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L'attualitą della metafisica tra USA ed Europa
Intervista ad Achille Varzi
di Giovanni Cogliandro

In occasione del Festival di filosofia a Roma è stato possibile incontrare il prof. Achille Varzi, docente di logica e metafisica presso la Columbia University di New York, che ha voluto rispondere ad alcune domande concernenti il suo campo di ricerca.

 

D: Quale può essere oggi la Grundfrage, la domanda fondamentale per la filosofia?

R: Quella che mi ha appena fatto lei… Dopo di che direi senz’altro che una delle domande più impegnative riguarda la linea di demarcazione tra questioni relative al mondo e questioni che vertono invece sulla nostra rappresentazione del mondo. Ogni filosofo è tenuto a fare chiarezza e a prendere posizione su questa demarcazione, le cui ramificazioni interessano tutti i campi, dalla metafisica all’epistemologia all’etica. C’è una bella differenza tra attribuire un fondamento oggettivo alle verità e ai principi su cui si regge la nostra immagine del mondo (come vuole il filosofo realista) e ritenere invece che l’unico fondamento risieda nella nostra azione organizzatrice e negli schemi concettuali che la sottengono (come sostengono in varia misura gli idealisti, gli strutturalisti, o i costruttivisti post-moderni).

D: Achille Varzi si classifica come realista?

R: Sono realista in quanto ritengo il mondo indipendente da noi, ma sottolineo con forza che siamo noi a dare un senso alla realtà che ci circonda, imponendole una struttura e delle leggi che riflettono inevitabilmente i nostri interessi e la nostra conformazione cognitiva. Siamo noi, per esempio, a “ritagliare” gli oggetti dell’esperienza quotidiana tracciandone i confini. Parliamo di tavoli, città, persone come se fossero individui dotati di esistenza e identità auto-nome, ma a ben vedere ci sono solo porzioni di mondo che tavoleggiano, porzioni che mila-neggiano, porzioni che achillevarzeggiano, e buona parte dei problemi della filosofia derivano dal fatto che i concetti attraverso cui selezioniamo queste porzioni non hanno confini precisi. Oserei dire che anche l’etica risente di questo stato di cose: i problemi evidenziati dal dibattito sull’aborto o sull’eutanasia non dimostrano forse che il nostro concetto di persona—il concet-to che abbiamo di noi stessi—ha confini tutt’altro che chiari? Siamo tutti d’accordo sul fatto che bisogna rispettare la vita di ogni individuo, ma non siamo d’accordo su che cosa sia un individuo.

D: Più in particolare quali sono le domande fondamentali della metafisica contemporanea?

R: Credo si possano indicare cinque direttrici di ricerca fondamentali. In primo luogo vi è la questione relativa alla natura degli oggetti. Sin dai tempi del primo empirismo ci si interroga su questo: se gli oggetti siano sostanze, fasci di proprietà, porzioni di materia ritagliate con-venzionalmente (come dicevo poc’anzi). Un’altra questione concerne le condizioni di identità degli oggetti: a questa si associano i quesiti sulla persistenza nel tempo e sullo statuto del tempo medesimo, con le recenti ipotesi quadridimensionali che eliminano la durata e la tra-sformano in estensione. Una terza domanda fondamentale credo riguardi l’elaborazione di una buona teoria della causalità, da cui discende la possibilità stessa di imputare la responsabilità e, quindi, i rapporti tra metafisica ed etica. Dopo Hume, dopo le teorizzazioni recenti sui con-trofattuali, questo problema è sempre vivo e primario: anche da bambino mi è capitato di di-scutere con mio fratello riguardo a un pallone da lui calciato e da me deviato, andato a finire contro un vetro. Certo il vetro non si sarebbe rotto se io non avessi deviato la palla; ma nem-meno si sarebbe rotto se mio fratello non l’avesse calciata. Quindi di chi era la colpa? Da que-sto consegue la quarta domanda, relativa al determinismo: è sostenibile un determinismo spi-noziano o simile, che annulli il libero arbitrio? L’ultima domanda fondamentale è quella che definisce la sfera d’interesse dell’ontologia, cioè stabilire che cosa esiste. Prima ho parlato di porzioni di mondo, ma è evidente che bisogna essere più precisi. Sicuramente esistono i tavo-li, le città, le persone. Ma che dire del profumo di questo ciclamino, del colore di questa mela, del suono di questo flauto? Li includeremmo nell’inventario di ciò che esiste? Ci metteremmo l’incantevole melodia che stiamo ascoltando in questo momento? Ci metteremmo l’Italia? La Juventus? La Columbia University? E che dire dei baci, degli scandali, dei desideri, delle bat-tute di spirito, delle pettinature? Che dire dei programmi software installati sui nostri computer? Che genere di cose sono queste—esistono davvero o sono solo dei modi di dire?

D: Ci si è spesso interrogati negli ultimi anni sul rapporto tra indeterminatezza degli eventi, e questo di nuovo ci riporta alla connessione tra metafisica e morale.

R: Oggi l’indeterminatezza è popolare. Mi è capitato più volte di occuparmene, e la geografia offre molti spunti di riflessione in proposito. E’ lecito chiedersi ad esempio dove inizi il mon-te Cervino, o dove siano i confini di un mare. L’evento si mostra spesso indeterminato, come anche l’identità personale genera sempre dei problemi di determinazione. Il mondo stesso nel-la sua totalità si mostra indeterminato. Una domanda che va posta è se questa indeterminatez-za sia ontologica, cioè propria del mondo (de re) o se siano le nostre mappe a essere sfumate, e quindi l’indeterminatezza sia un problema gnoseologico, e quindi solo de dicto.

D: Jackson di recente ha scritto alcuni saggi sulla modalità di passare dalle questioni metafisi-che a quelle etiche. Come si pone nei confronti di questo rapporto?

R: Il passaggio è delicato. Se accettiamo una metafisica “deflazionista” come quella che ho illustrato sopra, allora non vi è alcun passaggio diretto tra i due ambiti di ricerca: in tal caso infatti i principi della morale non fanno parte del mondo ma del nostro modo di rappresentar-celo.

D: Nella sua produzione occupa un posto rilevante la narrazione: l’affabulazione filosofica ri-sulta quindi una modalità coinvolgente anche per i non professionisti della materia, ammesso che tali ci si possa definire.

R: In Italia non vi è l’abitudine di narrare racconti filosofici, mentre si è sviluppata questa atti-tudine nell’ambito della divulgazione scientifica, specialmente per quanto riguarda la fisica. Il mio intento però non è quello di divulgare ma proprio il narrare. Solo la narrazione è infatti in grado di sopportare il paradosso, quindi è in grado di sfidare il senso comune, cioè di andare oltre la doxa. Detta diversamente, in filosofia non si tratta di semplificare le cose complesse bensì di mostrare la sorprendente complessità che si nasconde tra le cose apparentemente più semplici, e forse il modo migliore per farlo è proprio quello di raccontare i piccoli incidenti filosofici nei quali possiamo imbatterci nella vita di tutti i giorni.

D: Questo era ben chiaro nell’antichità e nella tradizione dialogica che dal rinascimento è fio-rita, in particolare in alcuni filosofi e teologi italiani.

R: Certamente, infatti ai grandi metafisici era chiaro che il tema va mostrato, non descritto con pretese di completezza. Il mostrare è l’essenza del narrare.

D: Da ultimo vorrei porre la questione dei prolegomeni e dell’accesso alla filosofia.

R: per me l’essenza della filosofia risiede nelle domande che pone, prima ancora che nelle ri-sposte. In ogni caso, mi sembra evidente che una risposta non serve a nulla se non si com-prende la domanda a cui si riferisce. Ha presente il film Guida Galattica per autostoppisti? Se l’oracolo ci dicesse che la risposta alla Grundfrage è “Quarantasette”, senza però dirci qual è la Grundfrage, ne sapremmo come prima… Il problema appunto è quello di saper trovare la domanda giusta da porre, e questo problema è lo stimolo che può attraversare la storia non di una singola civiltà ma trasmigrare attraverso le ere della storia umana.


PUBBLICATO IL : 29-11-2006
@ SCRIVI A Giovanni Cogliandro
 
Tema
Festival di filosofia
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