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Ontologia dell’incontraddittorio
La struttura della verità nel pensiero di Emanuele Severino
di Andrea Antonelli

1[1].Per gran parte della riflessione contemporanea l’istituzione di un sapere che gravita attorno a coordinate trascendentali, a nuclei di fondazione assoluta, a ragioni ultimative e perentorie, assume inevitabilmente, per quanto talora in modo non esplicito, i caratteri di un esorcismo rivolto alla presenza dell’alterità, della differenza e del tempo[2].

Il sistema di riferimento tipico del pensiero contemporaneo è infatti avvinto alla convinzione, maturata nel corso di almeno duecento anni di storia culturale dell’Occidente, che nessuna impostazione filosofica che sia intenzionalmente rivolta a perlustrare lo scenario fondamentale della realtà possa in verità ottenere ciò che vuole. Il giudizio relativo a tale impossibilità è guadagnato dal pensiero postmetafisico prevalentemente sulla base di considerazioni che trovano nell’elemento del linguaggio la giustificazione più adatta: è infatti il linguaggio[3] ciò che scalza le pretese fondative di un sapere che sia e voglia essere radicato, ultimamente, sul senso del principio della verità o sul senso della sua metafisicità. Perciò l’ontologia classica, intesa in modo retto nel suo sviluppo storico-teorico come sapere onto-teo-teleologico, viene omogeneamente giudicata come uno scongiuro del tempo e dei suoi assi linguistici mobilizzanti, e ciò implica che il sapere ontologico-metafisico si presenta dal punto di vista di un’analisi logico-linguistica (cioè analisi di funzioni semantiche, non invece di forme e sostanze), oppure ermeneutica (cioè esplicitazione dell’orizzonte storico-esistenziale dell’interpretazione), come una violenza teorica impartita alle cose e alla loro radice, il divenire, come cifra e compendio della differenza, del tempo e dell’alterità.

Tali affermazioni, mi pare, sono rinsaldate dal “recupero” (soprattutto in area analitica), ancora limitato ma, credo, tendenzialmente in ascesa, della dimensione ricomprensiva genericamente ontologica, sempre più di frequente evocata contro gli esiti della parcellizzazione e della frammentazione tipici della civiltà a stretta specializzazione scientifica, come quella impostasi negli ultimi cento anni in Europa e negli Stati Uniti. Eppure, il recupero in questione avviene attraverso la neutralizzazione degli effetti fondativi del sapere ontologico classico, poiché l’evocazione attuale dell’ontologia (e l’evocazione novecentesca dell’ontologico) sopprime direttamente una delle sue anime più attive, infatti di un sapere definibile, strutturalmente, come necessario alla chiarificazione del concetto di essere, in ogni campo esso appaia, si dichiara, quasi a volerne smorzare la radicalità, il funzionamento sotto certe condizioni e entro certi limiti [4].

Le ontologie novecentesche si impongono costitutivamente limitazioni di natura logico-linguistica ed interpretativa, infatti le condizioni del loro funzionamento sono state dettate sia da criteri di trasparenza semantica e di buon funzionamento sintattico, sia da criteri di adeguamento esistenziale negli atti interpretativi preposti alla formulazione del tema ontologico. Del resto, volendo andare ancora più a fondo nelle ragioni di tali limitazioni, è impossibile non rendersi conto che la dimensione del linguaggio nel Novecento è talmente pervasiva da costituire sia la base genetica di fondamentali configurazioni filosofiche, sia la tessitura dell’atteggiamento filosofico fondamentale nell’età della razionalità tecnoscientifica: il linguaggio, nei modi diversi e spesso contrastanti in cui esso è stato teorizzato, è, di fatto e per principio, l’ambiente e l’atmosfera del mondo contemporaneo. Da ciò l’assioma: ciò che è linguistico è la totalità di ciò che è, o, in modo equivalente, tutto ciò che supera la dimensione significativa dell’interpretare e dell’essere proposizionale è o incluso in tale dimensione (quindi la sua esistenza separata dalla linguisticità è un’illusione), oppure semplicemente non è. A tal punto è chiaro che l’imposizioni di criteri linguistici ad analisi che storicamente si sono presentate come svincolate (o quantomeno non subordinate) da dipendenze ed emergenze d’altra natura, rispetto a quella puramente basata sul senso dell’essere come tale, avviene per il soddisfacimento di un presupposto ideale legato a doppio nodo al modo in cui il pensiero contemporaneo assume il senso dell’essere nell’evidenza, come tempo e divenire. Perciò l’ontologia attuale è teoria del tempo, del divenire e di ciò che ne alimenta la flussione, cioè il linguaggio.



[1] Il seguente articolo ha una natura esclusivamente preambolare, perché si presenta, né più né meno, che come una serie di appunti, peraltro solo parzialmente capaci di sondare la profondità del tema ontologico, in margine al concetto di verità nel pensiero severiniano. Esso si presenta come una collezione di note, le quali rinviano analiticamente ad un lavoro critico sull’ontologia dell’incontraddittorio in corso d’opera, rispetto a cui ottengono un senso determinato.

[2] Su tali temi rimando al mio Essere divenire. Su J.Derrida, Carocci, Roma, 2003, in particolare pp.9-19.

[3] Quantomeno quella particolare flessione del suo senso, decantatasi ed impostasi all’interno delle dinamiche teoriche complesse del Novecento, per cui esso è maggiormente adeguato all’espressione del divenire se non si rappresenta come episteme, bensì come doxa e congettura.

[4] Di tale atteggiamento è sintomatica la posizione interpretativa di M.Dummett, relativa al problema del “Terzo regno” in G.Frege. In “Der Gedanke”-1918-Frege abbozza un sistema di filosofia ontologica antipsicologistica radicato sul pensiero inteso come ciò per cui ne va del problema della verità dell’enunciato, quindi come senso stabile ed immutabile dell’enunciato stesso. La giustificazione dell’intreccio tra il valore eterno ed immateriale del pensiero e la forma sensibile dell’enunciazione lo impegna verso un’ontologia di stati enunciativi, come controparti di strutture eterne del senso. Dummett crede che tale sequenza rappresenti semplicemente una “mitologia filosofica” (M.Dummett, Alle origini della filosofia analitica, Il Mulino, Bologna, 1990, pag.34), quando in realtà essa tenta di porsi come fondazione ontologica della semantica dell’enunciato, cioè come indicazione dello scenario costante del senso rispetto all’apprensione del carattere variante dell’enunciato significativo. In tal senso la verità satura la funzione proposizionale, proprio perché essa dipende dal pensiero intemporale. 

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PUBBLICATO IL : 13-01-2012
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Tema
Ontologie. Storia e prospettive della domanda sull’ente
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