrapposizione amico-nemico. Eppure la “decisione” resta una categoria fondamentale in Plessner. Essendo tuttavia dedotta dall’orizzonte dello Spiel e dalla “posizione eccentrica” dell’uomo che interviene a bilanciare, la decisione assume i caratteri del kairós e non quelli del krínein della crisi, del discriminare (ed è sempre in tal senso che bisogna considerare la critica plessneriana all’eurocentrismo): «Nella situazione l’uomo è condannato a venirne a capo. La sua posizione pretende da lui decisioni, ed è indifferente se esse gli si presentino (l’uomo della Grecia classica, l’europeo dotato di sensibilità umanistica direbbe: nella propria essenza) o meno come risolvibili mediante scelta o decisione, o mediante il libero atto di chi si dirige da sé. C’è così per l’uomo l’istante giusto, l’imperativo del momento, l’occasione mancata e quella ben utilizzata. E non soltanto in senso temporale. C’è la costellazione favorevole, lo spazio idoneo in senso proprio e figurato.» [Potere e natura umana, p. 106]. È dunque la posizione eccentrica dell’uomo che “pretende da lui decisioni”; decisioni tuttavia inutili a centrarne l’eccentricità, ma da giocare in società per governarne i conflitti senza poterli mai risolvere definitivamente. Decisione senza sovrano, si potrebbe sostenere non senza una certa forzatura. Decisione che non fonda il Chi della sovranità in senso schmittiano, piuttosto «il principio della vincolante imperscrutabilità di questo Cosa e di questo Chi» [p. 134]; la decisione mostra così la sua stessa infondatezza, la sua assenza di centro, la sua precarietà e contingenza, la sua artificiosità. Casi per decidere se ne danno e “l’uomo è condannato a venirne a capo”, ma il caso non è “grave”, bensì soltanto “opportuno”. E, inoltre, l’occasione può essere mancata. Ciò che è in gioco, la posizione eccentrica dell’uomo, è motivo della decisione e non oggetto del contendere: «Ogni sicurezza è strappata con la lotta all’insicurezza e genera nuova insicurezza.» [Ivi, p. 107].       

PUBBLICATO IL : 08-09-2006
@ SCRIVI A Dario Gentili
 
Tema
Helmuth Plessner. In occasione del III Congresso Internazionale
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