La serie di brevi saggi che seguono questa sintetica introduzione sono stati scritti da un gruppo di studenti di un seminario tenuto nel quadro del corso di Estetica del professor Pietro Montani, della Sapienza Università di Roma, per l’anno accademico 2013-2014. Il corso, inserendosi in una serie dedicata alle forme dell’esperienza estetica, ha trattato alcuni importanti paradigmi teorici e filosofici sul ruolo del lettore nei processi di comprensione e interpretazione di un testo letterario. I paradigmi in questione sono quello esposto da Umberto Eco in Lector in fabula, quello presentato da Wolfgang Iser ne L’atto della lettura e quello contenuto nella seconda parte di Verità e metodo di Hans Georg Gadamer. Sono proposte che forse non appariranno più à la page in una temperie culturale che da circa venti anni predilige l’ibridazione degli stili di analisi e il prevalere dell’attualità sul metodo. Tale temperie culturale si colloca a pieno titolo nelle manifestazioni più estreme del cosiddetto postmoderno. È però, forse, una vicenda che volge al tramonto, mentre i paradigmi e i metodi potrebbero conoscere una nuova stagione di fortuna. E questo per due ragioni: da un lato, è un’esigenza della critica il fatto di mettere ciclicamente a punto la sua “cassetta degli attrezzi”; dall’altro lato, la rapida ascesa di nuove forme di comunicazione interattive, non sempre intelligenti, i social network in testa, invita lo studioso a cercare nella teoria letteraria gli strumenti per pensare la cooperazione interpretativa che il lettore deve prestare al testo per rendere possibile la sua ricezione. Una tale prestazione prefigura un modello di interattività utile per pensare fuori dagli schemi prestabiliti dalle piattaforme le nuove forme di comunicazione e restituirle alla loro creatività e alla produttività.
Andiamo, anche se molto brevemente, nel dettaglio dei tre modelli. Eco propone il paradigma più metodico e scientifico di cooperazione interpretativa. Esso presuppone una pragmatica, ricostruita a partire dalla teoria della semiosi illimitata derivata dalla semiotica di Charles S. Peirce, poi rielaborata da Eco in chamskyano e greimasiano, la quale prevede che un testo non possa essere capito se si prescinde dalla sua “struttura profonda”, fatta di inferenze richieste al lettore per rendere pienamente operativa la “macchina pigra” del testo. Ogni testo rinvia non solo a un “dizionario” fatto di definizioni lessicali, ma soprattutto a una “enciclopedia”, senza cui il lettore non comprenderebbe il senso di ciò che legge. Da questa premessa Eco ricava l’idea che i testi letterari sono costruiti su dispositivi che consentono al lettore di addestrare la sua capacità di fare inferenze interpretative: il piacere prodotto dalla lettura sarebbe il risultato di questa “palestra” mentale. Ci sono infatti testi – Eco riporta alcuni esempi illuminanti – che esibiscono il rapporto tra superficie e struttura profonda del testo in modo esemplare: si pensi all’analisi di Un drame bien parisien di Alphonse Allais, che Eco mette in appendice a Lector in fabula.
Wolfgang Iser si rifà alla tradizione estetica, anche se rivista secondo le indicazioni della fenomenologia husserliana e del pragmatismo deweyano, la quale assegna all’esperienza e alla riflessione del lettore un ruolo centrale nella definizione del senso del testo. L’afferramento di un testo non avviene in un colpo solo, ma richiede l’attivazione di un “punto di vista errante” che consenta al lettore di orientarsi nella narrazione alla ricerca dei punti di riferimento necessari per ricostruirne la trama. La coscienza del lettore deve costituirsi come correlato del testo, producendo continue Gestalten, configurazioni di senso che il lettore è chiamato a confermare a modificare o a eliminare nel corso della lettura. Il senso e il piacere della lettura restano più aperti nella prospettiva di Iser: essi si definiscono sempre in riferimento all’esperienza del lettore. Ciò non significa che il senso di un testo è arbitrario: una storia prevede spesso situazioni, rispetto alle quali il lettore è tenuto a prendere una decisione e scegliere un percorso di lettura piuttosto che un altro. È il caso per Iser, grande esperto di letteratura inglese, di Vanity Fair di Thackeray, in cui i caratteri dei personaggi possono cambiare a seconda della diversa configurazione assunta dall’esperienza del lettore. La lettura ha dunque una valenza etica e politica, indirizzando il lettore verso il compimento di una scelta, la presa di posizione e l’assunzione di una visione delle cose.
L’impatto etico dell’esperienza della lettura è ancora più forte in Gadamer. In questo caso non ci si riferisce più all’esperienza riflessiva e soggettiva del lettore: all’Erlebnis per dirla in tedesco, all’“esperienza vissuta”. Gadamer pensa a un’esperienza che comporta un reale attraversamento del mondo da parte del soggetto, che è chiamato a riprendere posizione in esso. Si compie così uno scambio tra soggetto e mondo, che realizza una reciproca trasformazione. Questa esperienza è Erfahrung, termine che rimanda tanto al viaggiare (fahren) quanto al pericolo (Gefahr). In un simile impianto filosofico si rende necessario recuperare l’ermeneutica come “arte” dell’interpretazione dei testi contro la filologia moderna, che si propone come “scienza” esatta sul modello delle scienze naturali. Dell’ermeneutica va recuperata in particolare una categoria, centrale nell’ermeneutica teologica e ancora di più nell’ermeneutica giuridica e oggi caduta in disuso, perché inservibile ai fini di una lettura “scientifica” dei testi. Questa categoria è la applicatio: l’applicazione di un testo al caso contingente, preso come realtà in cui il senso del testo vive e si rinnova modificandosi. L’ermeneutica giuridica che ha in mente Gadamer è in primo luogo l’attività del giudice, il quale interpreta il testo della legge per emettere una sentenza sul caso che gli è sottoposto. Questo modello di interpretazione letteraria, allargato oltre i confini dell’ermeneutica giuridica, serve a Gadamer per dimostrare che l’esperienza delle lettura comporta sempre l’inserirsi del lettore in una tradizione come trasmissione di contenuti storici. È un movimento di ricollocamento nel flusso di una tradizione, che prevede però un forte impegno creativo e produttivo da parte del lettore, il quale non solo riceve un’eredità attraverso il testo, la rielabora e la consegna a future riletture, ma fa propria l’esperienza dell’“urto” avvenuto tra l’“orizzonte di mondo” del testo e il suo: non è assicurata in partenza la riuscita dell’operazione che porterà a riannodare il filo della tradizione.
Il seminario nasceva dall’idea di mettere concretamente a lavoro questi tre modelli di lettura con un testo scelto ad hoc. La scelta è caduta su un racconto di Tommaso Landolfi: La moglie di Gogol’, contenuto nella raccolta Ombre, la cui prima edizione risale al 1954. La prima uscita del racconto su rivista è però di dieci anni più vecchia; anche il manoscritto reca l’indicazione dell’anno 1944. Come spesso accade nelle opere di Landolfi, il testo è elusivo, dallo stile limpido solo in apparenza. La sua trama è presto detta. Foma Paskalovič narra un episodio della vita del grande scrittore russo Gogol’, di cui Foma si presenta come uno dei più intimi amici. Il narratore è anzi biografo dello scrittore: il testo di Landolfi ha la forma di un frammento della biografia di Gogol’ che il narratore sta scrivendo. Foma è un personaggio non privo di ambiguità: pur dichiarandosi grande ammiratore (e amico intimo) dello scrittore, egli si accinge a raccontare uno degli episodi più scabrosi della vita di Gogol’. Lo scrittore sarebbe stato “sposato” per molti anni con un “fantoccio” di gomma di nome Caracas. Il fantoccio ha forme femminili, variabili a seconda dei capricci del marito: in verità a Caracas si indirizzano tutte le manie, gli sbalzi di umore e le eccentricità dello scrittore. La morbosità del rapporto di Gogol’ con Caracas è descritta in modo così sottile e ambiguo, che il lettore non può non chiedersi se Caracas sia veramente solo un fantoccio, o se non abbia invece una qualche sua peculiare “personalità”. È inutile dire che l’esito del racconto non scioglierà affatto i dubbi del lettore, anzi li amplificherà. L’epilogo narratoci da Foma, che ne è stato l’unico testimone, è infatti l’“uccisione” di Caracas da parte di Gogol’, che la gonfia con l’apposita pompa fino a farla scoppiare. Non solo: insieme alla “moglie” lo scrittore elimina il “figlio” di lei (e di lui?). Si tratta di un fantoccio di gomma più piccolo, che Gogol’ getta nel fuoco; Foma dichiara di aver solo intravisto questo ultimo gesto, amplificando il disorientamento di chi legge. Ma non manca di evocare l’altro, più noto, rogo compiuto da Gogol’ nell’ultima parte della sua vita, tormentata da scrupoli religiosi: la distruzione del manoscritto della seconda parte delle Anime morte, che lo scrittore giudicava forse immorale e di cui voleva evitare la pubblicazione. Si sarà capito che Caracas è forse una metafora dell’opera letteraria dello scrittore. Va aggiunto che il narratore, amico e biografo si chiama Foma Paskalovič, ossia Tommaso figlio di Pasquale; e Landolfi si chiamava appunto Tommaso, mentre suo padre rispondeva al nome di Pasquale, come la critica ha immediatamente notato. È dunque in gioco il rapporto di Landolfi con Gogol’? Occorre ricordare che, oltre a essere lui stesso scrittore, Landolfi fu un importante traduttore, in particolare dal russo, e tradusse proprio I racconti di San Pietroburgo di Gogol’.
Nel testo di Landolfi c’è, come si vede bene, molta materia per esercitare i modelli di cooperazione interpretativa di Eco, Iser e Gadamer. Ciò è accaduto nel corso del seminario che ho avuto il piacere di condurre insieme al professor Montani, coinvolgendo gli studenti del suo corso. Insieme agli studenti – e alla dottoressa Irene Bulla, dottoranda di italianistica presso la Columbia University ed esperta di Landolfi, che ha introdotto i lavori del seminario con un profilo storico-critico dello scrittore – ci siamo sforzati di vedere in quale misura i diversi paradigmi rispondevano a un testo così complesso e se, lasciando cadere l’ipotesi che fosse possibile dare di questo una “soluzione”, consentivano di farne emergere aspetti che non balzano immediatamente agli occhi del lettore “ingenuo”.
Alcuni tra questi studenti hanno riunito le loro considerazioni e osservazioni in brevi testi, che si configurano come veri e propri tentativi di interpretazione del racconto landolfiano. Gli studenti sono, in rigoroso ordine alfabetico, Ivan Altieri, Eleonora Angeloni, Nicola Campagnani, Lucrezia Ercolani e Alma Mileto. Senza entrare nel merito dei singoli testi, mi limito a dire che questi si presentano come altrettante “verifiche dei poteri” di singoli paradigmi teorici; a volte fanno interagire più paradigmi insieme, riconoscendo però sempre i limiti e le possibilità di ciascuno e scegliendo un paradigma di riferimento; a volte invece azzardano la formulazione di un’ipotesi di lettura, inevitabilmente orientata da uno specifico modello di lettura, o aperta all’apporto di elementi teorici esterni, come la psicoanalisi. Mi permetto solo di aggiungere che i testi degli studenti testimoniano di un fermento, di un’esigenza di far lavorare quanto appreso come strumento di interpretazione della realtà, con ampiezza di sguardo, ma anche attraverso la ricerca di un rigore e di una specificità dei problemi da affrontare, che non sono sempre rintracciabili nella cultura corrente (e dominante) nella nostra società degli ultimi anni, almeno fuori dalle mura del tanto bistrattato mondo dell’università e della ricerca.
Mi sembra giusto, per concludere davvero questa introduzione, riportare le mie considerazioni sul racconto di Landolfi, esposte nel corso del seminario grosso modo in questa forma. Anche se La moglie di Gogol’ è un testo così complesso da lasciare spazio a perlustrazioni tanto semiotiche quanto estetiche ed ermeneutiche, mi è sembrato più promettente pensare questo racconto come una forma di applicatio: in esso si metterebbe in questione quale genere di effetto possa produrre nel mondo del lettore la lettura di un testo privo di immediate pretese giuridiche, religiose o etiche. L’evocazione dei «Fragori di guerra intorno» in esergo rimanda all’anno della stesura, il 1944, ma apre anche a una dimensione storica, a cui il lettore è chiamato a dare senso secondo la sua esperienza. Il testo testimonierebbe non della letteratura presa come genere separato, ma di una condizione a cui qualsiasi testo può rimandare: l’eccedenza del senso del testo non solo rispetto alla lettera, ma anche rispetto allo spirito della lettera, così com’è stato codificato secondo parametri e tecniche definiti. Un testo vive perciò nell’attesa che un lettore lo traduca: almeno questo è quanto sostiene Walter Benjamin nel saggio su Il compito del traduttore. Qui Benjamin scrive: «La traducibilità inerisce essenzialmente a certe opere: ciò non significa che la loro traduzione sia essenziale per le opere stesse, ma vuol dire che un determinato significato inerente agli originali si manifesta nella loro traducibilità» (Benjamin 1995, 40). L’essenza, o senso, della traduzione è chiarita da Benjamin alcune righe dopo: «È solo quando si riconosce vita a tutto ciò di cui si dà storia e che non è solo lo scenario di essa, che si rende giustizia al concetto di vita. Poiché è in base alla storia, e non alla natura, […] che va determinato, in ultima istanza, l’ambito della vita» (Benjamin 1995, 41). Nell’esperienza della traduzione ne andrebbe, più che dell’adesione a una storia, della possibilità di esperire come storia la vita, rendendole così giustizia. Ciò che differenzia da Benjamin la prospettiva aperta da Landolfi, mantenendolo più vicino a Gadamer, è l’assenza di un orizzonte escatologico, presente invece, se è il caso di dirlo, nel saggio benjamianiano, dove si legge:
Se nella traduzione si esprime l’affinità delle lingue, ciò non ha luogo per una vaga somiglianza della riproduzione e dell’originale. […] Piuttosto, ogni affinità metastorica delle lingue consiste in ciò che in ciascuna di esse, presa come un tutto, è intesa una sola e medesima cosa […]: la pura lingua. (Benjamin 1995, 44)
Landolfi non tenta di far uscire le lingue umane dalla Torre di Babele, in cui sarebbero state rinchiuse; suggerisce anzi che non c’è altra condizione per le lingue umane che la rinuncia alla redenzione e alla purezza. Egli fa dire al suo alter ego Foma all’inizio del racconto: «né vorrò io affidare a labile giudizio, cioè nascondere, quello che solo alla fine del tempo potrebbe essere semmai sanamente giudicato» (Landolfi 1994, 19). Non c’è “metastoria” in Landolfi: c’è solo storia, comprensibile a partire dagli snodi che si formano dove noi decidiamo di annodare il nostro presente a un altro presente, di cui avvertiamo il trapassare: dove sentiamo “fragori di guerra intorno”. È paradossale, se pensiamo che Landolfi è uno degli scrittori meno politici del ’900 italiano. Ma è paradossale solo se assumiamo come indice di politicità della scrittura l’impegno o la militanza, mentre dobbiamo piuttosto vedere nel lavoro compiuto da Landolfi sulla parola una rielaborazione dell’eccedenza dell’azione umana rispetto al mondo. Meglio ancora: dell’eccedenza della parola, che è stata per la tradizione occidentale la forma eminente di azione etica e politica, rispetto al suo carattere di praxis pubblica. È un destino che Landolfi condivide in fondo con il suo eroe Gogol’, se è vero quanto sostiene Boris Ejchenbaum contro la critica marxista ufficiale, cioè che Il cappotto, forse il più celebre tra i Racconti di San Pietroburgo scritti da Gogol’ (e tradotti da Landolfi), non è l’esemplare di una poetica realista, ma è l’esempio di una ricerca sulle condizioni del dire, della parola: è un lavoro sullo skaz della narrazione orale, sulla fabula (Ejchenbaum 1968, 264-266). Mi si consenta: sulla “favella” che potenzialmente risuona in ogni scrittura, affiorando nel lavoro di traduzione quando il testo perde per un attimo il contatto con lo scritto nel passaggio da una lingua a un’altra.
Bibliografia
T. Landolfi, La moglie di Gogol’, in Ombre, Milano, Adelphi 1994, pp. 19-32.
W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi 1995, pp. 39-52.
B. Ejchenbaum, Come è fatto «Il cappotto» di Gogol’, tr. it. di C. Riccio, in T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, Torino, Einaudi 1968, pp. 249-273.
U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani 1979.
W. Iser, L’atto della lettura, tr. it. di R. Granafei, rev. di C. Dini, Bologna, Il Mulino 1987.
H. G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. di G. Vattimo, Milano, Bompiani 2000.
AA.VV., L’illuminista, n. 22-23, gennaio/agosto 2008.
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