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La filosofia di fronte alle domande dell'attualitą
Intervista a Giacomo Marramao
di Giorgio Fazio, Dario Gentili

D. Per cominciare, le chiedo un suo bilancio della prima edizione del Festival di Filosofia di Roma, in qualità di organizzatore, ma si tratta anche di una domanda che rivolgo al filosofo capace di leggere “trasversalmente” e “obliquamente” il fenomeno.

R. Premetto che il Festival è stato qualcosa d’imprevisto. Sono stato “trascinato” in quest’avventura: un’avventura e una fatica, in quanto questo prima Festival romano di Filosofia è stato organizzato in tre mesi soltanto, avendo il sindaco Veltroni sciolto la riserva appena dopo capodanno, quando ha avuto la garanzia degli sponsor. Abbiamo insomma organizzato in tre mesi quello che abitualmente si organizza in un anno. Sono stato contattato da un gruppo di giovani, in larga parte amici, che hanno fondato un’associazione, “Multiversum”, chiedendomi di presiederla ai fini dell’organizzazione di eventi per Roma legati alla filosofia. Dopo varie titubanze, ho deciso di accettare. In seguito, l’Assessorato alle Politiche culturali del Comune, a “Multiversum”, ha affiancato nell’organizzazione “Micromega”, nella persona del suo Direttore Paolo Flores D’Arcais. Abbiamo lavorato nella consapevolezza di avere alle spalle il precedente importante del Festival di Filosofia di Modena e non abbiamo mai fatto mistero che Modena fosse per noi un punto di riferimento. I due Festival sono idealmente gemellati: io stesso sono stato a Modena fin dalla sua prima edizione e il supervisore del Festival di Filosofia di Modena, Remo Bodei, è stato uno dei nostri ospiti e uno dei nostri interlocutori privilegiati. Come Modena, anche quello di Roma è un Festival a tema e abbiamo scelto la parola chiave “Instabilità” per caratterizzare questa prima edizione. “Instabilità” è in grado di fornire una chiave di lettura del nostro presente densa da un punto di vista concettuale, ma anche carica di straordinarie implicazioni dal punto di vista del rapporto tra la filosofia e gli altri linguaggi. La scommessa è stata rischiosa, ma a mio parere è stata vinta anche al di là delle nostre aspettative. Non bisogna dimenticare che Roma è una città grande e dispersiva, l’Auditorium è una sede straordinaria, ma ancora poco sperimentata per iniziative di questo genere; era stato la sede del Festival della Scienza, che ha avuto un discreto successo di pubblico, ma di gran lunga inferiore al nostro. Inoltre, noi abbiamo puntato su un impiego full-time dell’Auditorium, dalla mattina alla sera, con iniziative in contemporanea, con una partecipazione sempre al limite se non oltre la capienza degli spazi preposti: si è avuta un’eccellente risposta da parte del pubblico e, soprattutto, la possibilità di trasformare questo splendido spazio di Renzo Piano in una sorta di cittadella, di agorà, funzionale alla comunicazione di temi, questioni, problemi che investono la nostra attualità.

D. Vorrei riprendere e approfondire due degli aspetti evidenziati. Il confronto amichevole con Modena: quali analogie e differenze hanno i due Festival sia nell’organizzazione che negli obiettivi? E, per venire al secondo aspetto, che lettura Lei fornisce di questo grande successo di pubblico, di una partecipazione che si potrebbe definire “popolare” e come si misura la filosofia con tale “popolarità”?

R. Come già accennavo in precedenza, l’analogia più evidente con Modena è l’opzione tematica. Un’altra analogia consiste nella riproposizione dei nomi dei filosofi già intervenuti spesso a Modena; ma non può che essere così, dal momento che un Festival della Filosofia deve puntare a fornire la fotografia delle diverse posizioni e dei diversi modi di rispondere a determinati problemi nell’ambito della filosofia italiana e non possiamo di certo inventarci interlocutori nuovi. Dunque, i nomi su cui si sono strutturate le giornate del Festival sono quelli ben noti della filosofia italiana e, in parte, internazionale. Abbiamo tuttavia cercato e cercheremo ancor di più nei prossimi anni di promuovere giovani filosofi, che metteremo già in circolo sulla scena filosofica, facendo loro moderare dei dibattiti.
Veniamo alla differenza tra Roma e Modena. Il Festival di Modena coinvolge le piazze e i luoghi principali delle città di Modena, Sassuolo e Carpi e, quindi, trattandosi di realtà cittadine relativamente piccole, vi partecipa l’intera cittadinanza, senza esclusioni. Per la piazza principale di Modena può passarci chiunque e chiunque può fermarsi ad ascoltare la conferenza e il dibattito dei filosofi di turno. La filosofia in piazza è improponibile a Roma; si potrebbe ipotizzarlo per il futuro, ma per quest’edizione del Festival era impossibile. E comunque qualsiasi sia la piazza romana prescelta non si potrebbe mai coinvolgere l’intera cittadinanza. Abbiamo pertanto optato per una sede anche notevolmente capiente, ma dove bisognava recarsi appositamente per assistere al dibattito filosofico. Nonostante ciò, la risposta di pubblico è stata di gran lunga superiore alle previsioni. Edoardo Boncinelli diceva di essere molto elettrizzato da questa larga partecipazione, ma, nel suo toscano un po’ sardonico, aggiungeva anche: “ma non capisco perché ci vengono!”. Boncinelli ha ragione nel sostenere che è inutile cercare un principio di ragion sufficiente, una causa di quanto è avvenuto. Probabilmente le motivazioni che spingono molti a partecipare sono tra loro diverse e, tuttavia, ritengo che, per voler trovare una spiegazione, una tale partecipazione può esser fatta risalire all’accresciuta rilevanza che la filosofia è venuta assumendo nella nostra società e, più in generale, molti si rivolgono alla filosofia perché non hanno risposte da parte di altre istanze: vi è una sorta di desertificazione della sfera pubblica, dovuta al ritrarsi della politica, e, di conseguenza, la filosofia diventa la destinataria di una serie di appelli, d’interrogazioni. Torna pertanto la questione della funzione pubblica della filosofia, da non intendere però nel senso delle filosofie politiche normative, cioè come ricettario che deve essere approntato da qualche consigliere del principe di turno, per scoprire magari che lo stesso principe politico è nudo. Credo invece che questa funzione pubblica si manifesti nella capacità di affrontare coralmente, in un ampio confronto tra esperienze diverse, alcuni nodi del nostro presente. Mi sembra rivesta grande importanza una filosofia in grado di promuovere e delineare una sfera pubblica di tipo nuovo.

D. Diceva di una filosofia che prova a uscire da dinamiche di autoreferenzialità e, aprendosi non solo metaforicamente allo spazio della polis, prova a promuovere una sfera pubblica, che sconta il venir meno di una funzione aggregatrice svolta in passato dalla politica.
In questa operazione, quali sono i limiti oltre i quali la filosofia non può andare per non perdere il proprio statuto e la propria fisionomia? E, rovesciando la prospettiva, non è possibile vedere in operazioni di questo tipo anche l’espressione dell’indebolimento del luogo tradizionalmente deputato alla trasmissione e alla produzione di sapere filosofico, cioè l’università pubblica?


R. Innanzitutto vorrei sottolineare un punto: non è vero che lo spazio originario della filosofia sia quello dell’accademia. Se volgiamo lo sguardo al contesto in cui è nata la filosofia ci rendiamo conto che il suo spazio originario era quello della polis: la filosofia non nasce nell’accademia, nasce nello spazio della città, si chiude nell’accademia perché subisce un’emarginazione e una sconfitta, dopo il processo e la condanna a morte di Socrate. Come afferma molto chiaramente Hannah Arendt, anche se innegabilmente si organizza nell’accademia, la vocazione della filosofia non è quella dell’accademia.
Ciò detto, è importante comprendere come l’intento degli organizzatori non fosse quello di proiettare all’esterno, con il festival, lo spettro di posizioni presenti nelle università pubbliche, che avrebbe significato poi concretamente dar vita ad una sorta di istituzionalizzazione del rapporto tra le università romane e il festival. Il festival doveva conservare una sua propria autonomia: se si fosse proceduto nel senso di una lottizzazione tra le varie tendenze presenti nelle università romane, lo dico in maniera anche drastica, probabilmente non sarebbe andato così bene, prima di tutto in termini di successo di pubblico.
Nel festival di filosofia tenutosi a Roma si sono confrontate tendenze filosofiche diversissime: da posizioni filosofiche ispirate a Nietzsche, ad Heidegger, all’ermeneutica, a posizioni analitiche ed epistemologiche, da posizioni interessate a sviluppare un’ontologia curvata in senso analitico, passando per posizioni prettamente scientifiche, fino ad arrivare a tendenze estetizzanti e teologizzanti. In questo senso si potrebbe dire che abbiamo avuto la capacità di portare a rappresentazione l’intera gamma delle espressioni filosofiche contemporanee. È importante, tuttavia, evidenziare che non abbiamo voluto seguire alcun criterio di rappresentanza di qualche scolastica. I filosofi che hanno preso parte al festival si sono confrontati piuttosto in rapporto al tema e in rapporto al tema hanno prodotto discorsi nuovi, esibito nuove implicazioni: per molti versi, anzi, delle implicazioni sorprendenti.
Sebbene i due organizzatori, Paolo Flores e io, proveniamo da due università romane, da “La Sapienza” e da “Roma Tre”, e sebbene ci fossero professori di tutte e tre le università romane, abbiamo puntato ad offrire una panoramica delle posizioni filosofiche contemporanee, scegliendo gli interlocutori indipendentemente dal loro ruolo accademico e dalla loro appartenenza di scuola. Fra l’altro va sottolineato in questo contesto, che il festival ha anche avuto una folta rappresentanza straniera: un altro elemento ancora di forte discontinuità rispetto alle edizioni di Modena.
Per concludere, ritengo che il problema vero sia comprendere come la filosofia abbia molto da guadagnare da scambi con lo spazio pubblico come quelli dei festival di filosofia: occasioni come queste offrono la possibilità alla filosofia di definire meglio tutta una serie di problemi ad essa interni. Certo, i festival non sono convegni scientifici; ciò non vuol dire tuttavia che essi non siano capaci di far tesoro dei risultati cui è pervenuta la riflessione filosofica e la ricerca scientifica, aprendo al contempo il sapere specialistico al positivo influsso di stimoli esterni. La filosofia deve avere solo il coraggio di mettere in campo i risultati della propria riflessione, di metterli sul tappeto per far vedere quali sono le loro ricadute concrete per la società e la sfera pubblica democratica.

D. Lei ha sempre fatto propria un’idea di filosofia come filosofia del tempo, del proprio tempo: nel duplice significato di filosofia in grado di portare a consapevolezza le istanze che agitano al fondo il presente e, grazie alla distanza dalla mera attualità, in grado nello stesso tempo di operare nei confronti del presente fratture di criticità.
Questa impostazione sembra riconoscersi nell’impostazione complessiva che ha orientato il festival e soprattutto nel tema-filo conduttore scelto: instabilità. Tema che sembra fotografare fedelmente quanto si sperimenta attualmente. Eppure, ha permesso questo tema e il modo in cui è stato affrontato di sviluppare a pieno il secondo versante, quello della criticità nei confronti dell’attualità? Non si è dato troppo poco spazio, per esempio, in relazione alla centralità e all’urgenza che attualmente hanno, a questioni strettamente economiche o a un tema come quello della giustizia globale?

R. La giustizia globale è un’espressione che rischia di prestarsi ad usi di moda e a un utilizzo assai vago da un punto di vista filosofico. Bisognerebbe prima capire cosa si intende quando ci si appella ad un tema come quello della giustizia globale. Giustizia globale secondo chi? Secondo Rawls o secondo Benjamin, per esempio? Che cosa intendiamo noi con una espressione di questo genere, che può essere tranquillamente fatta propria anche da Bush?
In ogni caso, sebbene all’interno del festival abbiamo avuto uno spettro di posizioni estremamente vario, credo si possa riconoscere che siano stati affrontati alcuni temi del presente in maniera molto radicale: basti pensare alla tavola rotonda sulla politica che ha messo insieme filosofi come Severino con giornalisti del calibro di Scalfari, o alla tavola rotonda tenutasi nella giornata conclusiva sulla globalizzazione, che ha visto tra gli altri protagonisti il filosofo Homi Bhabha, che propone una lettura della globalizzazione e della ridislocazione dei poteri in corso estremamente radicale e innovativa, soprattutto se paragonata a molti dibattiti che vengono sviluppati attualmente in Italia e in Europa.
In linea generale, sono dell’opinione che la criticità non si manifesti nella capacità di elaborare equivalenti filosofici di qualche riformismo, né di promuovere ricette programmatiche per l’avvenire: la criticità si manifesta piuttosto nella capacità di proporre tematiche veramente nuove, riuscendo ad accostarsi al proprio presente facendo emergere di quest’ultimo i lati dinamici che sono veramente aperti alla trasformazione. Non è compito di un festival della filosofia, né più in generale della filosofia tout court, offrire piani di governo del mondo, se non altro perché un quadro di governo del mondo, se fosse già disponibile teoricamente, con ogni probabilità sarebbe molto sommario e scarsamente critico: le filosofie che hanno indicato meglio le soluzioni ai mali del mondo sono state le filosofie che ci hanno aiutato a guardare in faccia, senza veli, a quanto accade. È molto più efficace, quindi, andare a sviscerare una serie di nodi nel nostro presente dai quali possiamo effettivamente ricavare una critica.
In questo senso l’instabilità, come tema centrale della filosofia e dell’epistemologia contemporanea, era una questione che si prestava perfettamente all’apertura di un tale rapporto critico con la contemporaneità. A partire dal presupposto che noi viviamo in strutture fisiologicamente instabili e che ci dobbiamo muovere necessariamente all’interno di queste dimensioni, il problema critico che il festival implicitamente poneva era quello di risalire alle radici dell’instabilità del presente, provando a chiedere se la soluzione che noi possiamo tentare di elaborare ai problemi del nostro tempo debba necessariamente tagliare alla radice i fattori di instabilità o utilizzarli viceversa come dei fattori essenziali per il cambiamento: l’instabilità probabilmente è qualcosa che va assolutamente mantenuta e con cui dobbiamo imparare – ci piaccia o no – a fare i conti.

PUBBLICATO IL : 29-11-2006
@ SCRIVI A Giorgio Fazio, Dario Gentili
 
Tema
Festival di filosofia
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