Quasi un secolo fa Nicolai Hartmann segnalava l’esigenza di un recupero, mediato dalla profonda esperienza del moderno criticismo, dell’ontologia come orizzonte di problematizzazione filosofica dell’essere reale e ideale. L’istanza evocata non poteva esercitare grande fascino negli anni della dissoluzione concettuale in cui si espresse, e oggi, nella pur rediviva considerazione per l’ontologia in ambiente filosofico e scientifico, ben poco si conosce o riesce a raccogliere di quella domanda di responsabilità critica. L’ontologia di Hartmann non è infatti mera inventariazione né dogmatica edificazione categoriale. L’aporeticità è il tratto peculiare di un’ontologia che si costruisce come replica a problemi forse irresolubili, poiché l’ethos del filosofo esige l’ammissione di incomprensione, anziché la facile riconduzione sistematica di elementi enigmatici e difficilmente componibili a principi unificanti; un’onesta pratica intellettuale necessita di una ligia esibizione delle difficoltà – senza con ciò crogiolarsi nella narcisistica contemplazione della propria sofferenza – per poi riproporsi attraverso un arrischiato minimum di metafisica, al fine di elaborare una teoria del mondo (o meglio: di esplicitare la propria metafisica, in quanto ogni posizione filosofica, finanche quella protagorea, implica al proprio fondo una teoria generale e particolare dell’essere). In qualche modo l’ontologia hartmanniana si dispone su due piani paralleli e a tratti comunicanti. Il primo fa vivere il tema della fondazione dell’ontologia, cioè la definizione del suo inizio, delle sue categorie top level, e delle enormi difficoltà che la tradizione filosofica ha riscontrato nell’affisarle. Secondariamente, attraverso una scelta procedurale, il terreno della fondazione lascia il posto a quello della costruzione di un’intelaiatura categoriale del mondo reale. Entrambi i momenti si rivelano tuttavia, agli occhi del lettore critico, costituiti su una volontà pratica, incidente nella linea del percorso argomentativo. Mi spiego meglio. L’esigenza della fondazione ontologica s’insinua nella produzione hartmanniana a partire da una messa in discussione del superamento della metafisica, inteso quale filo conduttore di parte importante del pensiero occidentale da Kant a Husserl. È proprio attraverso una riconsiderazione complessiva del criticismo, dell’idealismo, del neokantismo e infine della fenomenologia trascendentale che Hartmann consegue l’idea dell’insufficienza di ogni concezione soggettivistica della costituzione del mondo. Ma la via negativa non conduce sempre al positivo attraverso sentieri lineari e indolori, anzi, l’esibizione hartmanniana di zone aporetiche nell’analisi del fenomeno della conoscenza non si limita a mettere in crisi ogni approccio soggettivistico, ma a rigore non è essa stessa in grado di conseguire per via argomentativa la dimostrazione dell’inseità oggettuale. Dal canto suo, la critica della metafisica che in buona parte della storia del pensiero occidentale si è costituita a partire dell’individuazione di antinomie, paradossi, e nodi concettuali non dipanabili in qualsiasi prospettiva ontologica, non ha proposto nella svolta soggettivistica (sia essa trascendentalista o solipsista) la soluzione di quegli enigmi derivanti dal conflitto tra ‘principio di coscienza’ (proprio della intentio obliqua, quale prospettiva filosofica che rivendica l’intrascendibilità coscienziale) e la ‘tesi di realtà’ (intentio recta, in primo luogo tipica della coscienza ingenua e delle scienze, poi riproposta dall’ontologia critica). In questo senso, l’ontologia hartmanniana va intesa nella sua parte ‘aporetica’ come un lavoro di domanda e di scavo intorno al problema dell’essere, mentre nella sua funzione fondazionale e nelle successive edificazioni categoriali deve poter esser riconosciuto un elemento in qualche modo ‘extra-filosofico’... [continua]
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