Si sa che l’ascetismo è la via che porta
alla potenza. Un individuo resta volontariamente
al di qua delle sue possibilità
giuridiche o materiali, si astiene dalle azioni
che pure le leggi o le sue forze gli permetterebbero
e conserva così un certo margine, sempre
in crescita, tra ciò che potrebbe fare di
diritto e di fatto e ciò di cui si accontenta: ed
ecco che ogni privazione, ogni rinuncia si
ritrova, nel mondo mitico, a suo credito, assicurandogli
un margine corrispondente di possibilità
soprannaturali. Si guadagna così, nell’impossibile
e nel proibito, un al di là riservato
a lui soltanto che corrisponde esattamente
all’al di qua del possibile e del consentito che
aveva abbandonato. Tuttavia, tale scambio
costituisce in fondo un investimento, perché
ciò che egli disprezza nel profano, lo recupera
nel sacro. L’asceta che accresce i suoi poteri
via via che i suoi godimenti terreni diminuiscono
si allontana dagli uomini e si approssima
agli dèi e ne diventa presto rivale. Gli dèi
devono rapidamente indurlo in ogni sorta di
tentazione per spossessarlo di una potenza in
grado di oscurare la loro. Questo tema figura
abbondantemente nelle mitologie.
Al contrario, numerosi fatti conferiscono
all’eccesso una virtù altrettanto grande che alla
restrizione. Si sa da molto tempo a qual punto la
licenza sia inseparabile dalla festa. Probabilmente,
questa ha inizio con la raccolta e il rafforzamento
delle proibizioni. Il digiuno, il silenzio
sono auspicati. Ma sembra che questa tensione
esista solo per dare alla distensione, che
immediatamente segue, una forza ancor più
esplosiva. Anche al giorno d’oggi, quando, ormai
impoverite, le feste risaltano così poco sullo
sfondo grigio che costituisce la monotonia
della vita quotidiana e vi appaiono disperse,
sgretolate, quasi insabbiate, ancora vi si distingue
qualche traccia dello scatenamento collettivo
che fu la grande ragion d’essere delle originarie
feste popolari. Infatti, i mascheramenti
e le audacie ancora permesse a carnevale, le
libagioni e i balli del 14 luglio, perfino l’abbuffata
che conclude i congressi di Norimberga
testimoniano di questa medesima necessità
sociale e la proseguono. Non c’è festa, anche
se triste per definizione, che non comporti
almeno un accenno di eccesso e di baldoria:
basterebbe ricordare i banchetti funebri in
campagna. Allora e oggi, la festa si caratterizza
sempre per la danza, il canto, la frenesia,
l’ingestione di cibo, le bevute.
Nelle cosiddette civiltà primitive, il fenomeno
è sensibilmente più marcato rispetto alle
nostre feste. La festa durava diverse settimane,
diversi mesi, interrotti da periodi di riposo di
quattro o cinque giorni. Occorrevano spesso
diversi anni per raccogliere la quantità di viveri
e di ricchezze, che sarebbero stati non soltanto
consumati e dispensati con ostentazione, ma
anche distrutti o puramente e semplicemente
sperperati, in quanto lo sperpero e la distruzione,
forme dell’eccesso, rientravano...
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